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La potente impotenza di Francesco Bargellini

bargellini-limpotenzadi Antonio Pane

In una memoranda sequenza di Maledetti vi amerò, il primo lungometraggio di Marco Tullio Giordana, Gigi, l’amico di Svitol finito nella prostituzione e nell’eroina, perso fra i barlumi di candele che oscurano il suo tugurio, parla, con salmodiante sarcasmo, in napoletano stretto, del buco che ognuno si porta dentro, della spina che tiene in cuore e che lo finirà. Me ne sono ricordato leggendo Cocuzzolo, quarta delle quarantaquattro brevi o brevissime prose – distribuite per metà nella maggioritaria parte eponima e per il resto nelle sezioni La storia, Zoo della mia biblioteca, 2020 – che costituiscono (insieme alla poesia Al pensiero e a una eccentrica postfazione autoriale suddivisa fra Contenuti e Note) L’impotenza di Francesco Bargellini, apparso da Inschibboleth nel settembre 2022. L’indefinito umano di Cocuzzolo – il «fanciullo per sempre» (consanguineo del puer aeternus di James Hillman e dell’adolescenza perenne accusata da Witold Gombrowicz in Ferdydurke) in bilico su una collinetta, alla mercé dell’armata che presidia la sottostante pianura e dei minacciosi aeroplani che la sorvolano, ma quasi ignaro del conflitto, la «guerra di tutti i tempi», in cui è invischiato –, quest’anima senza età potrebbe a sua volta dire, se avesse il dono della parola, e un soffio di resipiscenza: ognuno ha il suo cocuzzolo, la sua peculiare condanna di morte.

Com’è noto, il pessimismo del film fulminava la crisi degli ideali sessantotteschi, mentre quello di Cocuzzolo esprimerà lo sconforto di una generazione che di ideali non ne ha affatto incrociati, e probabilmente non ne desidera, avvezza a navigare a vista, a ruminare le scorie di giorni sempre ultimi, orbi di futuro, prendendo la «forma incerta scorsa da un fluido, simile a muco, eternamente cangiante» dell’io narrativo di Il tesoro delle risposte (assunta dopo la distruzione della «pergamena che conteneva il mio contenuto»). Non a caso l’intestatario della scheda bio-bibliografica disponibile sul sito online del «Vernacoliere» (la rivista satirica di Livorno per cui, dal 2018, conduce la rubrica Anche i platonici s’incazzano) si dichiara «apocalittico», persuaso «che la civiltà occidentale sia una barca che affonda – e così il tennis, quando non ci sarà più Federer»: un catastrofista ‘liquido’ «egualmente incline all’astruseria e alle lettere», abituato a convivere con il «narcisista nevrotico», il poeta «di discreto insuccesso nazionale» (culminato nel Platone! apparso da Aragno nel 2016), il «dolente artista» che tuttavia «ama gli orpelli, i fronzoli, i cascami e gli svolazzi», e l’agguerrito filologo che può vantare, oltre ad articoli accolti in riviste specializzate, l’antologia Il canto e il veleno. Bucolici greci minori (Inschibboleth, 2021) e le traduzioni (insieme a Daria Gigli) della Tabula mundi di Giovanni di Gaza (Edizioni dell’Orso, 2021) e dell’Odissea (ovviamente in viaggio).

Emblema di questa arruffata assemblea di individui instabili è lo scrittore multiplo di Invito alla lettura di Pessoa, il nido di eteronimi che ispira un testo-chiave del libro, il Marziano Capretta in cui Bargellini fornisce postille di uno dei suoi possibili sostituti, il poeta che «non ha mai conosciuto personalmente la grazia», il «cane che latra senza denti», vittima di «una libido incagliata e spesso reflua», portatore di un’‘autenticità compulsiva’ che lo vede infine suicida: «Le sue scapole scivolarono, il corpo si curvò rapidamente al suolo mentre al contrario il capo, compiendo un mezzo giro, vincolò per sempre i propri occhi all’alto». Il nomen omen – spia di una predilezione che investirà i due immaginari studiosi-martiri dello scriba lusitano (Francisco Doer, ossia Dolere, e Lisa Dever, ossia Dovere), letteralmente uccisi dall’incarico di censirne le sterminate cartiglie e, in Logica tumorale, il capitano Holms e il suo attendente Watsoff, maldestri indagatori dei recessi del cosmo a bordo dell’astronave Rattin de Selar (ossia Ratting the cellar, ‘che rovista nel sottosuolo’) –, l’allegro battesimo prefigura invero il destino di chi si vuole insieme alieno, fuori dal mondo, e sopraffatto dall’etimologico «capro», dalla dimensione ferale partitamente esplorata in Natura del tragico (esperienza di Sofocle) e nella successiva Lettera a mia moglie sul capro.

Il canto e il veleno. Bucolici greci minoriUn destino che contempla l’assidua coltivazione di piccole fantasie ossessive, un vivaio di ‘improvvisi’ volentieri volti al grottesco e spesso, giusta il precedente esempio, dispensati in coppie o serie, a darsi il cambio, come le storie buñueliane di Le fantôme de la liberté (se non a salutarsi a distanza, come fanno «Il Conte di Xanax» di Cavaliere delle imprese al coperto e «le chicche di xanax mangiate la notte» di Marziano Capretta). Accade per Due ipotesi sulla destinazione dei morti e L’orlo degli uomini, ugualmente ingombrati da moltitudini di estinti; per Cocuzzolo, L’improvviso, Un esempio, tra gli infiniti, dell’agire all’improvviso, variazioni sull’estremo rischio d’esistere; per La notizia, L’attesa e L’attesa II, sporti sull’arrivo di una diagnosi infausta; per Arpie e Al pensiero, stime della distanza che ci separa dalla nostra mente; per Il tesoro delle risposte e Vera storia di Narciso, che fanno fiaba dell’ansia identitaria; per l’assurdo che accomuna gli attori della sezione La storia; per Pasolini a Chia e Jung a Bollingen, con i segnali di fumo fra la pasoliniana torre di Chia e la «torre-non torre» dello psicoanalista; per Città ideale, Città ideale: la parola a Franco e Creditori di nulla, scenari di un sommesso epicedio distribuito fra l’«Aveva meno occhi e baffi di sempre», l’«hai perso la memoria» e il «dove tu sei noi saremo»; per Dea e Il centro, inni alla turbativa deità della donna; per Il centro, Una talpa, Con mia figlia, Le sirene, Ti ascolto, Puro bianco, che si trasmettono il contagio della Pandemia (riassunto, in Le sirene, dal malestro dei giovani: «tutti i fallimenti necessari di questi poveri uccelli sbandati, mentre il dolore li accerchia»).

Il risvolto di questa malizia costruttiva è l’implacabile sofistica, la temeraria avvocatura del diavolo che assomma le ripugnanze di Landolfi, le fredde ferocie di Manganelli, le dolorose cognizioni gaddiane, i cavilli metafisici di Borges, le perfidie di Canetti e tanto altro (del resto, le spettrografie letterarie consumate in Zoo della mia biblioteca saranno valutate, nelle Note a commento, «appropriazioni di me»): una strategia così strenua da elidersi, da scongiurare il danno dell’asserzione; da farsi spericolato esercizio oratorio appeso a un pluralismo stilistico che ne riverbera l’alea (e che ricorda quello ricordato ancora in Zoo della mia biblioteca, laddove, nella «gabbia di Joyce», «Le molte stanze della struttura cunicolare si differenziano l’una dall’altra con cercato stridore»), di volta in volta volendosi, a sconfessare la sua propria eredità, apologo narrativo, favola, poesia filosofica, divagazione culta, riscrittura di miti classici, racconto di fantascienza, fantasia gotica, incubo kafkiano, lettera, pagina di diario, dialogo di morti, concessione goliardica e così via.

Francesco Bargellini

Francesco Bargellini

Ne deriva un lenocinio che non si lascia però ricondurre al perimetro imitativo del pastiche, configurando un ‘gioco a nascondere’, un pudore giustificato, in cima alle Note, dalla sentenza ‘tombale’ sul «deplorevole» principium individuationis (la illustrerà il lugubre corteo di L’orlo degli uomini, i «milioni di miliardi di umani apparsi e regolarmente stroncati da morte» che chiedono «dove andare a dormire», che implorano «un bordo, una siepe, un cane al cancello»), e filigranato, fra i Contenuti, nelle «dichiarazioni d’amore, anche oblique, a uomini morti» (la già detta per Franco, quella rivolta al «Giorgio, che non ho conosciuto davvero», al «Giorgio strappato» di Un esempio, tra gli infiniti, dell’agire all’improvviso, e quella consacrata alla portatrice del «dolore potentemente semita» di Bibbia, «dal cuore che si spaccava in geremiadi, dagli occhi pieni di sabbia, dal corpo che invocava una rupe a cui aggrapparsi nel disastro dei tempi, nel belare della carne»).

Le sembianze di un artefice la cui identità, per non dire la stessa esistenza, è così seriamente messa in mora, sarebbero forse da cercare in certe invarianti, nelle ‘manie’ che possono tradire un qualche carattere. Penso alla particolare, quasi patologica attrazione per i fluidi ripugnanti, applicata alla «coda dei morti» che «si scomponeva e si liquefaceva in una specie di broda bianchiccia» (L’orlo degli uomini), alle Arpie che «covano ingente saliva dalle labbra bluastre» (Arpie), a Pessoa e Kierkegaard, colti a versare «sangue dalle orecchie, assieme ad altra inconsueta materia», a Leopold Bloom che «piscia un’acqua opinabilmente potabile», a Manganelli che «sputa, ricavato raschiando di gola, un bigio catarro» (Zoo della mia biblioteca). Penso alle ‘proliferazioni a catalogo’ dispiegate in Cocuzzolo (dove si accalcano «i generali accecati e senza labbra, e persino le mute dei cani, gli orsi, gli pterodattili, i draghi i basilischi i grifi e l’aquila di Zeus»), in L’attesa II (nella sua millenaria anticamera «c’è una suffragetta e c’è un villano della causa di Münster, un sanculotto e un oplita, una puttana e una sarta, un crociato pezzente, un’aristocratica russa infranciosata, un rapper, un guantaio, un massone e una sguattera, un hippy e una emo, due-tre neoplatonici e un futurista spagnolo»); in Marziano Capretta (il cui antieroe diverrà «circonflesso: «un serpente incantato, un profilo di sauropode, un sopracciglio di Nicholson»); in Zoo della mia biblioteca – ala francese (con il carnaio «di vecchi e di ciechi, di infermi, di marginali e devianti e puttane, di irrisi, di gente ferita, sommersa, bruttata e resa orfana»); in Invito alla lettura di Pessoa (che spinge a «diventare uno gnostico, un rosacroce, un massone e qualunque altra cosa astragga dalla vita delle proprie ossa», quando non «una nube atlantica, un piatto lisbonese»); e soprattutto in La procura, che dipana, dinanzi all’«essere intubato e succubo di spina», una «corposa, enorme matassa frusciante di femmine»: «Donne qualunque, compagne di scuola, colleghe di lavoro; alcune soltanto baudelairiane passanti, o amiche di amiche di amici; donne potentemente volute negli anni ma senza riscontro o potere di possederle, donne solo sfiorate e oziosamente interrogate, in sogno, su quel che avrebbero potuto donarmi, o dove avrebbero potuto condurre le mie mani, se gliele avessi affidate; donne da intestare loro esistenze immaginarie, anche brevissime».

9788836131570_0_424_0_75Ma il gusto per la decomposizione di materie organiche e l’attitudine a sbaragliare i tempi e a confondere le acque, lungi dal suggerire un volto, una qualche sagoma, tendono viceversa a dissolverlo in una pasta uniforme, in una vischiosa poltiglia, riportandoci al punto iniziale di un artiere che si mimetizza nell’opera, rinuncia alla ‘firma’, si adempie sottraendosi.

E i risultati gli danno palio. Malgrado il suo sistematico scialo e sparpaglio, il libro ‘si tiene’; ha anzi una coesione che mura le colpevoli sciatterie di tanta scrittura contemporanea. La prestigiosa grana linguistica (ove brillano cammei come «infrenata», «constrata», «destrutti», «meleggiano», «verge», «tròchilo», «pluviano», «lasco», «tinnìto»), le varie e ben dominate dottrine (fra cui quella che presiede alla stralunata invenzione dell’Improvviso, «prigioniero bulgaro dell’imperatore di Costantinopoli Basilio II, fatto accecare da sua maestà, come usava tra quegli squisiti e ortodossi cristiani, perché gli fosse negata in eterno la luce di Dio»), la densità aforistica, il passo perentorio, la sprezzatura che sdogana, facendone legge, l’irregolare e il bizzarro, concorrono insomma a scolpire uno stile, un segno distintivo, affermano la forza di una folla sbandata e depressa, portano a loro modo, in luogo dell’immaginazione di sessantottina memoria, l’impotenza al potere.

bargellini-platoneDifficile, quasi impossibile, rendere giustizia a tanta deliberata varietà, a una ridda di maschere modellate per non riconoscersi e insieme per non farsi riconoscere, o restituirne un qualche florilegio. Se ne potrebbe certo estrarre l’anima-biglia in balìa del fato fatto «imponente bambino grassoccio» di una lotteria cosmicomica (L’attesa), o segnalare le micidiali etichette affibbiate ai fascisti anti-emigranti di In cronaca («l’Energumenato del Metapensiero»), all’ipocrisia umanitaria dei ricchi di Freud nel Sahel (il «Giorno dell’Opera Inane»), al lardoso ex-inquilino della Casa Bianca di Scimmie (il «Presidente del Tetto Occidentale»).

Se ne potrebbero, volendo, ripercorrere le incursioni bibliotecarie, che lasciano sul campo vividi profili di scrittori (il Platone «che muove le tessere, maneggia pezzi a incastro di qualcosa di poco scernibile, geometrizza, indirizza, con gli occhi acquosi e forse ora ciechi, tanto è invecchiato» e il Ritsos «piangente e priapico» di Zoo della mia biblioteca; la Simone Weil resa uccellino egizio, che «procede con infermieristica cura a rimuovere i molti, minuti brandelli di carne inzuppata di sangue tra i denti del coccodrillo Baudelaire» di Zoo della mia biblioteca – ala francese; il bellimbusto di Pasolini a Chia: «Pensatore implacabile, non meditò mai. Finché, versatosi tutto, finì»). Ma non c’è selezione che basti. Le giostre dialettiche e le caciare verbali non consentono soste. In sella a una mulinante navetta da luna park, l’imprendibile autore continua a farci marameo con la sua mano di scimmia degenerata e nostalgica che scherza per non piangere, agguagliandoci quasi ai grassi turisti che «sgranocchiano pop-corn, perdono briciole dagli angoli della bocca ridendo» di Zoo della mia biblioteca. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).
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