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L’antropologo come pellegrino e la costruzione della biografia simbolica

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Palermo, Santuario di santa Rosalia (ph. S. Montes)

di Stefano Montes

Nei primi giorni di settembre di ogni anno, a Palermo, i pellegrini si recano al Santuario di Santa Rosalia. Festeggiano la santa patrona della città, intraprendendo il cammino che porta alla sommità di Monte Pellegrino dove si trova la grotta che ha accolto la santuzza in espiazione. Intraprendono il cammino per renderle omaggio, sovente nell’intento di fare un voto, per poi eventualmente ricevere una grazia. È un atto reso alla santuzza da parte dei palermitani – nonché dei non nativi che vi aderiscono – al fine di ricambiare il dono originario a loro volta ricevuto: la liberazione dalla peste. Vero o inventato che sia il fatto relativo a Santa Rosalia, il dono rimane una molla della socialità e della storia che l’accompagna. Si adotti «come principio della nostra vita, ciò che è stato e sarà sempre un principio: uscire da se stessi, dare, liberamente e per obbligo» (Mauss 1965: 276). Che sia libero o sentito come dovere, il dono è un modo per uscire da se stessi, dalla centralità artefatta della propria identità univoca e andare incontro al prossimo e alla comunità. La solidarietà, innanzitutto!

Alla festa celebrativa del quattordici e quindici luglio, fa seguito, dopo qualche tempo, l’acchianata che raggiunge il suo culmine il quattro settembre. In siciliano – si dice – si fa un’acchianata a muntipiddirinu: una salita a Monte Pellegrino. Questo è un rito collettivo, fondatore di socialità e convivialità, reiterato nel tempo, ma anche una memoria personale, sentita e costitutiva della mia biografia effettiva e simbolicamente trasposta. Con i miei genitori, amici e parenti, andavo infatti anch’io da piccolo al monte. Ci accampavamo in basso la sera prima, ai piedi del monte, mangiavamo e giocavamo, bivaccavamo e sonnecchiavamo e l’indomani, sul presto, cominciavamo l’acchianata. Che ardua impresa! Che piacere, però, nel portarla a termine, così come nel suo preliminare indugiare. Non è forse costitutivo dell’essere umano porsi degli obiettivi e realizzarli? Non è altrettanto costitutivo dell’essere umano indugiare nel transito effimero? Persino nei momenti di transito, in cui non intravediamo che limiti, si «spalancano talvolta nuovi modi di comprendere il nostro essere nel mondo» (Jackson 2009: XI-XII).

Da adolescente, l’acchianata era per me un bell’obiettivo da raggiungere e allo stesso tempo un transito, da godersi in compagnia di parenti e amici, che mi faceva capire, ogni volta di più, qualcosa del mondo in cui vivevo: un mondo in cui attesa e azione si alternavano e persino si sovrapponevano. Da adolescente, mi chiedevo sistematicamente: ce la farò ad arrivare fin lassù, con quegli scavezzacollo dei miei cugini che imponevano dei ritmi così frenetici all’acchianata? Ce la facevo e mi divertivo. Meglio ribadirlo subito, però, anche l’attesa che precedeva l’acchianata era uno spasso. Attendevamo con gioia, ingannavamo il tempo nell’attesa, mangiando e giocando. Insomma, ci divertivamo prima e durante l’acchianata. E adesso?

È da anni che non faccio più l’acchianata. Sempre più spesso, però, penso di intraprendere il cammino: di salire a piedi, almeno per un tratto, di mettermi alla prova, di riflettere sul percorso, di cercare di capire cosa significa ripercorrere il passato e al contempo essere presente a me stesso e al mio senso dell’essere. Sono un antropologo e questo potrebbe giocare un ruolo non minore nel mio coinvolgimento, nonostante pensi che le tradizioni subiscano un processo di reinvenzione nel tempo e io sia notevolmente più interessato alle dinamiche di ricezione spazio-temporali che al folklore in sé come elemento statico. L’acchianata al santuario è indubbiamente un fatto culturale, tipico della tradizione locale (abbracciata oggigiorno anche da residenti non nativi), di cui si può scrivere rifacendosi ai vari libri e libelli di divulgazione che parlano della santuzza in lungo e largo. Più particolarmente, per quanto mi riguarda, mi interessa versarmi nell’uso. Il mio intento consiste nell’adottare la prospettiva ritagliata dal percorso, proiettarmi nel presente, oscillare nell’andirivieni provvisto dai miei ricordi del passato e dalle sensazioni odierne.

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Versarsi nell’uso (ph. S. Montes)

La mia biografia personale e simbolica entra di pieno diritto nella questione del rito, nella sua definizione, nel suo vissuto esperito in prima persona. Perché? In primo luogo, a giusto titolo, si può dire che il «reflexive I of the ethnographer subverts the idea of the observer as impersonal machine» (Okely 1992: 24): un etnografo non è una macchina ma una persona che si investe in quello che fa riflettendo ed eventualmente modificando il proprio punto di vista nelle interazioni con altri interlocutori, osservati e osservatori a loro volta. In secondo luogo, per quanto collettivo e regolato strutturalmente, il rito è vissuto da un individuo sulla base della propria predisposizione e orientamento personale e, pertanto, rappresenta un cumulo di eventi – implicitamente ed esplicitamente depositati nella memoria – che tendono a diventare biografia simbolica. In sostanza, il rito costituisce regola generale ma anche vissuto personale, concretamente esperito, che andrebbe esplorato teoricamente in tutta la sua dimensione esistenziale. Malgrado il richiamo all’‘io’, tengo a ribadire che la mia prospettiva è squisitamente antropologica: tiene conto della cultura in tutto il suo spessore, senza cedere a un indistinto chiacchiericcio, astratto, non posizionato, svincolato da categorie non prodotte dall’esperienza o con essa interrelate. Si può mai pensare, d’altronde, di versarsi in una situazione senza lasciare interagire l’esperienza e le categorie che la regolano? Diciamo che siamo posizionati, ma abbiamo inoltre tendenza a liberarci del nostro posizionamento comparando e astraendo. La «cultura non è qualcosa di cui noi comunemente chiacchieriamo ma una posizione dalla quale noi parliamo» (Hastrup 1995: 51). E io conterei, nell’acchianata, di registrare le mie osservazioni, quasi fossi una telecamera che segue passo passo il cammino: dalla mia specifica prospettiva, annotando flussi di pensiero e appuntando percezioni somatiche. Una proiezione fenomenologica, si potrebbe dire? Probabilmente. Forse, ancora più appropriatamente, si potrebbe parlare di un’incursione – mia – nel significato etnopragmatico dell’acchianata. Rimango, così, fedele al principio secondo cui il «significato di una parola è il suo uso nel linguaggio», nel contesto particolare in cui il linguaggio viene adoperato da un nativo (Wittgenstein 1967: 33).

Che vuol dire, quindi, fare un’acchianata? Il tutto si risolve nel porsi questa domanda e cercare di rispondervi tenendo conto della situazione in cui mi trovo in quel momento, nel tragitto stesso. Rispondere a questa domanda sarebbe inoltre l’occasione – ben venga – di includere me stesso nell’osservazione mentre osservo gli altri che salgono al monte, nell’atto: dopo tutto, sono un antropologo e, «in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Sono consapevole della difficoltà dell’impresa, del complesso raccordo tra uso e linguaggio, tra uso e contesto. L’uso di una parola può essere ingannevole, talmente siamo abituati alla sua ricorrenza, al suo ritorno incessante. Dovrei dunque, almeno inizialmente, prendere le distanze dal suo uso nella mia vita comune di nativo palermitano quale io sono; dovrei diffidare dalle sue facili rappresentazioni dettate dall’abitudine, dal trito andazzo. Wittgenstein mette bene in guardia a questo proposito: «l’uso di questa parola nelle circostanze della nostra vita quotidiana ci è straordinariamente ben noto. Ma la parte che la parola ha nella nostra vita, e quindi il giuoco linguistico in cui noi la impieghiamo, sarebbero difficili da rappresentare, anche soltanto a grandi linee» (Wittgenstein 1967: 84).

Ebbene, potrebbe essere questo il titolo del volume che progetto di scrivere sull’acchianata: A grandi linee. L’inizio del saggio potrebbe ruotare attorno a questa difficoltà non facilmente risolvibile, incentrata sul rimandarsi reciproco della prossimità e della distanza, della rappresentazione e dell’uso. Un’aporia? E chi può dirlo! Non certo io, in questo momento, in questa situazione in cui passeggio e parlo tra me e me senza curarmi di niente, se non di ciò che mi circonda e attira la mia attenzione liberamente. Fino a che punto in libertà? Siamo proiettati nel mondo, nonché produttori: siamo liberi e costretti per gradi diversi, in contesti diversi. Nell’ipotesi di Geertz, l’uomo è «un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» (Geertz 1988: 11). Nonostante vi rimanga impigliato, le reti sono prodotte dall’uomo stesso: solo che, nella prospettiva geertziana, gli viene difficile prenderne le distanze e avere un quadro d’insieme, chiaro e rivelatore. L’uomo è destinato, nonostante la prossimità con il proprio oggetto, a produrre senso. Secondo Barthes, siamo addirittura intrappolati dal senso; altrimenti, dovremmo «attraversare, come un lungo cammino iniziatico, tutto il senso, per poterlo estenuare, esentare» (Barthes 1980: 100).

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Cultura come posizionamento (ph. S. Montes)

Mentre penso di cominciare così il mio prossimo saggio – in modo titubante, comunque ponendo il problema nella sua sostanza, mettendo a fronte uso e pianificazione preliminare, senso e non-senso – percepisco qualcuno dietro di me, qualcuno dal passo vispo e leggero, sollecito e scoppiettante, qualcuno che non vede l’ora di arrivare dentro la grotta, di mettersi al fresco, all’interno del santuario. Fuori fa caldo, anche se il sole è ancora nascosto, in basso, negli anfratti del monte. Richiudo il libro che tenevo in mano e che sbirciavo, di tanto di tanto, riflettendo su una frase: «ogni persona è soggetto per se stessa e costituisce l’ambiente per gli altri: tutto ciò che è dentro per il soggetto è fuori per l’Altro» (Devereux 1975: 64). Che dirà di così importante questo breve enunciato? La dialettica tra l’interno e l’esterno, la visibilità e invisibilità dell’essere è centrale in antropologia e ritorna, nelle varie interrogazioni, sotto forme molteplici, talvolta dissimulate. Come sempre, io sono attratto da ciò che, almeno di primo acchito, pare ambivalente se non addirittura irrisolvibile, e il modo di porre la questione da parte di Devereux mi pare esemplare. Da qualche tempo, infatti, mi porto dietro questo libro ovunque: in auto, in compagnia di qualche amico, per casa. E mi chiedo come si riconfigurano l’interno e l’esterno e quali forme assumono nel sociale. Lo faccio persino mentre passeggio. Come in questo momento in cui, pur deambulando, sono indeciso se continuare a sbirciare il libro o richiuderlo e concentrarmi sui passi che sento alle mie spalle. Come rendere un suono lontano, via via più vicino? Come tradurre in codificazione scritta dei passi che risuonano nell’aria? Come trasporre l’ambiente in elemento interiore e viceversa? Richiudo il libro e lo ripongo all’interno della borsa. (Anche la borsa ha un interno celato all’altrui vista.) Decisione è presa, decisione è necessaria.

Intanto, dietro di me, dietro la mia persona piano franta dall’ansia di vivere, li percepisco distintamente, ma non li vedo ancora. Mi lascio andare al caso. Succeda quel che deve succedere! Io sono naturalmente ben disposto verso il caso. Lo accetto, al solito, «come categoria nella produzione degli avvenimenti» (Foucault 1971: 61). Lo accetto come categoria, nel suo uso, che adesso si traduce in una percezione concreta, in un suono, in passi, in attenzione risucchiata dagli eventi. Cioè? Io avverto, alle mie spalle, passi lesti, passi decisi. Li avverto, ma non mi giro. Non ho fretta, mi incuriosisce vedere cosa fanno gli altri nello spiazzo dove mi trovo ramingo, sul cui suolo trascino una gamba dietro l’altra, sulla cui perpendicolare lascio ciondolare le braccia e muovo intenzionalmente le spalle, una alla volta, in senso obliquo, per bilanciare il peso del mio corpo docile, arreso alle mie intenzioni, benché fluide e passeggere. Io sono sullo spiazzo davanti il santuario di Santa Rosalia. Rimango in attesa. Non invano. Come scrive Bloch: «Contro l’aspettare è d’aiuto lo sperare. Ma non ci si deve nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare» (Bloch 1994: 3). E io ho di cosa cucinare: la traduzione del mondo in emozione e in testo.

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Acchianate e scinnute (ph. S. Montes)

Nel frattempo, i passi lesti risuonano alle mie spalle, i miei passi lenti, per quanto possano esserlo, non desistono. Perché mai dovrebbero? I passi lesti perseverano nella loro cadenza indolente ma ostinatamente ribelle, ribelli come i miei stessi pensieri al momento. È una vecchia storia, d’altronde, che è opportuno ribadire: i pensieri non ne vogliono sapere di convergere in una sola direzione, ma si disseminano da una parte e dall’altra delle nostre intenzioni. Wittgenstein fa bene il punto: «[…] non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. – E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni» (Wittgenstein 1967: 3). Io rallento, quasi mi fermo, indugio, prendo tempo, al pari dei miei pensieri vado in una direzione e poi nell’altra. Ho un intento latente, forse mal posto, tenuto conto della situazione, della mia indolenza mattutina, del sole che si annunzia prepotente. Vorrei prendere qualche appunto, ma i miei pensieri mi portano altrove, mi distraggono dai miei stessi intenti leggeri. Perdo tempo, nell’ampio spiazzale esterno del santuario. Aspetto. Faccio in modo che i passi dietro di me approssimino, entrino nel raggio di aperta ricezione del mio pur debole e incurante udito. Qualcosa non quadra, comunque, ma persisto nella mia azione: li lascio arrivare, fingo indifferenza. Il mio prossimo è nei paraggi, a un tiro di gamba o, meglio, di schioppo, come si suole dire. Persisto dunque imperterrito nell’aguzzare i sensi. Gioco con i sensi, con me stesso. Faccio una partita a scacchi col quotidiano, con un frammento qualsiasi di vita ordinaria, endotica – Perec (Perec 1973) l’oppone opportunamente all’esotico – e, per questo, ancora più singolare, intrigante.

I passi si avvicinano. Sempre più. Penso vagamente al fatto che articolazioni devote di stati d’animo e marcia poco rapida dovrebbero in questo luogo di preghiera assecondarsi reciprocamente. Si assecondano. Si guidano l’un l’altra. La mia curiosità intellettuale e l’atteggiamento da scioperato perdigiorno si mescolano. Che borbotto mai? Che avranno mai da fare gli altri, di buonora, così presto, in un luogo sacro? Il lento passo in avanti della mia gamba si incrocia con l’ondeggiare stanco della braccia che si danno il turno. Più che darsi il turno, forse, si compiacciono del modo in cui il disordine apparente del movimento si ricompone a mia insaputa in un miracoloso equilibrio di arti e gesti, cadenza ritmata e progressione in avanti del corpo. Che verranno a fare, fin qui, i palermitani veraci, sul Monte Pellegrino, al santuario di Santa Rosalia, sulla sommità con vista su Palermo offerta allo sguardo di chi vuole e di chi deve? In siciliano, una espressione, difficilmente traducibile, rende la mia aria di scherzo, la mia tonalità emotiva di sufficienza: comu un ci siddìa? Chi glielo fa fare? Tra me e me, mormoro qualche parola incomprensibile per sembrare meno strambo a me stesso, immaginando di vedermi davanti lo specchio, all’interno di una gigantesca bolla d’aria, in procinto di sistemarmi il codino scomposto dal respiro interiore del vento. Assecondano anche loro il bisogno di sacro del buon religioso praticante in cerca di pace?

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Osservare e partecipare (ph. S. Montes)

Non ho l’intenzione di fare l’antropologo, di esercitarmi nella pratica dell’osservazione e della partecipazione. Osservare? Partecipare? Potrei, semmai, rivolgere a me stesso – in chiave auto-etnografica – le domande che Malinowski suggerisce di porre all’indigeno intorno a un caso concreto: «Anche se non possiamo porre domande a un indigeno riguardo a regole astratte e generali, possiamo sempre chiedergli come viene trattato un dato caso» (Malinowski 2004: 21). Come lo tratterei io il caso dell’acchianata in termini concreti? L’esercizio richiederebbe un impegno intellettuale e la volontà di mettersi alla prova: direttamente. Mi fa difetto, lì per lì, la volontà. La mia attenzione è inoltre posta altrove, rivolta a questo strano miscuglio di roccia naturale e di artefatti dell’uomo, alla chiesa che si rivela quasi in disparte e alla montagna che non ha bisogno di presentare a chicchessia la sua grandiosa compattezza, ai passi dietro di me, all’idea che mi attraversa, da capo a piedi, di lasciarmi andare a questa esperienza sottile che sto vivendo di buon mattino.

Una levataccia per lavoro? No, semmai insonnia, giro in auto in città, acchianata al Monte Pellegrino, passeggiata nello spiazzale antistante il santuario di Santa Rosalia, qualcuno dietro sul punto di sorpassarmi, i suoi solleciti passi, sempre più vicini. Mi incuriosiscono. Le mie braccia ciondolano, intanto, i miei piedi cascano in avanti, a destra e a sinistra. Forse, mi balena in mente, la pratica di un rito e di un metodo di esplorazione dell’animo non sono poi così lontani l’uno dall’altra. Il rituale fa appello a tutte quelle modalità che «toccano le corde delle emozioni, manipolano il corpo e producono trasformazioni della coscienza» (Jackson 2005: 107). Oltre che costruzione del sentire collettivo, i riti sono anche utili strumenti di (ri)scoperta e affermazione del proprio sé individuale, così come un valido dispositivo per il riposizionamento mnestico delle frontiere dell’essere e del fare. Herder, forse, deve cedere il passo a Lotman e Uspenskij nell’analisi della cultura (e del singolo), se non altro per il ruolo primario che attribuisce, nella sua definizione, alle frontiere semantiche e alla memoria: la cultura è «memoria non ereditaria della collettività, espressa in un determinato sistema di divieti e prescrizioni» (Lotman, Uspenskij 1975: 43).

Io, più che osservare deliberatamente voglio lasciarmi guidare dal caso; più che partecipare, intendo sottrarmi, oltre ogni misura, a me stesso e agli altri, allo spazio dove mi trovo attualmente e al tempo che incalza, al caldo e alla puntura di zanzara sul piede. Mi gratto, prendo qualche appunto, mi dondolo sulle gambe. Che sollievo! Voglio ripensare al passato e rimanere nel presente degli eventi minuti che scorrono indifferenti. Voglio solo essere me stesso senza pensarci, lasciandomi guidare dal contesto. Voglio solo fare una passeggiata senza meta, entrare nel santuario, farmi trasportare indietro nel tempo, pensare ai fatti miei. Voglio vedere come le intenzioni fluttuanti si contestualizzano variamente. Intenzioni? Una lezione è appresa con certezza: «the reliance on intentions and their apparent avoidance must always be contextualised. The notion of ‘intentional continuum’ will be here introduced as a way of making sense of the contextual variability in intentional action» (Duranti 2015: 233).

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Intenzioni fluttuanti (ph. S. Montes)

Certo, mi interesserebbe capire pure in che modo questo spostamento spaziale dai piedi alla sommità del monte, fino alla grotta di Santa Rosalia, produce un passaggio da una condizione all’altra: spirituale, psicologica e individuale, oltre che collettiva. So che il «passaggio da uno status sociale all’altro è spesso accompagnato da un passaggio parallelo nello spazio, da uno spostamento geografico da un luogo all’altro» (Turner 1986: 56). Vorrei pure sapere, però, secondo quale sequenza sintattica specifica si realizza questo passaggio: per quali gradi, secondo quali prese di coscienza, sulla base di quale sforzo fisico in relazione a quale altro impegno d’ordine psicologico. Per esempio, che ruolo giocano, individualmente, l’attesa e la dimensione corporea, con tutto l’investimento sensoriale che ne deriva? Ma in questo momento – lo ribadisco – mi sento di occupare un ruolo passivo, mi sento di dovere essere trascinato dagli eventi più che impormi a loro. Non voglio interrogarmi se non per spizzichi e bocconi. Di tanto in tanto, tuttavia, riesco a prendere qualche appunto. Non ho una finalità precisa, nonostante tutto; più che altro, è la forza dell’abitudine, del riflesso che mi porta a cercare di tenere traccia di ciò che succede intorno a me. Tra l’altro, non sono uno che «capitalizza, che fa fruttare il sapere acquisito; sono piuttosto uno che si sposta su una frontiera sempre in movimento» (Lévi-Strauss 1988: 8).

Definire l’identità – l’espressione della sua sostanza – attraverso dei saltelli su una frontiera dinamica può sembrare ridicolo di primo acchito. Ma non lo è. Noi siamo in divenire, la vita stessa è un divenire ibridato, dinamico. Oscilliamo nella «mediazione tra la permanenza e la mutabilità» (Ricœur 1991: 37). Oscilliamo tra i molteplici ruoli assegnati dalla società e le vie di fuga messe in atto dall’individuo stesso. Il linguaggio stesso è fonte di oscillazione, persino di disorientamento perché «è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più» (Wittgenstein 1967: 109). Più che altro, adesso, sono disorientato dal suono dei passi alle mie spalle, dal mio stesso tentativo di indovinare sagome di individui in movimento: è come se mi mancassero le parole per definire una situazione inusuale, che prende forma attraverso il suono e la sua traduzione intersemiotica. Remissivo, mi lascio andare al gioco della memoria, proprio mentre i passi prendono consistenza maggiore alle mie spalle. Il suono dei passi alle mie spalle mi riporta, lontano nel tempo, a un altro episodio della mia vita in cui altri passi veloci hanno un ruolo importante.

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Guidati dallo sguardo (ph. S. Montes)

Ho un ricordo vivido che mi sorprende ogni volta che vengo al santuario. Non so più bene per quale occasione precisa, ma ho bene in mente un’immagine che risale alla mia infanzia: eravamo all’interno del santuario, io, mio padre, mia madre, mio zio e altri parenti. Il santuario era affollatissimo, le persone erano in ghingheri, faceva caldo e a un certo punto ho sentito gridare e visto mia madre accasciarsi al suolo. Mio zio è arrivato all’improvviso, se l’è caricata sulle spalle e, con l’aiuto d’altre persone accorse in quel momento, l’ha letteralmente trasportata fuori. Vedevo mia madre, priva di sensi, portata di peso sulla braccia di diverse persone e non sapevo che fare. Non capivo cosa stesse succedendo esattamente, mi sono messo a piangere. Mi sono sentito impotente e abbandonato a me stesso, senza spiegazioni, senza protezione materna. Ero molto piccolo e, nel trambusto, sono rimasto solo. Credevo, tra l’altro, che mia madre stesse per morire. Poi, un mio parente è venuto a occuparsi di me e mi ha spiegato che non era niente: un semplice svenimento prodotto dall’eccesso di caldo e dalla probabile mancanza di ossigeno. Nel giro di pochi minuti sono passato da uno stato d’animo di totale cedimento a una gioia irrefrenabile: il tutto è durato pochi minuti, forse addirittura secondi, ma la circolazione di emozioni totalmente opposte è stata forsennata e mai più la dimenticherò. Questo episodio, parte della mia biografia personale e simbolica, è ormai, dopo anni, diventato un piacevole ricordo: soprattutto perché ho capito che si può passare dalla disperazione all’euforia in pochissimo tempo e che, in virtù di questo, è meglio non arrendersi subito agli accadimenti. Una lezione di vita? Sicuramente, ma anche un modo di vedere il rito – riconcettualizzarlo – in quanto carico esistenziale che contribuisce a lasciare segno rimotivato sulla memoria e sulle emozioni.

Questo episodio costituisce, dunque, parte integrante del modo in cui il mio passato è divenuto differenziale – differenziale rispetto ad altri episodi rimasti invece nel retroscena della mia vita – e costituisce mondo narrativo, storia strutturata che racconto a me stesso e agli altri. Perché questo è indubbio: diamo un ordine a eventi e persone collocandoli «non già semplicemente in un mondo indifferente, bensì in un mondo narrativo» (Bruner J. 2002: 9). È piacevole, il percorso a ritroso nella memoria, nel mondo dell’immaginazione, del gioco, in un altrove caro al mio sé più intimo e introverso. È piacevole, mi ci abbandono, mi verso nel passato. Da piccolo, per esempio, i miei genitori mi portavano di tanto in tanto quassù, a Monte Pellegrino. Era un vero e proprio rito. Avevo pochi anni. Ho qualche ricordo confuso, qualche immagine granitica che affiora, in me stranito, in ordine sparso. Venivano a prendere il fresco, loro. Venivamo di tanto in tanto a passeggiare qui, noi. Rinverdivamo una piccola tradizione palermitana, condivisa da molti, estiva e conviviale, in uso per combattere il caldo asfissiante insieme agli altri: la grande tradizione del fresco, il rito della resistenza al sole cocente. Giù, il caldo; su, il fresco. Palermo giù, nella conca; il monte su, in attesa dei Palermitani: dalla morsa del caldo all’abbraccio dell’aria fresca, dal profano al sacro. I Palermitani venivano qui e si pigghiavano u friscu, prendevano il fresco, si godevano il ristoro. Tutto qui? E ti pare poco?

Intanto i passi, ormai non più lontani, si moltiplicano all’infinito, si ispessiscono come colla, appressano alle mie spalle, nella quiete mattutina. Dietro di me qualcuno confabula insistentemente. E io, più mi concentro sulle voci, più sono attraversato da un frammento delle Ricerche di Wittgenstein che conosco ormai a menadito: «Chiediti: Come imparano gli uomini ad acquistare l’‘occhio’ per qualcosa? E come si può impiegare quest’occhio?» (Wittgenstein 1967: 298). In effetti, un antropologo non fa altro che imparare e reimparare a impiegare ‘l’occhio’: tutta la vita. Ma si tratta soltanto di ‘occhio’ o, più in generale, della dimensione sensoriale? Mi sottraggo ai miei pensieri. Senza fatica. Mi concentro sui passi, sono ancora lontani. Rallento. Soppeso i pro e i contro. Sollevo qualche debole obiezione alle mie stesse ipotesi auditive. In fondo, ho un solo desiderio, un unico capriccio, non più latitante: mi stuzzica capire in che modo un luogo accoglie gli individui e al contempo li induce a mettere in atto determinati comportamenti, a prenderne atto. Se lo spazio è sacro, il comportamento deve essere adeguato, rispettoso dell’alterità in gioco. A ogni tipo di spazio, un tipo di azioni. O è il contrario?

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Forma di vita (ph. S. Montes)

Io cammino lentamente, mi guardo in giro distrattamente, si potrebbe dire che vado a zonzo: più che altro, dall’esterno sembrerebbero piccoli cerchi concentrici, uno svogliato vagare in tondo, quasi a zigzag, in lungo e largo, a rilento, in sordina, con il pedale sul freno. Ci sono ancora poche persone a Monte Pellegrino. È presto, penso. Io non dormo, non riuscivo a prendere sonno, a casa, nel salone con la finestra aperta alle mie spalle. Il sudore in perle, il divano in finta pelle, un caldo da morire. Risultato: una scossa a bassa frequenza sulla nuca, ripartita equamente sull’intera superficie della pelle convertita in materiale permeabile, poroso. Che fare? L’idea di venire al santuario di Santa Rosalia mi era passata per la testa mentre ero al volante della mia auto, in pieno centro, a Palermo, in procinto di giungere nella parte più periferica, dopo averla percorsa in lungo e largo e in tutte le direzioni. Che strana idea, quella di andare al santuario! Ma come vengono le idee in mente? Da che parte arrivano? Dove si sistemano e chi le guida? E, soprattutto, cosa vuol dire essere guidati? Dovrebbe, questa, essere una domanda posta seriamente, perseguita in tutta la sua portata. Per Wittgenstein, è un vero e proprio gioco linguistico che può rivelarci tanto: «Pensiamo all’esperienza del venir guidati! Chiediamoci: in che cosa consiste quest’esperienza, quando, per esempio, veniamo guidati per una strada?» (Wittgenstein 1967: 94). Mary Douglas lo considera un processo costitutivo della cultura: «un pensiero personale, dopo essere comparso, svanisce, oppure si va a collocare entro una data cornice di nessi inconsueti, per poi sussistere come parte di quel clima particolare che cattura e trattiene i pensieri futuri. Tale è il processo di funzionamento della cultura» (Douglas 1999: 7).

Per quanto mi riguarda, per la mia esperienza, devo ammettere che è stato un puro colpo di testa. Era mattina. Era presto. Erano le sei e mezza. Era ora di fare qualcosa per rompere l’abbraccio insensato del caldo, per sfidare l’attrazione del centro città palermitano. Decisione presa, nel giro di qualche instante. Decisione accettata dalla mia pelle sudata, nell’arco di un paio di secondi. Avevo già fatto il solito giro al centro, un centro non ancora scoppiato sotto i raggi sfacciati del sole. Poche anime vive, nei paraggi; il sole indugiava, non pago, sul golfo di Palermo. Arrivato alla stazione centrale, io mi accingevo invece a ritornare, a casa, dai miei libri aperti dappertutto, per terra, sul tavolo, in bilico tra uno stato d’animo e l’altro. Ma di sonno nemmeno un briciolo, nemmeno un’ombra filiforme. Niente da fare. Questa volta, il giro in auto non mi ha aiutato a conciliare il sonno. Ho visto l’alba, il trapasso dalla luce spessa della notte al giorno incurante. E ciò ha avuto i suoi effetti. Sono più tranquillo, sono più sereno, la mia irrequietudine stempera docilmente via in leggeri sussulti orizzontali; gli avanzi di impazienza si convertono in movimento verticale la cui frizione sulla cute mi riporta alla doccia fresca dopo una lunga nuotata in mare.

Dalla mia testa, da un ideale vaso di terracotta capovolto, come un uomo quietamente invaso da forze esterne e pacificatrici, la serenità lentamente rotola giù per il mio corpo, goccia a goccia, fresca e solleticante, liquida e appagante. Avrei potuto tornare a casa raggiante, rimettermi a leggere l’etnografia di Lipset sui papuani, in attesa di un cedimento del corpo e dello spirito nei confronti di sua maestà: sua maestà il regale sonno. Tra l’altro, l’etnografia di Lipset mi è particolarmente cara perché mette in risalto gli aspetti dialogici della cultura: insiste sulle ambivalenze che rinforzano l’instaurarsi di relazioni e reciprocità. Per i Murik della Nuova Guinea, infatti, esiste uno schema bipartito di valori: le donne sono fonte principale di nutrimento e amore; gli uomini rappresentano invece il potere politico. Tuttavia, pur rappresentando il potere, gli uomini imitano volentieri le qualità femminili in una ambivalenza dialogica che è alla base della riproduzione sociale e del divenire culturale. Al di là del caso specifico, l’ipotesi di Lipset sulla cultura è stimolante: essa «consists of grand, indissoluble ambivalences. Centripetal and centrifugal voices contest each other within generic forms to make up open-ended, rather than canonical, wholes» (Lipset 1997: 4)

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Intendersi e dirigersi (ph. S. Montes)

Nonostante il piacere della lettura e della riflessione sino a tarda notte, la resa al sonno avviene quando meno te lo aspetti. Io, invece, oggi, pensiero dopo pensiero, riflessione dopo riflessione, mi ritrovo, senza nemmeno rendermene pienamente conto, ai piedi del monte, insonne. I papuani aspetteranno. Decido di salire su. Poi non avrei ancora, di mattina presto, nessuna voglia di tuffarmi nella cappa del solito caldo casalingo: di rimanere per l’ennesima volta appiccicato al divano, con il braccio levato alto nell’atto di sorreggere il testo di Lipset sui papuani. Il braccio è determinato, il divano non lo è meno. Sono preso tra due fuochi, tra due solidi intenti: ognuno preme in un senso ben preciso, in una singola direzione. Decido autonomamente, indipendentemente dalla loro volontà, di fare la mia acchianata, la mia salita intima e personale fino al santuario, di dare quindi un senso e una direzione possibilmente univoca al mio stato d’animo: una scappatoia, quanto meno, per sfuggire alla ferma risoluzione del braccio o del divano. Non è una vera acchianata. Vado in auto, parcheggio un centinaio di metri prima per passeggiare un po’. Da quanti anni non ci metto piede, al santuario, dopo un’acchianata a piedi? Non ne serbo nemmeno più memoria esatta. Il passato tende all’annegamento, il presente si fa a volte frenetico, la pianificazione incombe: è la vita. Mi affascinano i segreti di un vivere quotidiano che sembra essere dominato dagli automatismi. È possibile cogliere il senso dell’esistenza, anche laddove il rituale sembra venire meno. Di tanto in tanto, mi capita di riprendere in mano La nausea di Sartre. Ormai, apro il testo a casaccio e leggo dove capita. Nel bene e nel male, mi consola il fatto che l’esistenza non sia percorsa unicamente da invisibili, acquisiti automatismi. Mi consola, leggendo Sartre, il principio di fondo costitutivo, talvolta, di un’esistenza attraversata da epifanie. Le parole che Sartre presta al suo personaggio sono significative: «Se mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose» (Sartre 1948: 172). In poche righe, Sartre mette in scena una triplice trasformazione: dall’astratto al materiale, dal concetto alle cose, dal vuoto al pieno. Con questa trasformazione, per il personaggio di Sartre, la vita perde il suo carattere inoffensivo e si rivela.

Intanto, mentre racconto a me stesso la storia del mio arrivo quassù, sullo spiazzale, i passi sono proprio dietro di me. Sento già l’alito sul collo delle persone. Saranno in due o in tre? Anche se, dallo scalpiccio alle mie spalle, sarei tentato di dire quattro o forse cinque. Con la coda dell’occhio intravedo un polpaccio, un calzino che lo delimita, una scarpa da ginnastica a più strati di sopraelevazione: una di quelle scarpe strane che ti fanno sentire simultaneamente in alto e in basso, con la testa tra le nuvole e il resto del corpo ben piazzato sul posto. Una goccia di sudore scivola sul mio collo intanto. Ci passo il dito sopra, la spalmo tutt’intorno. Approfitto di un leggero sbilanciamento in avanti del mio piede sinistro per raggiungere, con la mano destra, la parte superiore del tallone. Mi gratto. Che impertinenza, il sudore! Che arroganza, le zanzare! Nella mia testa imperlata di sudore mille pensieri si fanno strada confusamente: quanti sono? Che fanno? Perché vanno al santuario? Hanno un voto da sciogliere? Perché proprio a quest’ora? Le scarpe da ginnastica per meglio fare tutto il percorso a piedi?

Quasi mi superano, adesso, gli individui alle mie spalle. Rallento, ancora, un po’. Sento, con un bell’accento siciliano di altri tempi e del tempo presente, una frase di ieri e di oggi: Miii, mi stancavu però! Accipicchia, mi sono stancato però! Mi giro e mi stupisco. Che sorpresa! Quattro ragazzi tamil stanno per affiancarmi. Mi aspettavo di vedere un paio di palermitani in cerca di grazia. Mi sbagliavo. Sono giovani, appartengono alle generazione di Tamil che potrebbe non aver visto la loro patria, se non forse da piccoli. Mi immagino una scena. I loro genitori raccontano, loro li ascoltano parlare della guerra, l’arrivo, la lingua, la scuola, i disagi, il desiderio di rientrare, in qualche modo, a fine conflitto, un conflitto che non termina mai. Rallento ancora: mi superano. Io tendo l’orecchio: loro si mettono a parlare in tamil. Probabilmente, non hanno intenzione di condividere la loro simpatica e informale chiacchierata con un estraneo. Mi passa per la mente che «intendere è come dirigersi verso qualcuno» (Wittgenstein 1967: 174). Una forma di vita, per quanto largamente condivisa in questo luogo sacro, rimane un fatto personale, intimo, da spartire con pochi altri individui eletti allo scopo.

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Passare inosservato (ph. S. Montes)

Allungo il passo, tendo l’orecchio. Poi, lascio perdere. Abbandono ogni proposito. Li osservo da lontano mentre entrano in chiesa. Oltrepassano l’ultima soglia di spazio profano uno alla volta, rompendo la linea di avanzamento, compatto e frontale, assunta durante la loro spedita falcata. La porta del santuario non è una soglia qualsiasi. Ha una funzione, secondo me: smussare qualsiasi tentativo di porsi frontalmente rispetto al sacro, di offrirsi in un atteggiamento conflittuale, di presentarsi nell’atto di guardarlo spudoratamente in faccia. Se le soglie – come ribadisce Van Gennep (1981) – hanno il loro peso simbolico in quanto delimitano gli spazi materiali trasponendoli in significati specifici, le altre forme di spazio assumono un ruolo ugualmente importante per il loro stesso modo di disporsi, riorganizzarsi agli occhi dello spettatore (che avanza in un senso o un altro e sposta così il suo assetto corporeo e visivo) e di rimandarsi reciprocamente in quanto sistema potenziale da attualizzare sulla base delle singole scelte individuali.

La porta del santuario, qui, a Monte Pellegrino, circoscrive lo spazio sacro e lo separa da quello profano: impone allo stesso tempo una direzione e si definisce come luogo ‘da cui si può accedere’ incastonato in un montaggio esemplare di roccia e manufatto, natura e cultura, montagna e chiesa. L’accesso e la facciata, si direbbe, sono i due tratti molari a partire dai quali si pertinentizzano il resto degli universi semantici: quello dello spettatore e del bighellone, del sacro e del profano, dello spazio e del tempo. Se si volesse scomodare Jakobson, si potrebbe avanzare l’ipotesi che il paradigma si proietta sul sintagma senza dissolvere del tutto la sua portata oppositiva. È come se una poesia d’ordine figurativo si rivelasse nell’organizzazione degli spazi del santuario, nella sua composizione di luogo che deve annunciarsi efficace già nella sua esplicita presentazione di contenitore di sacralità. Efficace per chi? Per tutti coloro i quali arrivano al santuario e sono sottoposti al suo effetto visivo, prossemico e cinesico: uno spazio non solo si ammira semplicemente con la vista, ma si dà anche come dispositivo che produce degli effetti sul corpo e sullo spirito, su noi mortali, in basso, al cospetto dell’alterità. Se sei arrivato fin qui, devi sottometterti al suo potere, chinarti, rompere le righe, prepararti a essere con te stesso e con il mistero dell’intangibile, nell’unione potenziale con l’Altro! Devi essere pronto a essere in comunicazione con il divino.

I ragazzi tamil entrano uno ad uno. Sanno che devono piegarsi di fronte al sovrannaturale. La porta è stretta, bassa. Sono costretti comunque. Io esito, mi piazzo per benino sulle mie due gambe e assumo, non so perché, la posizione di saluto orientale. È come se attendessi un suggerimento dal mio corpo. Ma non succede niente. Galleggio aereo. Per un momento, ma solo per un momento, mi viene un deflagrante impulso di raggiungerli con uno scatto di gambe e chiedere loro cosa intendessero più esattamente con quella frase in siciliano: mii, mi stancavu però. Lo sforzo è consustanziale al simbolico, nel caso del pellegrinaggio. Lo so, ma vorrei sentirlo da loro stessi. Comunque sia, non mi muovo. Sul momento, a dire il vero, un solo pensiero fisso mi rode veramente: grattarmi all’impazzata. Le zanzare, a quest’ora, sono dappertutto. Il mio corpo richiede attenzione e non gliene importa molto dell’antropologia, del pellegrinaggio introspettivo, delle ondate di immigrazione, delle frontiere liquide o barocche della chiesa, del senso profondo di un enunciato in siciliano, del piazzale, dell’accesso al sacro, del lasciarsi guidare.

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Deambulazioni (ph. S. Montes)

A ben vedere, gran parte di ciò che è successo stamane è il risultato del caso. Io procedo a casaccio. I pellegrini, ivi compreso i Tamil, hanno invece una meta precisa. I pellegrini sono mossi dal loro credo e dal senso di finalità (che è poi una forma di credo piazzato nel cuore del proprio fare programmato). E io? Al di là dell’apparire del caso, da quale causa recondita sono mosso? Chi guida i miei passi su questo piazzale, in strada, in auto, sul divano, in tutti questi spazi in apparenza eterogenei? Soltanto il caso? Gli spazi, si sa, non sono lì dove sono per rimanere entità astratte: quasi sempre si trasformano in pratiche spaziali per coloro i quali li percorrono, in un senso o in un altro, con una motivazione o un’altra, in una prospettiva che tende al raggiungimento di una meta o, proprio come me, in assenza di una qualche finalità certa. Gli spazi, nei diversi momenti della mia mattinata, si sono succeduti in un certo ordine: il divano, l’auto, il piazzale. Si sono succeduti in un ordine che ha dato vita ai miei pensieri nel modo in cui si sono presentati? Soprattutto sul divano, in pausa, in questa posizione, ho sempre l’impressione che le parole circolino meglio e che passino dal libro alla mia testa senza perdersi nel tragitto. Ho l’impressione, talvolta, che, nell’impiego «effettivo delle espressioni facciamo, per così dire, lunghi giri, percorriamo strade secondarie. Vediamo bensì davanti a noi la strada larga e diritta, ma non possiamo certo servircene, perché è permanentemente chiusa» (Wittgenstein 1967: 167). Ostacolo necessario, dunque, lo sono: le strade secondarie. In auto, contro ogni regola, se proprio devo dirla tutta, non pongo limiti all’immaginazione: mi calo totalmente in una attitudine meditativa e lascio che l’auto decida la direzione da prendere; a volte, interagisco silenziosamente con l’auto, consigliandole un percorso con qualche leggero movimento delle articolazioni; a volte, più raramente, prendo le redini della situazione e imbocco decisamente una strada. Per lo più, comunque, se voglio rilassarmi a fondo, devo lasciarla fare; devo fare in modo che le direzioni da prendere siano il risultato di qualche tensione che si instaura tra la strada e la frizione, il freno, le marce, il cambio, il volante.

Oggi, arrivato al santuario, visto che il cancello di accesso era ancora chiuso, mi sono messo a gironzolare tra i negozietti, alcuni ancora chiusi ma con le saracinesche per metà alzate, altri già aperti ma vuoti, in attesa dei clienti, dei pellegrini, di qualche curioso come me. Incarno il ruolo del bighellone. Passavo e ripassavo e non compravo niente. Guardavo e mi applicavo con accanimento a praticare gli spazi. Da semplice passante, potevo improvvisare come meglio intendevo i miei percorsi: andavo fino alla fine della strada dove non ci sono più negozi e, poi, tornavo indietro; passavo da un angolo all’altro della strada, mi fermavo per qualche tempo; attraversavo e ricominciavo in senso obliquo; camminavo all’indietro, facendo finta di essermi ricordato improvvisamente qualcosa per non dare nell’occhio. E in seguito? Cercavo di passare inosservato e inventavo ogni volta un nuovo percorso: tra i tavolini, gli oggettini in vendita, la strada e il marciapiedi quasi inesistente. Ma, tanto, nessuno dei negozianti faceva caso a me.

E io continuavo nella mia pratica di matta deambulazione, nell’esplorazione delle diverse modalità secondo cui nasce e si realizza un investimento di valori – come direbbe Greimas – da parte del soggetto situato in uno spazio e in un tempo precisi. Certo, prendevo posizione in uno spazio determinato e mi accingevo a percorrerlo in un senso o in un altro; la posizione somatica e cognitiva che assumevo mi dava una prospettiva d’insieme su ciò che vedevo, includendo alcuni oggetti e escludendone altri. Ma cercavo, al contempo, di capire in che modo – nello spazio concessomi dalla mia posizione specifica, dall’angolo visuale che mi competeva, prendendo le distanze dal fluire inevitabile dell’attività cognitiva e percettiva – la direzione del mio percorso veniva guidata da una qualche relazione valoriale che si instaurava tra me e il resto del mondo. Ciò non poteva avvenire – pensavo – se non in virtù di una attribuzione di attenzione da parte mia e, parallelamente, di offerta di interesse da parte degli oggetti che ricadevano sotto l’angolo della mia visuale. L’intento consisteva, più in generale, nell’improvvisare, sul posto, vivendolo nella concreta esperienza di un individuo in carne e ossa, un gioco linguistico in cui venivo guidato da un qualche influsso che i negozi esercitavano su di me e dall’attribuzione – certo inizialmente sicuramente irriflessa e rapidissima da parte mia – di un valore. Si trattava di una attribuzione di valore da parte mia o, piuttosto, dell’accettazione passiva dell’influsso del mondo esterno? Non saprei dire esattamente quali dei due movimenti prevalesse. Ciò che più conta qui è che – dato il mio stato d’animo meditabondo, tendente alla ricezione non intenzionalmente valutativa del mondo esterno, tutto immerso com’ero nel va e vieni rilassato tra il mio sé e gli eventi esterni – per strada, i negozi hanno guidato i miei passi, hanno preso parte attiva al mio gioco linguistico.

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Ossimori visivi (ph. S. Montes)

Poi, mi sono stancato di giocare e sono andato a sedere sulla scalinata in attesa dell’apertura del cancello che porta allo spiazzale in alto. E lì non potevo fare altro che aspettare con la testa già sul posto, sullo spiazzale dove correvo da piccolino. Con mia grande sorpresa, l’attesa si svuotava del suo carattere di sospensione e mi proiettava nell’esecuzione di un fare imminente, in un mondo privo di connessioni da rintracciare a tutti i costi tra passato, presente e futuro. Ma la ragione di tutto, della deambulazione e dell’attesa, può ben dirsi, in generale, è l’assenza di sonno. Se proprio dobbiamo trovare un’origine a questo mio tentativo di fluidificazione della soggettività in processi multipli e differenziati, il sonno, se non proprio una chiave di lettura, è indubbiamente un motore di partenza. Risalire alle cause di un evento non è forse un procedimento esplorato dalla scienza per produrre conoscenza?

In questi miei pellegrinaggi notturni – intimi e deprogrammati, al limite temporale tra il buio e l’arrivo delle prime luci – io sono spinto dall’irrequietudine, dall’assenza di sonno, da una spinta all’incoscienza. I pellegrini non possono lasciarsi andare al caso, mentre io lascio correre le mie intenzioni sul filo della coincidenza e delle circostanze. Il pellegrinaggio è una esperienza vissuta al limite dell’ordinario, sovente, un tentativo di proiezione di se stessi al di fuori del quotidiano, ma è anche un ottimo strumento di indagine di correlate nozioni quali il caso e la finalità, il superfluo e l’essenziale. In quanto attività linguistica e somatica, situata in un contesto specifico, il pellegrinaggio può ben costituire una forma di vita da esplorare alla luce dei diversi giochi linguistici che la caratterizzano: una forma di vita da indagare per espansione semantica e narrativa. Il pellegrinaggio è un rito che non può fare a meno dello spazio: tratto essenziale è lo spostamento del fedele da un luogo all’altro; componente indispensabile è il tragitto percorso con il corpo e con la mente, in compagnia di tanti altri pellegrini in procinto di ‘andare con comune intento’, uniti dalla stessa fatica del viaggio. Uno scopo certo consiste nello stare insieme durante il tragitto, un altro ancora più manifesto risiede nel prefissarsi una meta da raggiungere e una destinazione dove arrivare, prima o dopo, sicuramente dopo aver vissuto l’esperienza sulla propria pelle.

Un pellegrinaggio non può realizzarsi in astratto, nella testa o attraverso qualche espediente che porti il pellegrino direttamente alla meta: deve rimanere un segno sulla mente e sul corpo (un graffio, una scorticatura, tracce di sudore, etc.). Sarebbe bello potere ripercorrere mentalmente, magari con l’aiuto di qualche infernale strumento elettronico, le varie tappe di un pellegrinaggio ideale e, alla fine, pensare di averlo, di fatto, ‘praticato’. Come se lo avessimo fatto nella realtà! Ma non funzionerebbe. Sintesi e pellegrinaggio, percorso mentale ed effettivo tragitto esperito non vanno per niente d’accordo se non, eventualmente, nel racconto che si vuol farne a cose fatte. Il pellegrinaggio abbisogna infatti di un tragitto da concepire per tappe da superare una alla volta, nella loro unicità, da assaporare singolarmente.

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Sacro e profano (ph. S. Montes)

In libreria, appena qualche giorno fa, ho aperto a casaccio un testo di Murakami e le poche frasi che ho letto mi riportano ad alcuni ingredienti del rito del pellegrino: «Se ci restano anche solo dieci anni di vita, è di gran lunga preferibile viverli intensamente, perseguendo uno scopo, che non lasciarli trascorrere con indifferenza, e io sono convinto che a questo fine la corsa a piedi sia di grande utilità. La vera funzione della corsa è di migliorare anche solo di poco, entro i limiti che sono attribuiti a ciascuno di noi, la combustione delle nostre energie. Al tempo stesso, la si può ritenere una metafora della vita – nel mio caso della scrittura – e credo che la maggior parte delle persone che corrono sia d’accordo con me» (Murakami, 2009: 74). Murakami parla di intensità della vita e di indifferenza, di corsa e di scrittura. Ma anche un pellegrino, tutto sommato, è un corridore, un corridore a rilento, preparato dunque fisicamente e mentalmente ad affrontare le difficoltà del viaggio, anche se senza fretta, con i dovuti modi, senza precipitarsi verso la meta. Altrimenti, al pellegrino basterebbe percorrere lo stesso tragitto in auto e arrivare alla meta! In definitiva, nel pellegrinaggio conta la meta, più di tutto, purché alcuni tratti pertinenti siano rispettati durante il tragitto: il percorso delle tappe che lo costituiscono, il corpo come mezzo proprio di spostamento, la condivisione del cammino con altri viandanti, lo sprezzo della fatica fisica, il desiderio permanente di giungere al santuario e, al contempo, assaporare il piacere di ‘essere nel mezzo’, in cammino. Ciò comporta la conciliazione di una duplice e antitetica prospettiva: l’essere diretti verso una meta e, simultaneamente, l’elezione dei luoghi di transito temporaneo a dimora conveniente.

Similmente, il pellegrinaggio può essere inquadrato in due movimenti euforici dati dall’accentuazione del valore del movimento che non disprezza il risiedere. Come dire: avanzo e mi fermo; interrompo il flusso dell’azione e riprendo. Forse, il pellegrinaggio è tanto importante nelle diverse culture, e non cade per ciò in disuso nel tempo, proprio perché costituisce una ridefinizione, vissuta ed esperita, di concetti classicamente opposti quali il mezzo e il fine, il tragitto e la meta, il desiderio di arrivare da qualche parte e il piacere di rallentare il flusso del divenire, il passare senza l’intenzione di rimanere e il risiedere in vista di ripartire. Ad ogni modo, il pellegrinaggio ripropone, per certo, alcuni concetti tipicamente antitetici, almeno nella nostra cultura occidentale, in un accostamento tale che si può pensare a una figura retorica e stilistica centrale quale l’ossimoro. E l’ossimoro, diversamente da quanto si possa credere ordinariamente, non è solo un problema di stile o di registro di scrittura: interviene, spesso, laddove qualcosa di impensabile, individualmente e culturalmente, deve essere ricomposto come unità, come chiave di diversa e nuova lettura del mondo e degli uomini. L’ossimoro, dunque, come figura del pensiero potrebbe avere una sua parte di rilievo nella comprensione del pellegrinaggio. Continua nel frattempo, tra un ossimoro invadente e un altro semplicemente accattivante, a rimbombarmi nelle orecchie il suono della mia voce ovattata dal silenzio sovrumano interrotto dal frizzante, dissacratore parlottio delle cicale: «Fa fresco qui. E i miei venivano qui per prendere il fresco». Sono soltanto due frasette, niente di più, due pensieri incalzanti che si rincorrono nella mia mente, alternandosi nell’ordine, inventandosi ogni volta una nuova successione lineare. Ho addirittura l’impressione che non sia stato io a formularle, tanto prendono il sopravvento sulle mie intenzioni. Sarà sicuramente così: non si dice forse ‘qualcosa mi è passato per la testa’? La testa come contenitore da attraversare, come luogo di passaggio o di transito, percorso da forme di intenzionalità culturali, esterne all’individuo, al suo emisfero destro e sinistro, forse non piacerebbe ad alcuni cognitivisti.

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Il dono (ph. S. Montes)

Intanto, le cicale, all’aperto, nel verde, si rimandano l’un l’altra suoni su suoni, un linguaggio che, nonostante la perseveranza e l’addestramento, non afferro fino in fondo; in parallelo, le mie due frasi sorvolano la mia testa, appena al di sopra del mio lungo codino, prendendosi prepotentemente gioco di me, lottando contro la mia volontà, divertendosi a prendere ogni volta una disposizione imprevista, scacciando l’altro mio pensiero, quello di sempre, il solito, mettendo in fuga la mia idea insana di appiccicarmi ai quattro Tamil e di osservarli punto per punto nelle loro pratiche rituali. Mi lascio guidare dal mio stato d’animo del momento: passeggiare senza meta, lasciarsi condurre dal caso, ma mai nell’indifferenza verso il mondo che mi circonda. Chissà perché si dirà poi ‘punto per punto’ e non ‘virgola per virgola’?

La lingua, ammettiamolo, ha il suo peso nelle faccende quotidiane e spirituali. La lingua ha le sue ragioni. È possibile che il senso di finitezza del punto fornisca una completezza insospettata, una invidiabile chiarezza, ‘da lista’ conchiusa, a eventi e persone. Chissà perché poi i francesi dicono, nella loro lingua, je me promène, letteralmente tradotto in italiano con ‘io mi passeggio’! Io porto a passeggio me stesso? Non sanno, forse, che chi passeggia non dovrebbe avere il peso di portare a spasso, anche se solo grammaticalmente, se stesso in forma oggettivale? Non si dovrebbe forse passeggiare senza una meta fissa, senza pensieri per la testa? Passeggiare addirittura senza nessuna meta in mente, con il corpo pronto a cogliere lo scarto minimo del terreno? È una esperienza alla quale voglio lasciarmi andare: con tutto me stesso, se mai fosse possibile poter disporre di tutto se stesso e rinunciare alla pianificazione che precede l’esperienza. Voglio lasciarmi andare con tutto me stesso all’esperienza. Passeggiare senza meta, tumulare il peso delle mie intenzioni al di sotto delle improvvisate pratiche spaziali. Nonostante il francese, nonostante i miei lunghi anni trascorsi a passeggiare in Francia.

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Un pellegrino (ph. S. Montes)

E non li rincorro, li risparmio, i Tamil. Che senso avrebbe fare il simpatico, per sottoporli a un fuoco incrociato di domande chiarificatrici, interrompere il corso, quasi finalizzato, del loro tragitto? Loro entrano in chiesa. Io mi perdo nei miei pensieri, nel vibrato esile ma sempre più avvolgente dell’aria mattutina, nello scorrere dell’unica solitaria goccia di sudore sulla mia fronte indispettita. Ma non posso fare a meno di chiedermi: dove inizia un rituale? Dove finisce un rituale? Forse, se ci si interroga sull’inizio e sulla fine dell’azione rituale, è più semplice definirlo, sottrarsi alla rete del suo straniante, ammaliante gioco linguistico che sembra tenerti incollato a una sola ristretta sequenza d’azioni, a un misero punto eletto a elemento di base. Mi lascio guidare da questo pensiero. E dal pulsare intermittente dell’alluce del piede che batte contro la cinghietta rigida dei miei sandali nuovi. Come quando sono in auto e guido rilassato, attento e abbandonato allo stesso tempo, pronto (e impreparato al contempo) a seguire le sollecitazioni dell’auto e del mio corpo in armonico dialogo. Attento e rilassato, pronto e impreparato, non sono forse due condizioni dello spirito e del corpo che tendono a coniugarsi, in guisa di ossimoro, in un solo stato piacevolmente dissonante? Allora, anch’io, a modo mio, prima ancora della mia esperienza di oggi, ho il sottile piacere di credere che, durante le mie innumerevoli passeggiate in auto da insonne, sono una sorta di pellegrino, un praticante del montaggio di ciò che comunemente mal si accorda ordinariamente, nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni: gli stati d’animo dissonanti.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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