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Fare spazio ai luoghi. La crisi ecologica e il (difficile) ritorno del “terrestre”

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di Filippo Barbera 

Il volume Ecoterritorialismo a cura di Alberto Magnaghi e Ottavio Marzocca (Firenze University Press, 2023) si pone l’obiettivo di applicare l’architettura teorica di matrice territorialista e il concetto di bioregione urbana alle problematiche ecologiche e ambientali. Come esplicitato nelle pagine iniziali, la bioregione urbana è composta da città da risanare, scomporre, ricomporre, rigenerare, ricollegare alla loro campagna con nuovi “patti”; da sistemi fluviali che, rigenerando territorialità, consentirebbero agli abitanti di riscoprirli e custodirli; da campi per l’agricoltura bioecologica in grado di produrre ‘servizi ecosistemici’; da boschi da restaurare e riabitare insieme alla natura; da coste e dal loro rapporto da ricostituire con gli ambienti marini. Per rispondere a questo obiettivo, il testo si struttura in due parti: una prima che contiene scritti di diversa estrazione disciplinare, tutti orientati allo sviluppo dell’approccio eco-territorialista; una seconda che passa in rassegna, ricostruisce e analizza alcuni strumenti volti alla progettazione della bioregione urbana che, come prima chiarito, vuole essere l’orizzonte operativo dell’ecoterritorialismo.

In questa nota, riprenderò alcune delle tematiche del libro Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, (Laterza, 2023, in stampa), il cui terzo capitolo è proprio dedicato ai luoghi.

Tra i molti temi affrontati, centrale per cogliere la cifra generale del volume e della prospettiva territorialista vi è proprio la differenza tra spazi e luoghi. Mentre lo spazio (assoluto) [1] è il contenitore immobile che racchiude e nel contempo separa cose e persone – siamo nello spazio e lo spazio è tra noi – il luogo rimanda invece al rapporto simbolico e materiale con il “terrestre”, alla vita quotidiana delle persone-nei-luoghi, all’infrastruttura della cittadinanza sociale, ai significati che la territorialità genera e tramanda nel tempo, ai confini mobili e porosi dei luoghi in relazione all’azione politica degli attori locali. A riguardo, Bruno Latour [2] ha sostenuto che fino a prima della crisi climatica – e fino a quando il progetto della globalizzazione è stato sostenibile – ci si poteva riferire allo spazio come qualcosa al cui interno collocarsi anche solo tramite latitudine e longitudine. Le appartenenze locali erano derubricate a residui del passato, irrazionali o limitanti e, in quanto tali, da superare. Con la crisi climatica e con l’infrangersi del progetto globale assistiamo al ritorno del “terrestre”, dove i luoghi e i loro correlati tornano ad assumere importanza. L’attenzione si sposta così verso le persone-nei-luoghi, in direzione del policentrismo dei milieux locali, e chiama in causa l’intreccio tra dimensioni categoriali (classe, genere, etnia) e territoriali. Essere operaio o imprenditore in un paese di montagna è diverso dall’esserlo nella periferia di una grande città, piuttosto che nel contesto di una città media specializzata per funzioni produttive o in una conurbazione di città-campagne-frange metropolitane tipica dell’“Italia-di-mezzo” [3].

819btmeenyl-_ac_uf10001000_ql80_Lo spazio assoluto ha tre conseguenze principali, che il richiamo ai luoghi proprio della prospettiva territorialista permette di evitare: giustifica una postura centralista che pretende di applicare politiche rigide e indifferenti rispetto ai contesti e non, appunto, curvate sulle loro caratteristiche specifiche; nutre un’idea di sviluppo economico basata sul “mondo piatto”, dove tutti i punti dello spazio sono intercambiabili/sostituibili, posto che possano essere collegati da adeguate infrastrutture di comunicazione e scambio [4]. Dal punto di vista culturale, terza conseguenza, ci consegna una rappresentazione di spazio naturale/selvatico contrapposta a quella di luogo di vita e produttivo. Uno sguardo tutto volto a trasformare gli spazi “altri” in paesaggi del tempo libero o della wilderness, ma non in luoghi di vita e di lavoro [5].

Al contrario, l’idea di luogo si basa su un’idea di sviluppo come progresso verso una sempre maggiore “libertà sostanziale” o “giustizia sociale e ambientale” di tutte le persone [6]. Si tratta di un approccio che non crede nel cosmopolitismo duro e puro come definito da Kwame Anthony Appiah [7], dove l’incontro con sistemi di valori e culture altre avviene al prezzo di negare la propria eredità linguistica, culturale e territoriale. Dove il locale si identifica invariabilmente con le appartenenze ascritte dalle persone a tradizioni, modi di vita e universi simbolici reazionari e da lasciarsi alle spalle in nome del globale. È, nella definizione fornita da Bruno Latour, il “terrestre” che sostituisce il “locale”, dove chi mi è prossimo è anche l’ecosistema, le piante e gli animali come generative di effetti ma prive di voice, cioè la Terra nel suo insieme intesa come Gaia [8]. Il cosmopolitismo parziale non rifiuta le radici comuni, solo non le trasforma in gabbie escludenti sulla base di appartenenze pregresse e naturalizzate. La postura non è quindi nativista, ma aperta ai saperi e ai valori esterni in un’interlocuzione continua con altri luoghi-di-vita, favorita e non ostacolata dalla comune appartenenza alla lingua, alla tradizione, alle identità di luogo e al “terrestre”.

319l4i1lail-_ac_uf10001000_ql80_L’affrancamento da un’idea di spazio assoluto ha ulteriori importanti conseguenze, ben chiarite nella seconda parte del volume (si vedano in particolare i saggi di Daniela Poli, Angela Barbanente e David Fanfani, Egidio Dansero e Beppe de Matteis, Giovanni Carrosio). Si pensi, per esempio, al problema dei confini delle strategie di sviluppo locale. Il confine dei luoghi non è separabile dalle strategie delle coalizioni locali che credono e investono nell’azione comune a sostegno del territorio [9], ma è relativo ad esse. È, appunto, un campo qualitativo che dipende dagli attori, dalle loro azioni e relazioni, non uno spazio assoluto e immobile che contiene e separa ciò che si trova al suo interno. Non esistono spazi di sviluppo che non siano anche luoghi di interazione tra attori, istituzioni, artefatti, oggetti e viventi non umani. Il territorio non è il mero contesto/contenitore spaziale dell’azione, rigido e immutabile, che esiste a prescindere da questa. Neppure è lo spazio fisico-geografico da disciplinare dall’alto tramite il disegno centralizzato di aree-obiettivo, o lo spazio dei flussi da sottoporre alla razionalità delle grandi corporation o alle logiche di accumulazione finanziaria. È, invece, un luogo di vita costituito dall’interno dagli attori (persone, attori collettivi), dagli attanti (tecnologie, infrastrutture, ecosistemi) e dalle istituzioni (economiche, politiche, socio-culturali) nella loro interazione reciproca.

Il volume in parola ci ricorda dunque che in ogni area esistono agenti e cicli naturali variamente combinati con attività umane, generatori di flussi, come quelli dei servizi ecosistemici, che si chiudono solo in parte nel sistema locale (si vedano i saggi di Monica Bolognesi e Stefano Bocchi) [10]. Il ritaglio delle aree, le strategie di sviluppo, le interdipendenze tra le diverse misure, sono dunque co-essenziali alle comunità di agency quali risultano dalle pratiche territoriali: gravitazioni su centri di servizi, mercati, reti, filiere produttive, legami funzionali, servizi ecosistemici, flussi di beni, servizi e persone (tema trattato nei saggi di Anna Marson, Carlo Cellamare, e di nuovo Daniela Poli). In molti casi ciò deve fare i conti con auto-rappresentazioni basate su identità storico-culturali reinterpretate e talvolta reinventate, ma non per questo meno importanti dal punto di vista dell’azione locale.

Dal punto di vista delle critiche che possono essere mosse al volume, si deve notare una certa cesura tra le due parti del volume che, pur connesse, tendono a muoversi su piani diversi. La prima è olistico-ricostruttiva, quasi con intenzioni “paradigmatiche”, mentre la seconda è analitico-operativa e affronta ambiti e problemi più specifici. A riguardo, la prima parte investe le “radici” della prospettiva territorialista che, come ricordato nel saggio di Marzocca, risiedono nel marxismo operaista. Se, come è stato scritto: «è impossibile non riconoscere un “operaista”, se ne incontri uno» [11],  è pure impossibile non riconoscere un territorialista se ne incontri uno/una. Il rischio è il medesimo e cioè che alcuni termini e concetti (prima general intellect, ora territorio, stessa critica alla concezione prometeica dello sviluppo delle forze produttive, e così via) svolgano più una funzione perlocutiva di riconoscimento identitario che una funzione illocutiva e davvero analitica. Rischio, questo, acuito dalla decisa impostazione politico-normativa che caratterizza l’approccio. Il rischio non è certo unico o specifico dell’approccio territorialista, dal momento che tutti i tentativi fondativi e/o paradigmatici ne sono caratterizzati, specie se si pongono obiettivi pubblici.

31zfyokiul-_ac_uf10001000_ql80_Del resto, giusta la portata e gli scopi del territorialismo in rapporto alla crisi ecologica, sarebbe davvero un peccato se – per così dire – la funzione di riconoscimento interno a fini normativi avesse la meglio su quella analitica e teoretica. E a dirla tutta, la lettura dei saggi contenuti nella prima parte del volume lascia questa impressione. Prendiamo, per esempio, la questione relativa alla ridefinizione del concetto di “abitare”. Come viene più volte sottolineato abitare è diverso dal puro e semplice risiedere: abitare è innanzitutto curarsi dell’insieme di relazioni – materiali che ci collegano ai luoghi, alla terra, al cosmo. Per ricomporre le figure dell’abitare non-come-risiedere, la prima parte del volume associa l’architettura concettuale dell’eco-territorialismo a esempi di “micro-pratiche” situate che promuovono le esperienze di comunità, reti di produttori, aggregazioni di cittadini che ricostruiscono un ethos dell’abitare.

Gli esempi concreti rimandano ai casi raccolti dall’Osservatorio delle buone pratiche territorialiste sul sito web della Società dei Territorialisti e delle Territorialiste [12]. Come viene raccontato, si tratta soprattutto di esperienze di agro-ecologia, economia conviviale, accoglienza dei migranti, rigenerazione di borghi spopolati, gestione collettiva di beni e spazi urbani comuni, conservazione della biodiversità agro-alimentare dei luoghi, turismo responsabile, ecomusei. Non si può non rilevare che la montagna (di concetti) rischi di partorire tanti piccoli topolini che, come per esempio rilevato dal saggio di Dansero e Dematteis, rimangono bloccati nell’auto-contenimento locale della prospettiva territorialista. Di nuovo qui soccorre il pensiero di Latour: «la maggior parte dei beni di cui viviamo non si trovano nel mondo in cui viviamo». C’è, in altri termini, un rischio autarchico che rischia di depotenziare la proposta territorialista. Uno dei pochi successi delle politiche di lotta alla crisi climatica, le misure contro il buco dell’ozono, hanno seguito un modello tutt’altro che locale e “bottom-up”. Un modello di problem-solving inclusivo e socio-tecnico, che ha ridotto l’incertezza tecnologica delle soluzioni più adatte attraverso modelli di governance sperimentalista globale [13]  Il richiamo al terrestre di Latour obbliga a considerare il locale non come un livello di scala, ma come una strategia di uno o più gruppi di attori che mettono in pratica la transcalarità per scopi precisi. Tutto è transcalare, tutto connette il “vicino” al “lontano”: lo è l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo e l’informazione di cui disponiamo. Così inteso, il locale rappresenta non solo i valori e gli interessi di ciò che è nativo, auto-contenuto, originario, legato alla tradizione e “più piccolo”, ma l’insieme del capitale territoriale di interesse sovra-locale composto da biodiversità, equilibri ecologici e idrogeologici, risorse primarie ed economiche, culturali e paesaggistiche [14]. Mentre i saggi contenuti nella seconda parte del volume trattano e affrontano questi aspetti, mi pare che la prima parte tenda a trascurarli.

71inop0wokl-_ac_uf10001000_ql80_Ancora, e a riguardo, manca nel volume anche una trattazione analitica del potere e delle diseguaglianze. Il primo viene evocato in nome del capitalismo estrattivista. E va bene. Ma non possiamo fermarci qui. Le seconde invece sono sorprendentemente assenti. Sappiamo però che nei luoghi concentrano e interagiscono diversi tipi di diseguaglianze: economiche (reddito e ricchezza), nell’accesso alle infrastrutture fondamentali della cittadinanza (trasporti, istruzione, servizi per la vita quotidiana), ma anche diseguaglianze di riconoscimento, di cui non si trova traccia nel volume. Possiamo davvero trascurare il fatto che le prove empiriche indicano che le aree che hanno conosciuto processi di marginalizzazione e declino rappresentano un formidabile serbatoio di rabbia e risentimento, che si traduce spesso nel sostegno politico a forze populiste o nell’astensionismo? La geografia elettorale ci dice che il voto anti-establishment è fortemente concentrato in quei territori che hanno sperimentato storie di declino economico o dove lo spartiacque nei servizi di base tra aree urbane e rurali, così come tra luoghi forti e deboli, è particolarmente accentuato. Aree dove i valori, le priorità, le regole pratiche e gli stili di vita di chi abita in quei luoghi non sono più riconosciuti dai modi “ordinari” di funzionamento delle istituzioni e, quindi, dalle classi dirigenti che governano i centri di potere, dal disegno delle politiche e dalle regole che governano la distribuzione delle risorse. Sono, questi, luoghi dove la capacità di aspirare [15] a un futuro condiviso si scontra con il restringersi delle opportunità e del benessere (il tema del tempo e del futuro è trattato nel saggio di Antonella Tarpino). Luoghi dove il “noi” nativista basato sulla conservazione, sul rifiuto della diversità e con lo sguardo rivolto a un passato idealizzato prevale sul “noi” inclusivo orientato a un futuro più giusto. I luoghi umiliati e “da adottare”, prima o poi, si vendicano. Questi temi e problemi non possono essere affrontati senza il ruolo delle istituzioni formali e delle politiche nazionali. Come prima scritto, la seconda parte del volume ne parla e, nel farlo, chiama però in causa modelli e concetti che mettono in discussione l’impianto “paradigmatico” della prima parte. Come se le diverse “prese” verticali e applicative dovessero – per uscire dal normativismo – fare i conti con livelli analitici e concettuali diversi.

9781009366182-itInfine, due ulteriori punti. Il primo riguarda la natura della multidisciplinarietà chiamata in causa dai curatori del volume, come del resto accennato nella nota 5 a pag. XII. L’ecoterritorialismo dovrebbe confrontarsi non solo o non tanto con le scienze storico-sociali e con le discipline spaziali, ma con le scienze “dure”, in primis fisica e biologia. Per non menzionare il ruolo dell’economia ambientale: possiamo davvero affrontare la crisi climatica senza affrontare il tema del valore e delle politiche industriali? Il rischio di una battaglia di retroguardia è enorme. Da questo punto di vista, il volume rappresenta un’occasione persa. In secondo luogo, e di conseguenza, appare troppo scarno il riferimento al tema ineludibile del metabolismo sociale e ai processi di interscambio natura-economia, che avrebbe meritato più attenzione. La riscoperta dei “taccuini ecologici” di Marx [16] e la diffusione globale del libro di Kohei Saito, Marx in the Anthropocene. Toward the Idea of Degrowth Communism, non possono essere ignorati da chiunque si ponga in questa prospettiva. Anche a queste domande l’ecoterritorialismo dovrebbe provare a rispondere. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Qui lo spazio non è l’intervallo tra le cose e le persone, il «contenitore che contiene e separa» (A. Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Franco Angeli, Milano 1998: 227-233). Lo spazio dei luoghi, in questa accezione, rappresenta un campo “qualitativo”, «le cui proprietà sono definite sia dai suoi limiti sia dagli oggetti che in esso sono contenuti» (ivi: 230). Al contrario, lo spazio assoluto rimanda alla concezione newtoniana formulata nei Principia mathematica«Lo spazio assoluto, che non ha alcun tipo di rapporto con l’esterno, per sua natura rimane sempre uguale a se stesso e immobile» (I. Newton, De Philosophiae Naturalism, Principia Mathematica, commento delle definizioni, II punto, tr. it. Principi matematici della filosofia naturale, Torino, Einaudi, 2018). Lo spazio di Newton è assoluto in quanto esistente indipendentemente dall’esistenza di corpi materiali (esiste in sé, non è un sistema di relazioni fra corpi); è dotato di proprietà indipendenti dall’interazione con la materia (non ha cioè caratteristiche dinamiche); è definito indipendentemente dalle misure e dalle osservazioni che si possono fare sugli oggetti sensibili. Si tratta di uno spazio sostanziale, dotato di realtà, un contenitore vuoto, indifferente alla materia in esso contenuta e all’osservatore che in esso analizza i movimenti della materia. Si veda: https://www.roma1.infn.it/exp/webmqc/Lo%20spazio%20assoluto%20di%20Newton%20-%20Casadio%20-%20%20Levrini.pdf.
[2] B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano 2020.
[3] Si veda F. Curci, A. Kërçuku, A. Lanzani, F. Zanfi, “Italia di mezzo: The emerging marginality of intermediate territories between metropolises and inner areas”, Region, 10, 1, 2023: 89-112.
[4] È l’idea di globalizzazione analizzata da T.L. Friedman, Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo (2005), Mondadori, Milano 2007.
[5] F. Barbera, A. De Rossi, “Per un progetto metromontano. Introduzione”, in Idd. (a cura di), Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2021: 3-26.
[6] F. Barca, “Il metodo nuovo per tempi migliori. Considerazioni fra vita, politica e tecnica”, prefazione a S. Tulumello (a cura di), Verso una geografia del cambiamento. Saggi per un dialogo con Alberto Tulumello, dal Mezzogiorno al Mediterraneo, Mimesis, Milano-Udine 2022
[7] K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei (2006), Laterza, Roma-Bari 2007.
[8] B. Latour, Tracciare la rotta, cit.
[9] F. Barca, “Confini”, in D. Cersosimo, C. Donzelli (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia. Con un dizionario di parole chiave e cinque commenti di Tomaso Montanari, Gabriele Pasqui, Rocco Sciarrone, Nadia Urbinati, Gianfranco Viesti, Donzelli, Roma 2020: 97-102.
[10] G. Dematteis, A. Magnaghi, “Patrimonio territoriale e coralità produttiva: nuove frontiere per i sistemi economici locali”, Scienze del territorio, 6, 2018: 12-25.
[11] http://www.antiper.org/2023/08/11/turchetto-operaismo/.
[12] http://www.societadeiterritorialisti.it/2019/01/22/schede-gia-elaborate/> – 03/2023)
[13] si veda: https://sociologica.unibo.it/article/view/16916/16615.
[14] Tema peraltro presente in Alberto Magnaghi (Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020), ma qui più sullo sfondo. Perché?
[15] A. Appadurai, “The future as cultural fact: Essays on the global condition”, Rassegna Italiana di Sociologia, 14, 4, 2013: 649-650. 
[16] https://monthlyreview.org/2016/02/01/marxs-ecological-notebooks/
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Filippo Barbera, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto, si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali. Tra le sue recenti pubblicazioni, ricordiamo: Contro i borghi (a cura di, con D. Cersosimo e A. De Rossi, Donzelli, 2022), Metromontagna (a cura di, con A. De Rossi, Donzelli, 2021). Fa parte del Direttivo dell’associazione “Riabitare l’Italia” (https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/), è membro del Forum Diseguaglianze e Diversità e Presidente dell’associazione Forwardto (https://www.forwardto.it/). Scrive per “Il Manifesto”.

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