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Ut musica poësis: Kahlil Gibran in viaggio nel Maqāmistān

gibran-la-musica_mesogea_2023di Alessandro Perduca 

Nel 1905 a New York un Kahlil Gibran appena ventiduenne pubblicava Nubḏah fī fann al-mūsīqá (Trattatello sull’arte della musica) [1], opera prima che solo a una lettura e a un lettore superficiali può presentarsi come un ingenuo panegirico all’arte delle note, un mero frammento lirico pregno di romantica e giovanile passione. Gibran condivide infatti la sorte dei nietzschiani uomini postumi «meno ben compresi di coloro che si sono conformati alla loro epoca»[2] e la cui autorità proviene da una paradossale non-comprensione.

Esiste una profonda omologia, secondo l’accezione di Lucien Goldmann [3], fra trama e tema di questa succinta prova d’esordio e il destino stesso dello scrittore libanese. Quest’ultimo in realtà già dispiega in queste poche pagine (circa una ventina in tutto) i tratti fondamentali del futuro uomo di connessioni spirituali, del conoscitore delle tradizioni occidentali e orientali e del viaggiatore fra mondi che inizieranno proprio negli anni burrascosi della sua altrettanto breve esistenza un transito di passaggi e incroci di un’ancora attuale irrisolta linearità e tragico conflitto. Il volumetto avvicina temi storici e lirici, intenti definitori e intuizioni dell’immaginazione, quasi a figurare le interazioni e i percorsi stessi del materiale sonoro presente nel sistema dei maqamāt e la loro capacità evocativa ed emozionale, tentando al contempo di superare le differenze che separano le tradizioni musicali proprie della terra natìa dell’autore e quelle europee e americane con cui egli dovette confrontarsi nella sua ricca e composita biografia culturale.

Prima edizione in arabo, New York 1905

Prima edizione in arabo, New York 1905

Nella prima sezione del testo Gibran afferma che «la musica è un corpo il cui spirito è generato dall’anima e la cui mente è frutto del cuore» [4], esprimendo attraverso la figura dell’arte musicale evocata dalla voce della donna amata una visione del rapporto fra l’udire e l’immaginare che non può non richiamare alla mente gli accenti della celeberrima Ode on a Grecian Urn di John Keats laddove si enuncia «Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter» [5], fino a concepire la musica come «una lampada che dissipa l’oscurità dell’anima e illumina il cuore mostrandone i più profondi recessi» [6] – sorta di negative capability in grado di entrare in contatto conoscitivo con l’interiorità.

Se l’eredità del romanticismo inglese affiora in filigrana a livello intertestuale, l’idea dell’origine divina della musica rimanda alla dimensione fonoacustica della rivelazione biblica e coranica la cui eco risuona ancora nel canto bizantino e nelle sue declinazioni nelle chiese orientali, nella cantillazione sinagogale (hazanut) e nell’arte della qira’ah attraverso l’ortoprassi fonetica del taǧwīd.

Ben lontano da una veste formale e liturgica, è la creazione stessa per Gibran ad essere sostanziata da un afflato musicale nel quale l’universo dei suoni non è immediatamente comprensibile o traducibile in linguaggio umano poiché è codice segreto della natura che, compreso nell’abbraccio dell’immaginazione, apre il cuore e lo spirito a quella conoscenza filosofica che è parimenti amore per il sapere e sapere proveniente da un atto d’amore. In quel fondo la musica si fa specchio (già Nietzsche aveva chiamato la musica «specchio dionisiaco del mondo») [7], e l’uomo si riconosce a sua volta in un’origine divina per cui differenze culturali ed espressive, di genere e specie fra i viventi non sono che modi molteplici di un’unica essenza.

Gibran, Sappho

Gibran, Sappho

Se nella terza sezione di al-Mūsīqá si ripercorre cursoriamente attraverso il «teatro del ricordo»[8] il ruolo rivestito dalla musica presso le antiche civiltà, l’intento è quello di accomunare l’esperienza umana in una ricerca circa il significato del mistero rappresentato da tale arte, laddove la spiegazione eziologica del mito approda ad una soggettività ispirata del fenomeno musicale. L’esempio del re Davide menzionato da Gibran mostra una concezione ‘intransitiva’ dell’esperienza sonora. L’io suono non è transitivamente orientato allo strumento (io suono uno strumento), ma lo strumento è tramite di un suono interiore in cui l’io è soggetto attivo del canto, un io che risuona nel proprio intimo «come se le note dell’arpa scaturissero direttamente dal suo cuore affranto e trasportassero le gocce del suo sangue fino alla punta delle dita»[9].

Il mito, dunque, presso gli antichi non farebbe che cogliere questo universale scaturire del suono dal profondo dell’animo umano, suono che precede la parola e accompagna ogni manifestazione del ciclo dell’esistenza. La presenza originaria del suono permea la vita stessa nel suo corso segnato da fasi di gioia e dolore – persino nelle esperienze più tenebrose come la guerra – e ne accompagna il fluire precedendo nell’esperienza la parola stessa: musica come parola-origine, mito autentico (nel senso attribuitogli da Károly Kerényi [10]), rito.

Kahili Gibran, Parigi, 1909

Kahili Gibran, Parigi, 1909

Nella penultima sezione dell’opera l’autore tenta una descrizione delle emozioni e degli stati d’animo suscitati da quattro maqamāt [11]. Il maqām è di fatto un complesso sistema musicale che abbraccia le tradizioni colte della musica sviluppatasi nell’ecumene islamica, dall’Andalusia al Maghreb, fino ai confini della Cina passando per Nordafrica, Turchia, Persia e Asia centrale – un’area geografica sterminata, dunque, abitata da popoli caratterizzati dalle più variegate culture, non a caso indicata da alcuni studiosi con il toponimo fantasioso di ‘Maqāmistān’[12]. Lo stesso termine maqām designa infatti, secondo la sua etimologia, il luogo dove la musica si fa, sia come spazio fisico della prassi esecutiva, sia come consistere di note raggruppate per altezze e intervalli.

La vastità di detta ecumene ha di natura favorito contaminazioni e imprestiti che, nel caso della regione siro-libanese da cui proveniva Gibran, rimandano, ma non solo, alla presenza della tradizione musicale bizantina e alle forme assunte nelle varie confessioni da essa derivate. Nell’epoca della colonizzazione e con il conseguente sorgere delle istanze nazionaliste, la consapevolezza di questa originaria unità è andata perduta, e ciò spiega perché oggi si faccia distinzione tra maqām arabo, persiano, turco ecc. Si rileva altresì che la differenza tra forme musicali colte (maqām) e popolari (‘atābā) potrebbe richiamare un’omologia con la diglossia presente nel mondo arabo, ovvero la coesistenza di un’unica lingua letteraria accanto a una miriade di dialetti parlati.

Il maqām nella sua accezione tecnica è una gerarchia di note disposte ad intervalli ed altezze che si presta come materiale sonoro alla prassi dell’esecutore. Assimilarlo a una scala o a un modo [13] risulterebbe del tutto inadeguato perché esso include parimenti motivi specifici, formule melodiche, frasi-tipo che comprendono solo le note che gli sono proprie. In questa strutturazione esiste una forte similarità con la musica classica indiana Hindustani e il sistema dei raga. Al novero dei maqamāt, raggruppati in famiglie, appartengono alcune caratteristiche peculiari; anzitutto la microtonalità: gli intervalli sono inferiori o superiori a quelli della tradizione colta europea inscritti nel temperamento equabile che prevede una distanza fissa fra i semitoni di cui è composta l’ottava. L’altezza delle note non ha un riferimento fisso a un diapason e l’altezza relativa così come la distanza microtonale si regolano sulla prassi di scuole, maestri ed esecutori rendendo la gamma delle sfumature, dei colori e dell’espressione praticamente illimitata. Vi è poi la monofonia, secondo la quale gli strumenti o la voce non prevedono l’esecuzione di linee melodiche sovrapposte o concatenate, aspetto che la rende dunque estranea al concetto europeo di contrappunto o armonia. Infine l’eterofonia, per cui l’esecuzione della stessa linea melodica è affidata a più strumenti all’unisono che si differenziano per la natura timbrica e di registro.

Kahili Gibran, Parigi, 1909

Kahili Gibran, Parigi, 1909

Sviluppatasi in elaborate forme di espressione e di suite, la prassi esecutiva collega parti e forme differenti iniziando di solito con un solo nel quale la struttura, il colore, il mood del maqām vengono presentati dall’esecutore (ancora una volta la tradizione Hindustani offre un analogo nell’alap, introduzione del raga) con la disposizione delle note lungo un percorso ascendente, il soffermarsi su alcune note o intervalli caratteristici, il passaggio all’ottava superiore, la presentazione di frasi-tipo che nel tempo diventano leitmotif o inconfondibili specificità di ciascun maqām. Tale presentazione, che in arabo prende il nome di taqsīm, è dettata dall’improvvisazione e si sviluppa poi in forme differenti, magari modulando ad altri maqamāt, ma sempre mantenendo però l’idea di un percorso, di un dialogo, di uno scorrere comunicativo e fluido. Lo studioso uzbeko Otanazar Matyakubov ha paragonato il maqām a una città che l’interprete percorre decidendo dove sostare e quali luoghi visitare [14]. Le caratteristiche sono quelle di un paesaggio sonoro che il musicista esplora secondo una dialettica articolatissima fra tradizione e improvvisazione.

Mother Nature and the Spirits sounding the trumpet

Mother Nature and the Spirits sounding the trumpet

Nel suo sviluppo storico in dialogo con la tradizione ellenistico-bizantina il sistema del maqām ha prodotto forme di connessione con la prassi terapeutica e la spiritualità (come si può ad esempio riscontrare nell’universo del sufismo), associando le singole strutture a corrispondenze macrocosmiche e microcosmiche. Gibran si concentra su quattro strutture tradizionali molto comuni nella prassi degli esecutori, segnatamente il nahāwand, l’iṣfahān, il ṣabā e il raṣd, enucleandone l’impatto emotivo e la risonanza interiore che comprendono uno spettro ampio di sentimenti e stati d’animo. La natura evocativa della sonorità, in questo caso vocale, favorisce quella natura odeporica e a tratti rapsodica che permette di toccare temi e immagini che sono proprie di un patrimonio che Gibran andrà a sviluppare nelle sue opere figurative e letterarie, ma che già qui sono contenuti in una precoce ma intensa sintesi.

«O figlia dell’anima e della passione» [15]; è ancora un tono di sapore keatsiano ad avviare la conclusione di questo scritto in una celebrazione e invito a onorare quanti nella tradizione orientale e occidentale hanno insegnato ad ascoltare il richiamo dell’invisibile e a vedere ciò che i suoni veicolano nello specchio dell’immaginazione che collega l’umanità alle proprie origini e lo proietta alla ricerca di una spiritualità aliena a compromessi e meschinità settarie.

Orphée a la LyreOrpheus at the LyreAquarelle, 1928

Orphée a la Lyre Orpheus at the Lyre Aquarelle, 1928

La musica appare ora per la prima volta in lingua italiana per i tipi di Mesogea in un’edizione curata da Francesco Medici, esperto di fama internazionale dell’opera gibraniana, affiancato dalle studiose libanesi Maya El Hajj, docente di Traduzione e Lingue Straniere presso la Notre Dame University-Louaize, e Nadine Najem, poetessa e musicologa. Da anni impegnato nell’esplorazione di ogni ambito della produzione di Gibran – dalla poesia alla narrativa, dall’arte pittorica al teatro e alla saggistica –, profondo conoscitore del fermento letterario legato alla diaspora siro-libanese nelle Americhe a cavallo tra XIX e XX secolo, Medici offre un’accuratissima introduzione dalla quale emerge lo sguardo complessivo ricavato da una lunga frequentazione dell’autore e del suo entourage e che chiarisce il contesto di riferimento e la genesi di al-Mūsīqá.

La pubblicazione è arricchita da una prefazione di Paolo Branca (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) che con pochi sensibili tocchi coglie l’importanza del pensiero gibraniano inquadrato nel suo specifico background culturale. Impreziosiscono il volume e lo rendono utilissimo ad arabisti e lettori arabofoni il testo letterario in lingua originale nonché la traduzione in arabo di tutti i paratesti.

La musica nella sua duplice veste linguistica è un invito a un viaggio fra spazi e luoghi, tempi e culture, arti e vite nelle quali e per le quali, ancora una volta, l’opera e la figura di Kahlil Gibran assumono il tono della profezia e dell’annuncio per tempi sempre a venire, carichi di speranza nell’uomo e nella sua presenza nel mondo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] Ǧ.Ḫ. Ǧubrān, Nubḏah fī fann al-mūsīqá, Maṭbaʻat Ǧarīdat al-Muhāǧir, New York 1905.
[2] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, nota introduttiva di M. Montinari, traduzione di F. Masini, Adelphi, Milano 1970: 26.
[3] Per una trattazione del concetto di omologia, cfr. L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo, traduzione di G. Buzzi, Bompiani, Milano 1967: 16-18.
[4] K. Gibran, La musica, a cura di F. Medici, M. El Hajj e N. Najem, Mesogea, Messina, 2023: 34.
[5] J. Keats, The Complete Poems of John Keats, Wordsworth Editions, Ware 1994: 221.
[6] La musica, cit.: 35.
[7] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, versioni di S. Giametta e M. Montinari, Adelphi, Milano 1972: 130.
[8] La musica, cit.: 36.
[9] La musica, cit.: 39.
[10] K.G. Jung, K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, traduzione di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 1972: 11-43.
[11] Per una panoramica esaustiva sull’argomento, cfr. G. De Zorzi, Musiche di Turchia, Ricordi, Milano: 23-31.
[12] L’espressione è stata adoperata per la prima volta dal musicologo canadese Robert Simms (cfr. Musiche di Turchia, cit.: 29).
[13] Per modo si vuole intendere una struttura scalare che parte da una qualsiasi delle note di una scala data per raggiungere la nota d’inizio all’ottava superiore (ad esempio, prendendo la scala maggiore di do, si può partire dal re e raggiungere il re dell’ottava successiva utilizzando le medesime note presenti nella scala stessa di do maggiore).
[14] Cfr. Musiche di Turchia, cit.: 30.
[15] La musica, cit.: 46. 

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Alessandro Perduca, è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).

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