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La dottrina dell’islamofobia e il discorso su Colonia

 COPERTINA di  Cinzia Costa

Il contributo che propongo nasce da una necessità di analisi e di riflessione sul flusso di informazioni cui il lettore medio è oggi sottoposto. La diffusione di internet, e dei social media in particolare, ha stravolto e rivoluzionato le modalità dei comuni utenti della stampa e dunque, per estensione, di una gran parte della cittadinanza di approcciarsi all’informazione pubblica, accorciando estremamente, almeno apparentemente, la distanza tra la notizia e il lettore e conducendo il rapporto tra questi due termini ad un punto di non ritorno decisamente inedito. Nell’epoca attuale l’avventore dell’apparato mediatico (e social-mediatico) è esposto ad una overdose di notizie ed informazioni. In particolare i social network, in virtù della loro diffusione capillare e del largo bacino di fruizione, consentono un’ampia divulgazione diatopica e diastratica, che raggiunge in brevissimo tempo regioni territoriali e fasce sociali molteplici e diversificate. Questa (in molti casi fittizia) democrazia dei nuovi mezzi mediatici conferisce al lettore l’impressione di essere a diretto contatto con la fonte di informazione e di poter essere in possesso di una verità sui fatti che spesso il servizio di informazione pubblica omette o cela.

A scanso di equivoci è necessario ricordare che la diffusione globale di internet è da considerarsi a tutti gli effetti una rivoluzione nell’ambito della divulgazione e condivisione di un sapere libero e senza filtri, con tutte le conseguenze, positive e negative, che tale trasformazione ha portato con sé: ne sono esempi chiari il meccanismo base di funzionamento di Wikipedia, la più grande enciclopedia aperta sul web che si fonda sul principio di libera circolazione delle informazioni e sulla partecipazione e l’apporto di contributi e revisioni da parte di tutti gli utenti, o anche il ruolo centrale dei social network durante avvenimenti storici e politici di grande rilevanza come le cosiddette Primavere arabe, quando giovani attivisti nordafricani diedero vita a delle vere e proprie rivolte, prima in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e poi anche in altri Paesi del Vicino e Medio Oriente, dando voce al proprio dissenso attraverso blog personali ed eludendo così lo stretto controllo che le dittature imponevano alle loro società.

Esiste tuttavia un’altra faccia della medaglia, quella che, facendo perno sulla banale ingenuità ed in molti casi sull’imprudenza del lettore, fa sì che la rete si presti alla diffusione di notizie imprecise, erronee ed insinuanti. Tale meccanismo prende spesso le mosse da quelli che la psicologia sociale definisce come pregiudizi confermativi (o confermative bias), ossia quelle convinzioni preventive dei soggetti, che portano a valutare come vere e degne di divulgazione solo quelle informazioni che confermano ciò che già sappiamo. Questo spiegherebbe il motivo per cui le notizie di migranti che commettono crimini sono molto più diffuse delle notizie che potrebbero attribuire dei meriti positivi agli stessi, o spiega, per esempio, l’ampia circolazione di notizie che connettono (in modo spesso arbitrario) l’appartenenza religiosa dei protagonisti della cronaca ad avvenimenti relativi alla violenza sulle donne e ad atti di terrorismo, o presunto tale. Ciò avviene poiché questo tipo di informazioni confluisce perfettamente in quel flusso indifferenziato volto a divulgare una narrazione socialmente accreditata, generalmente intrisa di xenofobia e islamofobia in particolare, fortemente corroborata dall’opinione pubblica e da una certa classe politica.

La necessità di tentare in prima approssimazione un’analisi sull’utilizzo dei social network muove appunto dalla presa di coscienza del fatto che questi ultimi costituiscono, a tutti gli effetti, un nuovo significativo mezzo di divulgazione delle informazioni. Tuttavia, per quanto l’ingenuità della comunicazione possa essere in qualche modo giustificata dall’alibi della “amatorialità” dei propagatori di notizie (questo non giustifica tuttavia la credulità degli utenti), il giornalismo professionale non può invece sfuggire ad una critica ferma e risoluta, nei casi in cui incorra in questo tipo di trabocchetti (ove si tratti di incidenti) e scorrettezze (quando si tratta di esplicita espressione di faziosità).

In particolar modo i fatti di cronaca degli scorsi mesi si prestano bene, ed in modo piuttosto esemplificativo, ad essere analizzati come

«un campo di forze in cui il giornalismo entra con sceneggiature, icone e strategie narrative. Da attore in campo mai neutrale, che con la sua grammatica vede e marca i cambiamenti in atto, definendo così la sintassi della società in cui si situa. Il rischio è però che le istantanee siano troppo spesso scattate all’ombra della politica. […] Interpretazione costante, mai innocente» (Erta, 2014: 10).

FOTO n.1 L’attività fondamentale del giornalista è in primo luogo quella di effettuare, come step basilare e preliminare a qualsiasi tipo di pubblicazione, il fact checking, ovvero la verifica dei fatti. Prima di divulgare qualsiasi tipo di notizia è opportuno e necessario che un professionista dell’informazione verifichi l’attendibilità delle fonti a cui ha fatto riferimento [1]. Tuttavia, l’impressione che si riceve dalla lettura e dal confronto di diversi mezzi di informazione e testate, soprattutto relativamente ai temi connessi, più o meno coerentemente, ai fenomeni delle migrazioni e del terrorismo, spesso artatamente confusi, è che nel corso degli ultimi mesi, soprattutto in seguito agli attentati di Parigi nel novembre 2015, il senso del dovere deontologico di molte voci del giornalismo professionale italiano abbia lasciato spazio alla necessità di sensazionalismo e spettacolarizzazione dei fatti, allo scopo di avallare una interpretazione della società complessa in cui viviamo quanto meno riduttiva e semplicistica.

L’episodio di cronaca che più di tutti si è prestato a questo tipo di meccanismi narrativi ed interpretativi è quello relativo alle aggressioni avvenute a Colonia nella notte di Capodanno. Sulla scia della difficile situazione dell’anno precedente, il 2016 si è aperto infatti con un pesante bagaglio relativo alla situazione geopolitica e all’ambito dei movimenti migratori e delle politiche di accoglienza in Europa. La notte di San Silvestro, nel piazzale davanti la stazione dei treni di Colonia, si sono verificate numerose aggressioni, le cui vittime sono state le donne, sole o in compagnia, che si trovavano nel piazzale. L’accreditamento e una rigorosa ricostruzione dei fatti sono stati offuscati a lungo a favore invece della propagazione di un assordante dibattito pubblico che ha invaso per settimane i mass media in ambito italiano ed europeo [2].

FOTO n.2   I fatti in causa riguardano dunque le pesanti aggressioni compiute da un folto gruppo (tra i 500 e i 1000) di uomini dall’aspetto arabo e nord-africano [3], di età compresa tra i 18 e i 35 anni, contro le donne che la notte tra il 31 dicembre 2015 e l’1 gennaio 2016 si trovavano nel piazzale della stazione dei treni. Le denunce esposte alla polizia locale sono cresciute esponenzialmente nei giorni successivi all’aggressione: il 4 gennaio erano circa 60, per poi superare le 650, dopo la grande diffusione della notizia. Le denunce, presentate quasi tutte da donne, riguardano nella maggior parte dei casi rapine e furti, ma molte sono anche quelle che concernono molestie sessuali. Un’altra informazione piuttosto accreditata è quella che riferisce di una certa impreparazione a gestire i disordini da parte della polizia locale che pure si trovava sul luogo degli avvenimenti. Le indagini della polizia nei giorni successivi si sono concentrate su giovani perlopiù maghrebini, e si è menzionata la possibilità che fra gli aggressori vi fossero dei rifugiati, accolti in Germania in seguito ai flussi migratori registratisi negli ultimi mesi del 2015 (cfr. Romano, Zitelli: 18 gennaio 2016) [4].

Per quanto i fatti registrati siano di una violenza che è impossibile non condannare, si ritiene in questa sede necessario e doveroso fare un passo ulteriore, oltre la rabbia e la paura, per cercare di inquadrare qual è la narrazione proposta e diffusa dal servizio di stampa italiana, se quest’ultima possa avere avuto degli effetti sulla realtà ed, eventualmente, come ci si possa preservare da un bombardamento mediatico aggressivo che ci vede come bersagli.

«La forma mentis con cui l’Italia ‘si pensa’ sulla stampa, in relazione alle migrazioni e ai Paesi di partenza, è rimasta sostanzialmente immutata, in una sorta di paralisi che, sfruttata dalla politica, si sta trasformando in isteria collettiva. L’emergenza sicurezza, declinata nella duplice veste dell’islamofobia e del famelico attacco al nostro welfare, continuano a delineare le coordinate di gran parte degli articoli che oggi vi trovano posto» (Erta, 2014: 181).

Muovendosi all’interno di questo tipo di strategia alcune delle testate italiane, nei giorni successivi ai tragici avvenimenti, hanno riportato le notizie su Colonia descrivendo i fatti in modo non del tutto imparziale e diffondendo in alcuni casi fotografie e video che si sono poi rivelati essere falsi, senza dunque neanche preoccuparsi di verificare l’attendibilità dei documenti presentati [5].

FOTOn.3Pur prendendo coscienza del fatto che, non potendo prescindere dal principio dell’autorialità insito nel processo stesso della scrittura, l’imparzialità e l’oggettività assoluti sono dei criteri inattuabili, cercare di offrire al pubblico un’informazione che sia quanto più chiara e trasparente è uno dei presupposti elementari e basilari del giornalismo professionale. L’informazione pubblica in Italia, soprattutto su alcuni temi spinosi, sembra invece muoversi spesso all’interno di uno specifico frame le cui coordinate sono costituite dalla paura dell’Islam e degli stranieri e dall’immigrazione come fenomeno emergenziale che deve essere arginato al fine di preservare la propria sicurezza nazionale (ed integrità culturale).

Questo avviene probabilmente perché tanto la stampa quanto l’entourage politico italiani, di tutti gli schieramenti, «quando toccano il capitolo immigrazione sembrano incapaci di prescindere da una riflessione che non sia anche ‘etica’» (ibidem). I temi relativi all’accoglienza dei migranti e alla sicurezza, soprattutto in seguito agli attentati di Parigi, sono particolarmente sensibili poiché colpiscono il cuore della nostra società afferendo alla sfera più intima dei soggetti. A tal proposito risulta significativo richiamare alla mente le riflessione che Michel Foucault avanzava relativamente alle “società del discorso”, ovvero quelle società in cui la produzione del discorso, inteso come dispositivo di potere, è controllata attraverso dei precisi meccanismi di inclusione ed esclusione della parola. Come dice lo stesso autore, tutte le società possiedono delle procedure di controllo e selezione del discorso di cui le istituzioni sociali sono strumento. All’interno di questo panorama un’altra funzione fondamentale sarebbe quella delle “dottrine”, le quali, diversamente dal sistema delle discipline che hanno lo scopo di limitare la circolazione della parola, tendono invece a diffondersi. Il riconoscimento e la condivisione «di una certa regola – più o meno duttile – di conformità coi discorsi convalidati» (Foucault,1972: 33) permetterebbe dunque la divulgazione di un pensiero che, attraverso i soggetti, esercita un qualche potere sulla realtà.

«La dottrina mette in causa gli enunciati a partire dai soggetti parlanti, nella misura in cui la dottrina vale sempre come segno, manifestazione e strumento di una preliminare appartenenza – appartenenza di classe, di statuto sociale o di razza, di nazionalità o di interesse, di lotta, di rivolta, di resistenza o di accettazione. La dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro, e differenziarli per ciò stesso da tutti gli altri. La dottrina effettua un duplice assoggettamento: dei soggetti parlanti ai discorsi, e dei discorsi al gruppo, per lo meno virtuale, degli individui parlanti» (ivi: 34).

Le dottrine sarebbero dunque, per Foucault, quei meccanismi, interni alle “società del discorso”, attraverso cui alcuni individui «definiscono la loro reciproca appartenenza» (ibidem) sulla base della condivisione di idee religiose, politiche o filosofiche. In questo senso è possibile parlare di una certa dottrina dell’islamofobia che, diffondendosi nell’opinione pubblica, contribuisce alla costruzione di stereotipi e di strategie concrete di azione sociale e politica. L’accanimento generale verso una eziologia pressoché superficiale dei fatti ha invertito l’ordine consueto dei processi (dal fatto all’interpretazione). L’interpretazione veloce e parziale lanciata da un pulpito qualsiasi (nessuno studioso, specialista, etc…) ha preceduto o sostituito totalmente l’importanza dei fatti, di certo gravissimi. Accade dunque oggi che gli avvenimenti reali perdano importanza davanti al loro presunto significato, poco importa se si tratta di un’attribuzione di significato sommaria e sbrigativa. L’interpretazione performa l’accaduto e genera, inoltre, delle concrete ripercussioni sulla realtà, o, citando Herzfeld «il sistema simbolico ha un effetto performativo sulla realtà retorica» (Herzfeld, 2003:169). Come nei sistemi di governo totalitario, sembra non sia necessario che i fatti avvalorino le idee, essendo queste ultime a orientare e certificare i fatti.

In seguito alle aggressioni di Colonia, avvenute all’interno di un clima già caldo ed ostile nei confronti dei migranti, ci sono state delle forti reazioni della popolazione locale e non solo, atti in alcun casi simbolici e in altri anche violenti [6]. La sera del 9 gennaio due manifestazioni hanno gremito le strade di Colonia: numerose donne, dando voce ai movimenti femministi, sono scese in strada per protestare contro le aggressioni sessiste sulle donne; contestualmente un altro corteo promosso da gruppi di estrema destra, tra cui «i militanti del movimento anti-islamico Pegida e del partito di estrema destra “Pro Koehln”» (Romano, Zitelli: 18 gennaio 2016), ha manifestato con cori razzisti contro la presenza di immigrati sul territorio nazionale,  indicando tra i presunti aggressori  imprecisati individui di origine mediorientale, alcuni dei quali anche rifugiati accolti dal governo Merkel. Numerose sono state anche le voci che si sono fatte sentire per opporsi sia al sessismo che al razzismo, con l’intento di mediare tra le due interpretazioni espressione di posizioni polarizzate, che avevano posto di fatto il problema solo in termini di sicurezza e violazione dei diritti delle donne, in un caso, o di possibilità di convivere e di integrare la massa amorfa degli immigrati, dall’altro, decontestualizzando ed estrapolando completamente gli accadimenti dal contesto in cui sono effettivamente avvenuti [7].

foto n.4Le reazioni della popolazione sono comunque interessanti per cercare di capire quale sia stata la lettura dei fatti che i cittadini hanno avallato. In entrambi i casi, infatti, ad una analisi approfondita che cercasse le reali responsabilità sugli avvenimenti, e dunque prima ancora che le indagini accertassero le effettive implicazioni dei colpevoli, si è preferito trovare un capro espiatorio che potesse attirare su di sé le colpe dell’accaduto, perché maschio, o perché straniero (“arabo” nello specifico), a priori, e non perché fosse realmente reo. In particolar modo, la reazione dei movimenti xenofobi e l’interpretazione razzista degli avvenimenti hanno diffuso, anche fuori dal confine tedesco, un discorso estremamente superficiale e stigmatizzante della identità dei migranti, ed in particolare degli “arabi”. Espressioni come «animali», «rito di umiliazione», «branco di Colonia», «jihad sessuale», «atavico tribalismo arabo» [8] sono comparse sulle pagine dei quotidiani della stampa italiana per raccontare gli avvenimenti. La cornice entro cui si sono mosse le narrazioni dei fatti ha ridotto l’accaduto alla stregua di un mito delle origini sul ratto delle donne. La retorica della difesa delle “nostre donne” ha alimentato una rappresentazione dello straniero come invasore e attentatore della patria, individuando, in modo quanto mai arbitrario, le cause dell’incompatibilità tra europei e arabi, civili ed incivili, nelle radici culturali e religiose dei secondi [9], le stesse radici culturali che, peraltro, avevano portato i molestatori arabi musulmani, a compiere violenza sulle donne. L’asse del dibattito si è dunque spostato da un razzismo biologico, ormai socialmente e storicamente inaccettabile, ad un razzismo culturale, più “corretto politicamente”, ma non meno pericoloso. Il migrante, arabo, musulmano, è diventato di fatto una icona. «Le strategie dell’essenzialismo dipendono tutte dalla creazione dell’effetto semiotico tecnicamente noto come iconicità. […] L’iconicità sembra naturale e quindi è un modo efficace di dar vita a una verità evidente» (ibidem: 46).

FOTO n.5Ciò che preoccupa maggiormente è che questi processi di semplificazione della realtà ben si prestano a saziare un pensiero pigro e soprattutto stanco, come quello di buona parte della cittadinanza che, sconvolta dai cambiamenti del nostro tempo, si accontenta di soluzioni già pronte che permettano di leggere con chiarezza il disordine del mondo  che ci circonda, offrendo l’illusione di poter porre rimedio alle minacce di cui ci sentiamo vittime. Una stampa e una politica irresponsabili, unitamente ad un utilizzo ingenuo dei social media, non fanno invece altro che prospettare una estrema semplificazione della realtà, che è invece molto più complessa di quanto la dottrina dell’islamofobia possa far credere, alimentando alla fine un circolo vizioso di odio, che mette in pericolo tutte le categorie della società e confonde le vittime con i carnefici e viceversa.

«Non bisogna immaginarsi che il mondo ci volga un viso leggibile che non avremmo più che da decifrare; il mondo non è complice della nostra conoscenza; non esiste una provvidenza prediscorsiva che lo disponga a nostro favore. Occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una pratica che imponiamo loro» (Foucault, 1972: 41).

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] Esistono a questo proposito vari siti a disposizione degli utenti dei social network che permettono di verificare l’affidabilità delle notizie condivise sul web, per esempio https://factcheckeu.org/factchecks .
[2] A tal proposito, nei primi giorni del febbraio 2016, un gruppo di studiosi e docenti universitari di storia, letteratura e cultura dei Paesi arabi, africani e islamici ha scritto una lettera aperta di protesta contro la narrazione dei fatti di Colonia giudicata superficiale e di bassa qualità, contestando in particolare un editoriale di Maurizio Molinari per La Stampa, intitolato “Da dove viene il branco di Colonia” (si veda http://www.qcodemag.it/2016/02/01/molinari-editoriale-colonia/)
[3] Questa espressione, comparsa anche su alcuni giornali esteri (Arab and North African-looking men) stupisce per la superficialità con cui vengono accostati i termini “aspetto” e “arabo”, considerato il fatto che il termine “arabo” qualifica i nativi bella Penisola Araba, o l’appartenenza ad un bacino culturale di riferimento ampio, quello Mediterraneo e Medio orientale, che poco ha a che vedere con l’appartenenza etnica, nazionale o religiosa, dei soggetti né tanto meno con l’aspetto fisico o i tratti somatici, come si suppone gli autori dell’espressione in causa volessero intendere.
[4] Per completare questa breve sintesi degli avvenimenti di Colonia è stato necessario fare riferimento ad un sito di giornalismo (Valigia blu) all’interno del quale è stato pubblicato un breve reportage allo scopo di offrire una «mappa orientativa» (Romano, Zitelli: 18 gennaio 2016) che permettesse ai lettori di avere una maggiore chiarezza sui fatti realmente avvenuti, proprio a causa dell’ampia diffusione di dibattiti e polemiche che hanno in qualche modo offuscato i fatti. Per maggiori informazioni si consulti http://www.valigiablu.it/colonia-i-fatti-le-indagini-le-reazioni-il-dibattito/#fatti .
[5] Nello specifico si tratta di una foto che ritrae, presumibilmente, un migrante che sputa ad una donna a Colonia e un video, registrato da un cellulare, che mostrava una donna aggredita da un gruppo di uomini. Indagini neanche troppo approfondite hanno permesso di verificare le fonti che riguardavano rispettivamente, nel primo caso, un manifestante durante un corteo a Vienna e, nel secondo caso, un gruppo di uomini che molestano una donna, sì, ma a Piazza Tahrir al Cairo nel 2012. Questa non è stata tuttavia l’unica occasione in cui notizie false sono state divulgate senza prima aver effettuato una verifica: in seguito agli attentati terroristici avvenuti a Parigi nel novembre 2015 il clima di psicosi collettiva ha contribuito alla diffusione di bufale e notizie infondate.
[6] Le reazioni sono state forti anche in altre città della Germania; per esempio davanti alla stazione di Berlino alcuni immigrati hanno donato dei fiori alle donne in segno di rispetto e solidarietà alle vittime di Colonia. Ci sono state, tuttavia, anche reazioni violente che hanno visto gruppi di militanti di estrema destra aprire una vera e propria “caccia all’uomo” e compiere aggressioni contro migranti o danneggiare auto e case per le strade di Colonia e Lipsia.
[7] Sebbene non si siano verificati con certezza i fatti, molte sono le testimonianze che raccontano che i gruppi di uomini protagonisti delle aggressioni fossero in uno stato alterato in seguito all’assunzione di alcool, come spesso accade in occasioni di grande euforia sociale come appunto la notte di Capodanno (gli avvenimenti sono infatti stati paragonati alla Oktober Fest, manifestazione durante la quale non sono rari i casi di molestie sulle donne). Inoltre, come si è già detto, buona parte delle denunce ricevute dalla polizia locale riguardavano furti e rapine, che potrebbero anche essere la causa di alcune delle aggressioni.
[8] http://www.valigiablu.it/colonia-i-fatti-le-indagini-le-reazioni-il-dibattito/#fatti
[9] Verrebbe inoltre da chiedersi perché la voce degli uomini per la difesa delle donne non abbia la stessa risolutezza e forza di risonanza quando i carnefici di donne molestate, aggredite o, sempre più spesso, uccise sono italiani (nella maggior parte dei casi, come sempre più spesso avviene, mariti o compagni).
Riferimenti bibliografici
Erta A., Migranti in cronaca. La stampa italiana e la rappresentazione dell’altro: la rivolta d Rosarno, Ombre corte, Verona 2014
Foucault M., L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. it. Einaudi, Torino 1972
Herzfeld M., Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, trad. it. L’Ancora, Napoli 2003

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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione.

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Una risposta a La dottrina dell’islamofobia e il discorso su Colonia

  1. Davide Carella scrive:

    Trovo questo articolo, molto utile e profondo. Grazie, un abbraccio grande grande e complimenti!

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