Stampa Articolo

Un siciliano nel Wadi el-Natrun (Egitto) alla fine del Cinquecento

 Monaci copti 1898 (foto Dept)

Monaci copti 1898 (foto Dept)

di   Gaetano Nicastro

I milioni di turisti che ogni anno visitano l’Egitto sono attratti,  soprattutto, dalle maestose rovine faraoniche che lo costellano, fino alle lontane propaggini della Nubia; sono meno coloro che raggiungono Alessandria, con le sue atmosfere ellenistiche. Pochi, se non pochissimi, si spingono a visitare i segni viventi di una delle più antiche comunità cristiane, l’Egitto cristiano o copto, che conta tutt’ora da sei a otto milioni di fedeli (il numero varia secondo che a fornire i dati siano fonti governative od ecclesiastiche).

Il termine «copto» deriva, com’è noto,  dalla contaminazione araba di eguptioi, identificando gli egiziani stessi, conquistati al Cristianesimo dall’evangelista Marco, sicché storicamente è proprio della Chiesa egiziana, per la stragrande maggioranza precalcedonese (esiste altresì una Chiesa copto-cattolica minoritaria) [1]. L’Egitto rimane altresì la culla del monachesimo con i suoi antichissimi monasteri, centri d’arte e di spiritualità, che hanno ricevuto nuovo impulso dall’opera del grande patriarca Shenuda III, scomparso nel 2012.

Di quest’arricchimento ha lasciato traccia  un frate siciliano del Cinquecento, in una relazione al Cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santoro della fine del secolo (5 aprile 1585), esistente nel manoscritto della Biblioteca Comunale di Palermo 2QqC77, con il titolo — di mano diversa — «Notizie della Palestina scritte nel 1585 dal P. Francesco di Sicilia, ossia di Messina, minor osservante, viaggiatore, di que’ luoghi procuratore»[2]. Poco sappiamo dell’autore, dovendosi sgombrare il campo dalle errate attribuzioni tentate in una nota apposta al manoscritto: rimane solo certo che trattasi di un Minore Osservante siciliano — fra’ Francesco di Sicilia — del convento francescano di Messina (ma non necessariamente messinese, come dal titolo aggiunto al manoscritto).

L’Autore aveva intrapreso quel viaggio per rispondere ad una «obbedienza» del Padre Guardiano (Custode) di Terra Santa pervenutagli il 10 maggio dell’anno 1582, che gli ingiungeva di «andare a seminare il verbo d’Iddio nella città di Aleppo». La carenza di navi in partenza aveva consentito di partire solo il 21 giugno, approfittando di una nave genovese diretta a «Tripoli di Soria» (Siria, oggi in Libano). La durata del viaggio era prevista in quindici giorni, ma  dopo nove giorni di buona navigazione, «ad hora di vespro» del primo di luglio, si mosse una «crudel tempesta»,  «si ruppe l’arboro, si divisero le vele, si perse il timone», tanto da dover pensare «di momento in momento di donar la vita a Dio benedetto»; la calma, dopo ventiquattro ore, consentì di raggiungere la meta con altri cinque giorni di navigazione.

foto n.1Ad attendere il Frate, all’arrivo, i confratelli di Gerusalemme e tre gesuiti, con i quali ebbe modo di visitare i monasteri maroniti del Monte Libano, con le «cerimonie loro antiche». Segue la visita dei Luoghi Santi, con Giaffa («lo Zaffo»), Lida, Rama (Nabi Ramwil), Emmaus, fino a Gerusalemme e a Betlemme («Bettalem»); il «deserto di San Giovanbattista», la Samaria, Naim, Nazareth, il Monte Tabor, il mare di Tiberiade; infine, per la strada di Damasco, verso Aleppo, ove si fermerà un intero anno, partecipando al Cardinale le proprie emozioni e la commozione.

È poi la volta del Cairo, con quindici giorni di cammino «sopra schiena di cameli», e di Alessandria, con due lunghi soggiorni durante i quali non manca di occuparsi della condizione e del riscatto degli schiavi razziati lungo le coste del Mediterraneo o in mare, che, come afferma, «con lo divino aiuto hò liberato molti, et molti schiavi et anco molti rinnegati, mandatoli in questi nostri paesi et reconciliatoli con la divina Maiestà». È ad Alessandria che il nostro frate matura la volontà di andare «all’asprissimi deserti di san Macario vicino alla Thebaide per vedere quelli santissimi corpi, che ivi sono, et hanno quelli monaci, che ivi habitano». È questa la parte di maggior interesse delle Notizie, che fornisce informazioni sul vissuto dei monasteri del deserto di Scete nel secolo XVI, l’attuale Wadi el-Natrun[3], culla del monachesimo.

La valle, per buona parte sotto il livello del mare, ormai facilmente raggiungibile attraverso la strada che congiunge il Cairo ad Alessandria (Desert Road), con leggere deviazioni,  era allora fra «deserti nelli quali non si vede vestigio veruno, … tutti piani sabbiosi et arena», mancavano le piste e il Nostro «haveva sentito», e non ignorava, «li gran pericoli et li gran travagli che si passano».

La partenza da Alessandria «alli 13 d’aprile alle 13 hore», a cavallo, «con gran compagnia de’ turchi, et anco con uno interprete per la lingua», non senza aver  raccomandato l’anima a Dio, «pensandoci havere a rimanere alcun di noi cibo di leoni ed altre crudelissime fiere». A mezza notte, finalmente, la carovana raggiunse «una villa de’ mori domandata Cheaus» (Shibin el-Kom?), dove gli ufficiali turchi, per i quali si erano muniti di lettere commendatizie, fornirono due buone guide che consentirono di raggiungere la meta, munite com’erano di «bussolette legate al collo a guisa de’ marinari» e contando sulle stelle per la notte; la loro presenza non attenuava «il travaglio» «per lo timor nocturno, et parte per quello di animali feroci» benché non mancassero di «archibugi, arme in haste, et anco archi e frezze».

foto2Dopo due giorni di cammino, la mattina del terzo finalmente, «ad uscita di sole», «forse dieci miglia da noi un monticello di arena, che pareva come nuvoletta nell’aria», il primo monastero, «grandissimo, cinto di mura a torno». Le Notizie non ne forniscono il nome, ma la chiesa principale, dedicata alla Vergine (El Adra), consente di individuarlo nel monastero Deir el Baramus («appartenente ai Romani», per avere ospitato,  secondo antiche tradizioni, due giovani romani, forse — addirittura — figli dell’imperatore), probabilmente il primo insediamento monastico del Wadi el-Natrun (Capuani, 1999: 77-80).

Apprendiamo notizie sulla vita dei monaci, la presenza di anziani eremiti, la propensione verso gli ospiti cattolici, i loro riti e la loro convinzione di far parte della Chiesa universale:

Vedutici quelli Padri, in segno d’allegrezza sonarono due campanelle, cosa insolita in Turchia; ci aperseno le porte et vennero ad imbracciarci in segno di carità; i loro vestiti erano di lana bigia oscura con li scapucci  in capo a guisa di padri di San Benedetto, et li volti macilentissimi et attenuati, scalzi, barbati con le chiome lunghe et nere, … ci riferirono che ivi nella campagna loro vi erano molti vecchi di età di anni cento e venticinque, e pur stavano forti et gagliardi come huomini di quaranta anni. Et con li propri occhi ho visto detti vecchi stare quattro hore di horologio  con li piedi nudi sopra una stuoia, però appoggiati con un bastone, che a mirarli ci accendevano tanto a devotione, che con penna non lo posso esprimere.

Conosciamo la loro spiritualità, i riti:

Entrati dunque dentro al cortile, due di quei padri portorno molti paramenti di chiesa di velluti, di damaschi, rasi et altre sorti, a modo di gabbani serrati dinanzi et ad ognuno di noi ce ne posero un di sopra, e poi ci posero a due a due a guisa di processione et loro innanzi con la croce, et ogni uno di essi teneva in mano un pezzetto di legno con un martelletto di busso, et battevano quei legni insieme, et andammo verso la chiesa, et essi cantavano alcune laudi alla gloriosa madre Maria in lingua loro arabesca. Condotti in chiesa, fecimo un poco di oratione con molte candele accese; ci mostrarono una vesta della gloriosa Madre di Christo, la quale usava nell’Egitto.
Del divin culto son zelantissimi. Celebrano mattino e mezzanotte, e tutte l’altre  hore canoniche all’hora debita; una sola messa celebrano il giorno, benché fossero molti sacerdoti; stanno in silentio perpetuo.
  Del dormire dormono sulla nuda terra, et sotto il capo un sasso.

Finite le cerimonie era giunta l’ora di rifocillarsi:

fummo condotti in una stanza grande con molte stuoie in terra, nelle quali sopra quelle sedemmo all’usanza loro. Ci portarono da mangiare un poco di pane fatto di orzo, mele di cannamele et due vasi di fava …, senza oglio, et una giarra di acqua mezza salsa … Il cibo loro ordinario è fava mal cotta o ceceri, senza oglio con un poco di sale, et alle volte a mollo con acqua fredda; e così le mangiano; mai bevono vino, né tampoco mangiano carne, né caso et ova: sempre fanno vita quadragesimale, mangiano una volta il giorno.

Il buon Frate non si trattiene dall’ammirare l’austerità di vita e la spiritualità di quei monaci tanto … da temere per la propria salvezza eterna e da trarne

in vederli …. tanto spavento, che pare che niun di noi altri non facendo simil penitenza possa veder le porte del paradiso. Continuo si disciplinano. Continuo piangono la passione di Christo.

La permanenza a el Baramus  si protrae un intero giorno e una notte; poi è la volta degli altri monasteri della zona: i monasteri di San Bishoi (Deir Anba Bishoi),  dei Siriani (Deir es Surian, che fornirà centinaia di manoscritti al British Museum)  (Capuani, 1999: 67-77) e di San Giovanni il Nano (non più esistente), anzitutto, con «molti corpi de’ santi loro … che odoravano come un campo di viole».

Da ultimo il più distante monastero di San Macario (Deir Abu Makarios), legato alla vita del santo, che, dopo un periodo di crisi, ha assistito ad una notevole rinascita dalla seconda metà del secolo scorso (1969), sotto la guida dell’egumeno Matta el-Meskin [4], giungendo a contare un centinaio di monaci (Capuani,1999: 60-66). Agli ospiti è riservata la calda accoglienza che negli altri, lieti i religiosi che fossero giunti sani e salvi poiché, come riferiranno,«la notte innanzi vennero nove leoni, et vi ammazzarono due cani quali tenevano fuori».

foto3È stata forse questa una delle ultime occasioni per ammirare in tutta la sua maestosità la chiesa di San Macario nella sua struttura originaria, che occupava anche parte dell’attuale cortile, andata distrutta nella sua parte occidentale, ove i monaci

«mostrarono il corpo del glorioso Santo Macario in una cassa coperta di raso verde, tutto intiero … come dormisse, odorifero di cose pretiose; et lo tengono in una fenestra con tre altri corpi dei santi discepoli di San Macario con molte lampade accese»[5].

Sono altri due giorni di contatti fraterni. Il giorno che precedette la partenza gli ospiti furono condotti

«tra quei aspri deserti per spatio di dieci miglia … et era in vero come un mare, et detti padri (ci) dissero che nel tempo del glorioso Santo Macario quel piano era mare salso», utilizzato da «navi, galee, et altri vascelli da rubare quei santi monasteri», finché — secondo una tradizione, o la leggenda — «per volontà d’Iddio non potendo più sopportare simil crudeltà verso gli suoi servi, detto mare si seccò»; le strane forme di alcuni affioramenti rocciosi e della sabbia modellata dal vento convinsero il Nostro di aver constatato «con gli occhi propri» la presenza di «vascelli intieri conversi in pietra, artigherie, arbori di navi, pezzi di corda, àncora, et barchette picciole tutte converse in pietre».

Egli era uomo del suo tempo, non poteva dimenticare che quei monaci erano «schismatici» e non sottolinearne — «dubitando Iddio non mi punisse tacendo» — gli «errori», per i quali «si perderanno queste loro tante astinentie, tanti digiuni et tante discipline, tante lacrime, tante vigilie, tante lunghe orationi, tanto sangue sparso», provocandone lo sgomento; gli interlocutori si dichiaravano «afflitti della … separazione» e pronti «volontierissimamente» a «donarsi» «alla Chiesa santa» cattolica ove «venisse comandato» dal loro patriarca, protestandosi «cristiani, et … preparati cento volte il giorno pigliar morte per lo nome di Christo». Il Francescano non cessa, comunque, di rimanere ammirato della loro fede profonda e delle costanti opere di pietà; non dubita che «se … fussero suggetti alla Chiesa santa romana sariano tanti Illarioni, tanti Macarj, tanti Hieronimi, tanti Antoni et tanti Pauli», … tanti santi.

 La visita si conclude con queste considerazioni e lungo la strada del ritorno, del deserto,

«ci furono di quei padri che vennero dieci miglia appresso piangendo e   lacrimando, che li pareva ad essi separarsi l’anima dal corpo per la nostra partenza».

Nel riferire le proprie esperienze p. Francesco può ripetere, con San Giovanni,

«quello che vedemo con gli occhi nostri proprii, et quel che con le proprie mani toccammo,   facciamo ampia testimonianza a voi».
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
[1] Come si è più di recente accertato il rifiuto del Concilio di Calcedonia (a. 451) è derivato soprattutto da una diversa concezione filosofica dei concetti di natura e persona, sì da rimanere contestato l’attributo di monofisiti (i Copti si dichiarano miafisiti) e da consentire alcune dichiarazioni comuni con la Chiesa cattolica (Elli, I).
[2] Il manoscritto è stato pubblicato nel 1881, con alcuni errori di trascrizione, a cura di V. Di Giovanni, nelle Nuove Effemeridi Siciliane, t. XII, pp. 65 ss., e riproposto, nel 1886, in Orbis Seraphicus: 752-758, testi non facilmente reperibili; un estratto in: G. Lumbroso,  Ritocchi ed aggiunte ai «Descrittori italiani dell’Egitto e di Alessandria», in Atti Lincei, cl. sc. morali, stor. e fil., s. IV, vol. X, 1892: 211.
[3] Valle del natron: un carbonato di sodio che rimane sul terreno con l’evaporazione ed il prosciugamento delle ampie pozze, veri e propri laghetti che si formano nella depressione, che veniva raccolto ed utilizzato per l’imbalsamazione dagli antichi egizi.
[4] «Matteo il povero»: Yusuf Iskandar (1919-2006), già farmacista, aderendo ai più rigorosi consigli evangelici aveva venduto la farmacia distribuendo i suoi averi ai poveri per abbracciare la vita monastica.
[5]  Nella chiesa si conservano tuttora i corpi di altri due santi di nome Macario (San Macario d’Alessandria e San Macario martire, vescovo di Tkaw), e quello di san Giovanni il Nano.
Riferimenti bibliografici
Capuani M. (1999), Egitto copto, Jaka Book, Milano;
Elli A. (2003), Storia della Chiesa Copta. I. L’Egitto romano-bizantino e Cristiano; II. L’Egitto arabo e musulmano; III. Appendici, bibliografia, indici, Franciscan Printing Press, Il Cairo –  Gerusalemme;
Maged S.  A. M., Moussa M. (cur.) (2009), Christianithy and monasticism in Wadi al- Natrun, American University of Cairo; Orbis Seraphicus (1886), De missionibus Fratrum Minorum, t. secundus,  a c. di Marcellino da Civezza e T. Domenichelli, Coll. San Bonaventura, Quaracchi.  

_______________________________________________________________

Gaetano Nicastro, entrato giovanissimo in magistratura, ne ha percorso tutti i gradi, fino a presidente della Corte Suprema di Cassazione ed è stato insignito della più alta onorificenza al merito della Repubblica, quella di cavaliere di gran croce. Studioso di storia siciliana, ha dedicato tre volumi alle “Relationes ad limina” della Chiesa di Mazara; molti suoi saggi sono pubblicati su Mediterranea. Ricerche storiche e su Memorie e Rendiconti dell’Accademia degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale.

_______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>