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Pluriverso bioculturale ed ecoterritorialismo. Temi e questioni aperte

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di Letizia Bindi 

Ecoterritorialismo è un testo collettaneo che invita a ripensare in chiave critica lo sviluppo dei territori, la progettazione localizzata, i processi decisionali circa le possibili alternative all’ontologia post-modernista della crescita, delle megacities, dei grandi centri economici, di potere, di progettazione immaginando invece soluzioni molteplici, calate nei diversi contesti, basate sui “patrimoni territoriali”. Emerge da qui l’associazione con il Pluriverso di cui hanno parlato Arturo Escobar, Alberto Acosta, Federico Demaria, Ariel Salleh e Ashish Kothari (2021) e il nesso con la nozione di post-sviluppo e di “modi d’essere relazionali” che mi pare riecheggino in alcune riflessioni di Magnaghi, Mazzocca e di tutti gli altri autori di questo volume collettaneo.

Lo ricorda soprattutto per il monito che ne deriva a ripensare in modo radicale le politiche nei territori e dei territori, a riarticolare la relazione tra dimensione individuale e associativa, soggettiva e comunitaria, personale e politica dell’intervento e dell’azione di post-sviluppo – per dirla ancora con il testo a cura Acosta e degli altri – o di trasformazione in chiave ecoterritorialista del patrimonio bio-culturale di luoghi e comunità. La nozione stessa di ‘patrimonio territoriale’ sembra riecheggiare quella di patrimonio bioculturale maturata nella riflessione antropologica di ascendenza latinoamericana, poi mutuata anche in altri campi etnografici e di riflessione teorico-metodologica, specialmente attenta all’intreccio inscindibile e sempre più critico, frizionato, contraddittorio e per ciò stesso complesso tra dimensione umana e più-che-umana, tra ontologie antropocentriche e nuovi approcci alle relazioni e alle coesistenze che hanno caratterizzato e caratterizzano alcuni dei dibattiti più stimolanti in ambito socio-antropologico, ma anche in quelle dell’economia politica di questo ultimo decennio.

Fatto salvo questo primo quadro di riflessione di fondo sollecitato dalla lettura del testo in questione, la raccolta di saggi si presenta come un lavoro condiviso di rifondazione e rilancio del discorso territorialista e delle prassi di progettazione e pianificazione da esso derivanti nella cornice, sicuramente più affollata di alcuni anni fa, dei diversi apporti alla cruciale questione della “coscienza dei luoghi”, del contrasto ai processi di marginalizzazione, di infragilimento e spopolamento delle aree svantaggiate, interne, rurali, montane rispetto ai grandi poli urbani, anch’essi, tuttavia, toccati al loro interno da ulteriori segmentazioni: le aree periferiche da recuperare, il verde periurbano, le connessioni tra aree rurali e consumo cittadino, quello che nel testo viene articolato da più punti di vista come “bioregione urbana” e che in altri contesti è stata definita, seppur con venature diverse, “metromontagna” (Rossi, Barbera 2021), “continuum rur-urbano” (Bauer, Roux 1976), “terzo paesaggio” (Clément 2005; Lai-Breda 2011).

13593Sono i temi che in questo ultimo decennio, in special modo, sono stati affrontati da diversi ambiti disciplinari di dibattito e di intervento: il bilancio critico dei programmi di sviluppo rurale (LEADER, PSR), i Piani Paesaggistici e Territoriali – più volte menzionati in questo lavoro e oggetto di alcuni saggi specifici -, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, più recentemente, l’attuale accelerazione innescata dalla pandemia e dalla successiva attivazione delle varie linee di intervento territoriale del PNRR.

Sin dai primi saggi introduttivi si addensa intorno alla cruciale e mai pienamente sciolta variabile dello sviluppo sostenibile calato nei territori e attraversato in modo più energico dal tema ecologico e climatico, dai rischi di una narrazione della green economy non sufficientemente supportata da una green society, dall’urgenza di reindirizzare la pianificazione e la progettazione territoriale in una chiave di democrazia partecipativa. È un testo che invita a rileggere in chiave multidisciplinare l’approccio territorialista che multidisciplinare, seppur a partire da un nucleo urbanistico-paesaggistico, lo è sempre stato sin dalla sua fondazione allargando lo spettro alle competenze delle scienze sociali, delle “geografie ibride” (Whatmore 2002), degli studi sulle trasformazioni ambientali, sulle fonti rinnovabili, sulle vecchie e nuove economie dell’agricoltura tradizionale, dell’agro-industria, più recentemente dell’agro-ecologia, ma soprattutto con una speciale attenzione ai temi delle comunità di cura e delle comunità operose come chiavi di lettura di una nuova società possibile (Bonomi 2010, 2023: 124 e s.).

È così che la lettura dei diversi saggi anziché verticalmente può essere proposta attraverso l’articolazione e ri-articolazione di una serie di nozioni che hanno attraversato e attraversano il dibattito scientifico in materia di sostenibilità, trasformazione sociale e politica, cambiamenti e frizioni territoriali e che in special modo toccano corde molto vicine anche alla più recente riflessione antropologica.

Tra questi temi-nozioni il primo a occupare un posto sicuramente centrale quanto ambivalente è proprio quello di comunità, continuamente evocato nei vari saggi, implicitamente contenuto nella nozione stessa di “bioregione urbana” e connesso ai “mondi di vita” – si direbbe con Wittgestein – che attraversano questi territori necessariamente plurali che intrecciano dimensioni metropolitane e aree interne, ossi e polpe del Paese e dei Paesi. Che idea di comunità emerge da questi testi? Per un’antropologa il concetto può apparire in alcuni passaggi maneggiato in modo a tratti univoco, opaco, laddove da decenni la riflessione socio-antropologica ha lavorato per restituire l’imprescindibile frammentarietà delle comunità, la natura controversa, molteplice, caleidoscopica di questa definizione. Quali comunità sono protagoniste dei processi di formazione di una “bioregione urbana”? Quali comunità abitano i paesi, i piccoli luoghi delle “remote and rural areas” – come le definiscono tecnicamente i bandi europei per la ricerca e la rigenerazione –, o ancora le periferie urbane, i centri storici gentrificati? Quale comunità è pensata in questi saggi come soggetto culturale e politico di intervento, di azione, di trasformazione territoriale?

communitas-origine-e-destino-della-comunita-roberto-1Talvolta sembra mancare, infatti, la consapevolezza che all’interno anche delle più piccole collettività, abitano componenti, aspirazioni, posture rispetto alle questioni cruciali per lo sviluppo territoriale molto diverse le une dalle altre e rispetto alle quali si impone con forza l’urgenza di un’indagine etnografica puntuale, vigile, capace di evitare gli approcci valutativi e di osservare/documentare/restituire puntualmente le diverse posizioni in campo, le scelte plurime e le aspettative che le diverse componenti culturali, sociali, economiche e politiche presenti in uno stesso territorio animano. Al tempo stesso è la nozione stessa di communitas (Esposito 1997) ad essere carica, storicamente e nelle diverse dinamiche sociali contemporanee, di molteplici accezioni: quella dell’abitare e appartenere heideggeriano, della com-proprietà che accomuna e che divide riscontrata in Hobbes o nella riflessione provocatoria di Bataille. Al tempo stesso la nozione di comunità matura anche nel quadro della scuola olivettiana che ha a lungo influenzato anche la pianificazione e la progettazione urbanistica, quella anglosassone connessa dapprima agli studi americani sviluppati intorno ai paesi e alla provincia italiana della ricostruzione e poi quella impiegata per definire le mappe di comunità – parish maps – negli anni Ottanta, e ancora quella neo-comunitaria successiva al passaggio di secolo che prova a ripensare un’alternativa condivisa alle logiche estrattive e solipsistiche del turbocapitalismo, che guarda alla ‘decrescita’ o alla mitigazione degli aspetti più conflittuali e competitivi delle società e culture contemporanee ispirate al post-capitalismo globale. In tal senso non è ingenuo né semplice fare riferimento alla nozione di comunità parlando di trasformazione, di cambiamento, di rigenerazione e di ecoterritorialismo perché dipende in larga parte da questa nozione plurale, smerigliata la diversa accezione e lettura che potremo dare di questi concetti e processi. 

Immediatamente connesso all’ambivalente concetto di comunità, vi è quello altrettanto cruciale in antropologia della “coscienza dei luoghi” o del “senso dei luoghi” – per riprendere in questo caso sia la definizione di Becattini (2015)  che quella di Teti (2004) riguardanti quell’approccio olistico alla località capace di maturare nelle collettività un senso di appartenenza e al tempo stesso di ingaggio che è poi la “prima radice” (Weil 1949, non a caso tradotto da Franco Fortini in italiano nel 1954 per le Edizioni di Comunità) di ogni azione politica. Il senso dei luoghi ha a che vedere con la nozione di identità, ma anche con la variabilità degli sguardi, come «incontro tra uomini con pensieri e stati d’animo particolari e mutevoli nel tempo» (Teti 2004: 7) che non può prescindere dalle categorie di appartenenza, seppur esercitate criticamente così come “la coscienza dei luoghi” si presenta come «passaggio intermedio per riacquistare la responsabilità sociale» (Becattini 2015:1). L’ecoterritorialismo, in tal senso, deve essere letto come una prospettiva di progettazione territoriale che tiene insieme passato e presente, saperi territorializzati e innovazione sociale, che si pone come osservazione critica dei territori antagonista alle logiche di mercato, come fatto sociale – si potrebbe dire – che riarticola in modo nuovo e maggiormente cooperativo, democratico la relazione tra soggetti diversi in un dato spazio.

i__id6374_mw600__1xLa terza nozione meritevole di riflessione che emerge da questo testo è sicuramente quella di patrimonio territoriale. Essa tiene insieme e solleva in modo ambivalente il nesso tra capitale simbolico, sociale e culturale di un dato gruppo o comunità e l’insieme delle risorse ambientali nelle disponibilità di quella stessa collettività, rinvia in modo articolato sia alla stratificazione critica recente intorno alla nozione di paesaggio così come la patrimonializzazione di porzioni sempre più ingenti di territori, pratiche, saperi in una logica che però fa somigliare sempre più il processo di messa in valore alla reificazione/mercificazione di ciò che si patrimonializza.

Se nel testo la nozione di patrimonio territoriale si qualifica piuttosto come capitale simbolico e materiale utile alla rigenerazione delle comunità di pratica, alla loro coscienza di luogo e dunque al loro potenziale di resilienza dinanzi ai processi di logoramento dei luoghi minori da parte dei grandi centri e capitali globali, dall’altra però la nozione di patrimonio territoriale rinvia anche a un rischio di crescente mercificazione / reificazione dei paesaggi così come delle risorse primarie derivanti dai suoli e dai luoghi come elementi competitivi nel gioco sociale dell’attrattività dei luoghi. Al tempo stesso, come già per la comunità, la nozione di patrimonio non è affatto neutra e scevra da ambivalenze e stratificazioni di poteri, anzi in certo modo si presenta come un campo di esercizio di poteri specialmente affollato: di esperti, di policy-makers, di attori locali, di grandi istituzioni globali, di imprenditori interessati a sfruttare il valore patrimoniale di certi luoghi per massimizzare i profitti di certi loro prodotti e così via. Dunque nuovamente, se da un lato il patrimonio territoriale può essere piuttosto semplicemente considerato come l’insieme di alcuni tratti distintivi di una data area geografica e culturale come elemento di valorizzazione e rigenerazione della stessa, dall’altro si deve riconsiderarne, in linea con una ormai più che ventennale tradizione critica, la sua assoluta non neutralità, i suoi aspetti conflittuali, la sua valenza non univoca, bensì fratta, plurale.

Proprio in connessione a questa pluralità di visioni e accezioni del patrimonio territoriale, deve essere analogamente considerata anche la nozione di partecipazione, di allargamento della base democratica dei processi di sviluppo, di inclusione ‘dal basso’ nelle prassi ecoterritorialiste. Qui si apre, per l’insieme delle scienze sociali accanto a quelle della pianificazione e progettazione territoriale, un tema molto delicato, oggi particolarmente orientato verso la green transition e la sostenibilità, ma assai raramente declinato e osservato nelle sue molteplici implicazioni teoriche e metodologiche. Che vuol dire, infatti, partecipare? E di quale partecipazione si tratta quando si ragiona di politiche territoriali? In che modo è possibile concretamente includere la base più ampia della cittadinanza di un dato territorio nei processi decisionali che lo riguardano senza incorrere nelle semplificatorie rappresentazioni delle assemblee partecipative, delle presentazioni pubbliche dei piani paesaggistici e territoriali, dei laboratori organizzati qua e là nel quadro di progetti urbani e rurali di ascolto e design condiviso?

Questi processi che già rappresentano sicuramente un passo in avanti nel tentativo di progettazione consapevole dei territori e valorizzazione condivisa delle vocazioni di un dato luogo, non hanno infatti mai ricevuto, sino ad oggi, una loro sistematizzazione, raramente sono stati articolati in tappe puntualmente definite e scandite, misurate da indicatori o da sistemi qualitativi di accertamento del grado di consapevolezza e partecipazione. Quello della partecipazione è un nodo cruciale per questo tipo di riflessione, in tal senso: ha a che vedere con l’informazione e la formazione della cittadinanza ai temi esperti su cui è opportuno deliberare insieme, pone un tema di public engagement per gli studiosi a vario titolo coinvolti nei processi, solleva una questione di modalità per l’espressione di tutti rispetto ai nodi salienti, alle scelte di rilievo per il territorio e il suo sviluppo sostenibile: democrazia diretta, digitale, opinioni e dibattiti in rete, ritorno alla piazza, al porta a porta, all’informazione/formazione attraverso canali radiofonici, televisivi, a mezzo stampa.

71nexftzrylCome portare a conoscenza e mettere in condizione realmente tutte e tutti di partecipare al processo decisionale? Come rendere edotti tutte e tutti anche di questioni rilevanti, ma spesso fortemente tecniche che da sempre vengono escluse dal dibattito pubblico proprio perché ostiche e per ciò stesso appannaggio di pochi, esperti e dei poteri che li ingaggiano e li foraggiano? Come si può sottrarre questo ambito di decisioni cruciali al tecnicismo e ai tecnocrati o ancora al controllo esclusivo dei grandi capitali riconsegnandolo alle comunità locali nella loro interna molteplicità e stratificazione? Il primo tema che si pone in materia di partecipazione è infatti quello della comunicazione (informativa/formativa/divulgativa), quindi delle modalità e occasioni reali di espressione pacata e collegiale delle posizioni in campo, poi della mediazione tra queste stesse posizioni e quindi di gestione condivisa e monitoraggio consapevole degli impatti da parte del maggior numero di cittadine e cittadini abitanti un dato luogo o comunque interessate/i ad esso, giacché vi sono molte e molti che si occupano e sono determinate/i a partecipare delle sorti di luoghi anche se non ne sono formalmente residenti, in conseguenza anche del cambiamento della nostra stessa forma di abitare, oggi più fluida, plurale, in molti casi, fatta di molte appartenenze, di “molteplici patrie” (Cirese 2003).

Qui ci soccorrono alcuni casi di studio presentati nel mostrare le modalità di partecipazione della cittadinanza diffusa ai Piani Paesaggistici e Territoriali o ancora nella realizzazione di alcune esperienze di rigenerazione di aree urbane e peri-urbane, a dimostrazione, se ancora ve ne fosse bisogno, di quanto sia importante la dimensione etnografica, contestuale per la comprensione di questi processi e accanto ad essa una dimensione multidisciplinare dell’osservazione e della programmazione che si caratterizza come un’altra delle variabili rilevanti per l’analisi di questo testo.  Lavorare sui territori implica necessariamente un intreccio di discipline e di saperi che la scuola territorialista ha da sempre praticato, in realtà, ma che ora come non mai è richiesta di fronte alla maggiore complessità delle sfide ecoterritorialiste, si potrebbe inferire. Non solo l’intreccio, in certo modo consueto, tra la pianificazione urbanistica e la storia, la geografia, l’antropologia culturale e le scienze sociali più complessivamente, ma il dialogo imprescindibile con la dimensione economica, etica, con le scienze della salute e della cura, con la psicologia sociale e dei gruppi, le scienze della vita e delle coesistenze tra uomini e animali, tra uomini e natura. Nel testo di cui si sta discutendo l’evocazione della multidisciplinarietà come chiave di lettura non trova tuttavia una puntuale declinazione, comprensibilmente, giacché un simile programma richiederebbe e richiederà trattazioni metodologiche e casi empirici specifici per poter essere articolato in modo adeguato. Ne deriva anzi, un richiamo verso questo approfondimento metodologico, questo confronto tra approcci e discipline come una delle modalità di attuazione concreta del programma ecoterritorialista che nel testo si intende fondare/rifondare.

L’altro termine chiave che richiede senza dubbio un approfondimento di lettura e discussione a partire dal testo è quello di sviluppo e di sviluppo sostenibile articolato e in dinamica tensione dialogica con il termine, anch’esso oggi sovraesposto nel dibattito, di rigenerazione territoriale. Entrambi fanno riferimento alle risultanze e agli obiettivi, in certo senso, dell’azione e del progetto ecoterritorialista: innescare meccanismi condivisi di trasformazione delle comunità e dei territori capaci di portare maggior benessere, inclusione, felicità tra gli abitanti di un dato territorio. Un maggior benessere territoriale, si potrebbe dire, forse con formula più neutra e maggiormente declinata sul registro delle cosiddette “comunità della cura”, cui si è già fatto riferimento. È il grande tema delle società postcapitalistiche strette nella dicotomia della massimizzazione dei profitti, della sempre maggiore globalizzazione delle merci ancorché ammantata di nuove ri-territorializzazioni e welfare, di salute nella sua accezione olistica di One Health per l’uomo e l’ambiente e l’insieme di tutti gli esseri che con esso si interfacciano.

Come coniugare sostenibilità ed efficienza? Cura e performance economiche sempre crescenti? Su questo si sono avvicendate nei decenni teorie e dibattiti infiniti: dai cantori della decrescita felice o necessaria all’articolazione di una nuova economia civile o circolare, dal pensiero delle economie fondamentali a quello del rispetto condiviso per il patrimonio bioculturale come bene comune. La prospettiva ecoterritorialista si inquadra in questa scia, la declina nella forma della progettazione, prova a pensare soluzioni urbane, periurbane, rur-urbane di armonizzazione tra nuove agro-ecologie di precisione e innovazione sociale in agricoltura, tra città del quarto d’ora e bioregioni urbane in cui i bisogni, le risorse e le aspirazioni alla migliore qualità di vita sono realizzate attraverso progetti tagliati sulle esigenze locali, derivanti dall’ascolto e dalla partecipazione in una nuova forma di appartenenza territoriale che è in primo luogo una nuova forma della cittadinanza attiva e consapevole.

Ma che si intende davvero per rigenerazione? Altro termine, tra l’altro come già resilienza, preso a prestito dalle scienze della vita, in una crescente ricorrenza della metafora organicistica del corpo sociale e politico che ci riporta alle origini stesse della sociologia e allo stesso organicismo positivistico e alle sue più recenti riattualizzazioni. Se il processo rigenerativo non può essere assolutamente ridotto alla sola riqualificazione materiale degli insediamenti, ma alla loro dinamica e vivente dimensione umana, esso ha essenzialmente a che vedere con il ri-abitare (Leshem-Pinkerton 2016; De Rossi 2018), con la riattivazione di coesione e legame sociale tra gli individui che abitano lo stesso territorio, con la riassegnazione di funzioni vitali a spazi divenuti col tempo obsoleti. In tal senso rigenerare riguarda i processi di rinnovamento, trasformazione, con la cura minuta delle attività che si compiono nei differenti luoghi, con attività comuni finalizzate alla riattivazione di legami tra le persone, al ristabilimento di fiducia nella cooperazione interpersonale e per questa via nuovamente su un intreccio estremamente mobile e delicato tra azione individuale e intervento politico, tra public engagement e personal commitment: un tema che nuovamente impone ricerche e approfondimenti multidisciplinari ad hoc per poter essere colto nelle sue molte variabili e profondità.

an-analysis-of-gayatri-chakravorty-spivak-s-can-the-subaltern-speakGli ultimi due termini evocati dalla lettura del testo nella loro caleidoscopica definizione sono scalabilità e narrazione. Ha osservato di recente Anna Lowenaupt Tsing che «scalability (is) the ability to expand — and expand, and expand — without rethinking basic elements. Scalability is, indeed, a triumph of precision design, not just in computers but in business, development, the “conquest” of nature, and, more generally, world making. It is a form of design that has a long history of dividing winners and losers» (2012: 505).

A questa precisa, rassicurante scalabilità, Tsing oppone una «wild diversity of life on earth» (Ivi) che invita a una teoria della non-scalabilità. La scalabilità sarebbe, infatti, espansiva, progressiva, nemica delle differenze e delle varianti perché dispersive, “nemiche del progresso”. Al contrario vi sarebbe una forza intrinseca delle varianti locali, delle piccole storie che permetterebbe, ancorché non scalabile, non immediatamente progressiva, di immaginare forme alternative e sin qui non immaginate di organizzazione e plasmazione di mondi che proprio la natura, nella sua infinita ricchezza e variabilità, ci mostra. Il progetto ecoterritorialista si inquadra in questa linea, rilocalizza e riterritorializza, mostra e auspica soluzioni locali maggiormente adatte proprio perché adattate e adattabili al contesto naturale e sociale di accoglienza e di maturazione, permette di immaginare alternative non generaliste e per ciò stesso più armoniche, esposte a minore dispersione, minor sforzo, minor spreco di risorse naturali e umane.

In fondo a questa perorazione delle diversità come valore, si riconnette l’ultimo termine su cui merita per un momento soffermare la riflessione in merito a questo volume, cioè quello di narrazione/narrazioni. È solo a metà del testo, con il saggio di Sergio De La Pierre, che il termine narrazione, anzi «nuova narrazione del mondo» (ivi: 104) irrompe nel volume, anche se l’altro termine prossimo, quello di “racconto” torna assai più di frequente nei saggi di Bonomi, Tarpino, Volpe tra gli altri. Il territorio e la cosiddetta “eco-memoria” dei luoghi (Tarpino, ivi: 19, passim) sono in primis, oggi, narrazioni e racconti. L’appropriazione, l’appartenenza, l’identità vengono declinate nel racconto: racconto del passato, narrazione dei processi in atto di trasformazione e rigenerazione come buone pratiche, narrazioni prospettiche, eterotropie, immaginari che configurano e prefigurano alternative possibili, capaci di contestare e smontare l’apparente inesorabilità del “progresso scorsoio” (Zanzotto 2009) dell’Antropocene.

9788811688723_0_536_0_75Il rischio che i processi si riducano alla loro narrazione, che le trasformazioni, i cambiamenti auspicati di paradigma si trasformino in racconto è alla portata anche se in questa stessa opposizione tra narrazione e realtà vi è il rischio di una dicotomia scientista che è stata già da tempo smontata dall’approccio critico alle scienze e alla relazione tra storia e racconto. Le narrazioni dei territori costruiscono territori, i racconti dei patrimoni territoriali sono performativi, plasmano quei patrimoni, li attribuiscono. Apprivoiser ha nella lingua francese questo senso letterale di appropriarsi, fare proprio, ma nel senso proprio di plasmare, ‘domare’ di animale e di natura e in ciò dunque come atto di messa in forma del mondo che è in fondo l’atto antropocentrico del narrare i territori, gli uomini che li abitano, le loro scelte, il loro modo di abitare quei luoghi.

Le narrazioni, in questo senso, sono parte integrante in modo duplice del programma ecoterritorialista: lo corroborano, lo supportano nel descrivere mondi, nel restituirli e articolarli in forme nuove, ma al tempo stesso, anche, lo contestano, aprendo la strada a nuove appropriazioni, a nuove egemonie tra chi narra e chi è narrato, tra chi vive e abita e chi si prende l’incarico di raccontare e sistematizzare quelle vite prendendo il rischio al tempo stesso di re-innescare nuove egemonie e dominanze, nuove standardizzazioni e gerarchie che ogni processo dinamista, trasformativo e ri-generativo si propone di smontare e non praticare. Si ripropone così un tema antropologico in certo modo classico: il racconto o la scrittura di chi? In senso soggettivo e oggettivo. Chi sta raccontando o descrivendo cosa? A partire da quale costruzione di autorità e titolarità? In nome e per conto di chi (Spivak 1988)? Un tema centrale dell’articolazione tra saperi esperti, rappresentazioni dei mondi di vita, presa di parola da parte di chi ha avuto nessuna o minor voce nella storia, nelle storie plurali dei territori. Forse è da questo fascio di domande e di questioni che il confronto, anche a partire da questo interessante volume, può ripartire nel lavorío critico che ci appare come unica garanzia, inestinguibile quanto forse interminabile dell’analisi e del confronto.

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Riferimenti bibliografici
Bauer G.G., Roux J.M., 1976, La rurbanisation ou la ville éparpillée, Paris, Éditions de Seuil.
Becattini G., 2015, La coscienza dei luoghi, Roma, Donzelli.
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Cirese A.M., 2003, Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, Siena, Protagon.
De Rossi A., 2018, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli.
De Rossi A. – Barbera F. (a cura), 2021, Metromontagna. Un progetto per riabilitare l’Italia, Roma, Donzelli.
Esposito R., 1997, Communitas. Origine e destino delle comunità, Torino, Einaudi.
Gilles Clément, 2005, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet.
Lai F., Breda N., 2011, Antropologia del “terzo paesaggio”, Roma, CISU. 
Leshem N., Pinkerton A., 2016, Re-inhabiting no-man’s land: genealogies, political life and critical agendas. Transactions of the Institute of British Geographers, 41(1): 41-53.
Spivak G. C., 1988, Can the Subaltern Speak?, in  Idem, Discourse and Post-Colonial Theory: A Reader. New York, Columbia University Press: 66-171.
Teti V., 2004, Il senso dei luoghi, Roma, Donzelli.
Tsing Lowenhaupt A., 2012, “On Nonscalability: The Living World Is Not Amenable to Precision-Nested Scales”, Common Knowledge, 18 (3): 505-524.
Weil S., 1954, La prima radice, Ivrea/Roma, Edizioni di Comunità.
Whatmore S., 2002, Hybrid Geographies. Natures Cultures Spaces, London, Sage.
Zanzotto A., 2009, In questo progresso scorsoio (Intervista con Mario Breda), Milano, Garzanti.

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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina. 

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