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Giovanni Pagni, medico del Bey di Tunisi e raccoglitore di epigrafi

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Ritratto di Giovanni Pagni

di Ahmed Somai

Dal 12 marzo al 30 settembre 2018, in collaborazione con la Galleria degli Uffizi e la Regione Toscana, si è tenuta la mostra presso il museo del Bardo delle epigrafi latine raccolte da Giovanni Pagni durante il soggiorno di un anno in Tunisia, e mandate a Firenze dove entrarono a far parte della collezione del Card. Leopoldo de’ Medici, e dopo la morte di quest’ultimo conservate infine negli Uffizi, incluse negli stucchi di Giovanni Battista Foggini nelle pareti di due stanzoni denominati “Ricetto delle Iscrizioni”.

Al di là del suo valore storico, la mostra al Bardo, museo che subì nel 2015 un barbaro e vigliacco attentato, voleva essere un messaggio forte di solidarietà e di collaborazione culturale tra la Tunisia e l’Italia, ed in particolare la Regione Toscana che ha avuto per il passato, soprattutto nel Seicento, rapporti privilegiati con i bey di Tunisi

Le epigrafi antiche dell’Africa Proconsularis hanno fatto quindi ritorno, per alcuni mesi, nella loro patria originaria, a distanza di più di tre secoli dal loro espatrio a Firenze, dove sono state trasferite per opera del medico pisano Giovanni Pagni. Per ben due secoli esse costituirono il solo nucleo di epigrafi latine provenienti dall’Africa visibile in Europa.

Esse furono offerte, insieme ad altri doni di varia natura, dal bey Murad II al medico pisano, ma erano state raccolte dallo stesso Pagni o da altri dietro sue indicazioni nei siti per lui irraggiungibili. Al loro arrivo a Firenze entrarono subito a far parte della collezione del cardinale Leopoldo dei Medici e quindi della Galleria degli Uffizi.

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Dedica a Geminia Artemisia (da Tukabur)

Il viaggio del Pagni in Tunisia aveva in verità ben altri obiettivi che il fatto di andare a bighellonare tra le rovine antiche alla ricerca di iscrizioni latine risalenti all’Africa proconsolare o di altri reperti archeologici: la ragione della sua presenza era piuttosto legata alla sua professione di medico, mandato dalla corte di Firenze, per offrire la sua opera ad un illustre personaggio, che è niente di meno che Mohammed el Hafsi, fratello del Bey Murad e figlio di Mohammed Pascià, il quale diventerà Bey a partire dal 1675, dopo la morte di Muràd II.

Ciò è confermato anche dalla prefazione alle Lettere di Giovanni Pagni a Francesco Redi dove si legge «richiesto a calde istanze Ferdinando II Gran Duca di Toscana da Mohamet Apsi (Hafsi) Bey di Tunisi di un medico di vaglia per andar colà ad assisterlo in una sua malattia quanto molesta altrettanto schifa». Sembra dunque che il paziente sia Mohammed Hafsi e non il bey Muràd, come suggeriscono alcuni (vedi Corriere di Tunisi, aprile 2018). La confusione nasce probabilmente dal fatto che la richiesta sia stata fatta dal Bey di Tunisi, Muràd II,alla corte toscana nei primi mesi del 1667.

Come è risaputo, non sarebbe la prima volta che i sovrani di Tunisi hanno fatto ricorso a medici toscani (vedi Levante, 2001; Fabrizio Paolucci, catalogo della mostra) e lo stesso Pagni, dopo il suo rientro da Tunisi, era stato sollecitato una seconda volta a recarsi a Tunisi per gli stessi motivi, ma preferì declinare l’offerta, nonostante fosse stato apprezzato molto per la sua opera e premiato con cospicue somme di denaro e vari doni.

Non era dunque una novità che un medico toscano si trovasse a Tunisi, presso i bey, per prestare la sua opera medica. La novità risiede nella scelta del Pagni anziché un altro. Siccome il Pagni medico era anche un appassionato di cose antiche, nonché di botanica, di studi animali e di costumi, la scelta di mandare lui, anziché un altro medico, era giustificata dal suo profilo eclettico e soddisfaceva due esigenze, quella naturalmente di guarire il sovrano tunisino, e quella non meno importante agli occhi degli illustri personaggi che speravano di raccogliere dal suo viaggio in Tunisia, reperti antichi ed epigrafi sparse sul territorio e risalenti all’Africa proconsolare. Infatti, il suo invio a Tunisi era dietro indicazione di Francesco Redi, medico personale di Ferdinando III, al quale poi il Pagni scrisse le lettere che descrivono il suo soggiorno in Tunisia, e con il sostegno dell’autorevole Card. Leopoldo dei Medici, appassionato di cose antiche. Così il canonico Moreni descrive il doppio impegno affidato al medico Pisano:

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Dedica di Quintus Mattius Primus alla dea Caelestis (da Tukabur)

«Il suo maggior impegno, oltre…assistere il Bey, e di ristabilirlo in salute, si era di far incetta, e provvista di vetuste iscrizioni, e di monumenti per compiacere le brame del Ser. Gran Duca, ed in ispecial guisa il vivo trasporto del Card. Leopoldo, di lui fratello, avidissimo quanto mai … di si fatta erudita merce all’oggetto di viepiù aumentare il lustro della patria Real Pinacoteca» (XVIII).

Non era la prima volta che un sovrano tunisino, o anche di altri Paesi arabi, faceva appello ai servizi di medici toscani o di professionisti e scienziati del Granducato di Toscana, e quindi la visita di Giovanni Pagni si iscrive all’interno di una prassi collaudata da tempo, e si presenta come un indizio dei rapporti privilegiati tra la Tunisia del Seicento ed i Granduchi di Toscana; semmai la novità risiede, come abbiamo accennato, nella versatilità del medico Pagni e la doppia missione di cui era investito come medico e come appassionato di antiquaria, importante questa seconda dimensione per il nostro discorso sulle epigrafi “esportate” allora a Firenze per opera di Giovanni Pagni.

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Frammento di stele votiva a Saturno con Dioscuri e altre divinità (da Cartagine)

Inoltre, la nutrita corrispondenza che il Pagni intrattenne con Francesco Redi, medico e naturalista, pubblicate nel 1829 a cura del canonico Moreni, costituiscono un documento prezioso par la quantità di informazioni di varia natura sulla Tunisia di quel tempo, sulla sua gente, i costumi, le piante, gli animali, spesso con una precisione quasi scientifica. Questo epistolario, oltre a raccontare le tante cose occorse al Pagni o viste da lui, descrivono anche come sono state rintracciate le iscrizioni latine, tolte dal loro sito originario, e mandate a Firenze.

Ecco come il medico pisano descrive il suo arrivo a Tunisi nella prima lettera datata Tunisi 15 aprile 1667:

«Con non prospero vento, ma con felice viaggio, piacendo a Nostro Signore, giunsemo il di 13 del corrente alle 24 ore alla Goletta, e fino a questa mattina non siamo scesi a terra, dove non abbiamo trovato il Sig. Bey, il quale è a Porto Farina per vedere la partenza dei vascelli di corso. Spedirono anche subito uomo a posta a dargliene parte, e questa sera, o domattina se n’aspetta risposta»

 Probabilmente, il Pagni era deluso o alquanto sorpreso di non trovare nessuno ad accoglierlo alla Goletta, e lo stesso Bey, come egli scrive in un’altra lettera, gli disse che sarebbe venuto con seicento cavalieri a riceverlo, ma era impegnato nei preparativi di una spedizione corsara a Porto Farina (l’attuale Ghar el Melh) da dove partivano le navi corsare. Più tardi, con parole poco lusinghiere descrive la dimora del Bey:

«Ho veduto il palazzo, dove abita, il quale è una grandissima fabbrica, ma come disse il Poeta “rudis, indigestaque moles”. La porta assai grande, ma la scala quasi a chiocciola, angusta, buia e sozza, sì come quasi tutte le altre stanze, le quali sono mattonate di quadrelli di varii colori, ma scompostamente, e quasi senz’ordine alcuno».

 Nella Lettera scritta da Porto Farina, il 20 aprile 1667, Giovanni Pagni racconta il suo viaggio da Tunisi verso il porto dove stava il Bey, occupato a preparare i vascelli per la corsa, con dettagli non privi di interesse sul suo primo incontro con il sovrano tunisino, e sui costumi di quest’ultimo, dai quali filtrano informazioni che non nascondono lo stato di squallore e di degrado dei costumi di sovrani dediti ai piaceri ed alla guerra di corsa come unica attività redditizia, mentre traspare da tutto il racconto del Pagni un paese la cui gente vive nell’ignoranza e nella superstizione. Ciò è altrettanto più evidente quando pensiamo che alla stessa epoca Firenze viveva sotto il governo de’ Medici un periodo di splendore artistico e culturale:

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Dedica a Marco Aurelio e Commodo (da Tukabur)

«Comparvero uomini del Sig. Bey con carrozza a quattro, foderata di broccato di seta, per condurmi a Porto Farina distante da Tunisi quarantaquattro miglia (…). Partii da Tunis dopo le 13 ore e giunsi alle 23… Stava egli (il Bey) alla Zulfa (dall’arabo Sufra), che vuol dire mensa, dal mezzogiorno fino a quell’ora (le 23). (…) Mi ricevè con familiarissima, e cordialissima sincerità, facendo sedermi appresso di lui, ed a mano destra, né volle permettere che io, conforme l’uso del paese, gli baciassi la mano (…). Parla assai francamente italiano in modo, che fa intendersi, e intende il nostro linguaggio» (7-11).

Il medico pisano cominciò subito la missione per la quale era stato inviato presso la corte del Bey, ed abbiamo in questa stessa lettera una prima informazione sulla malattia che affliggeva l’illustre paziente:

«Il suo male gli principiò dopo aver avuto commercio con una donna in una sua villa, la quale lo regalò di alcune galanterie. Gli scorre un dolore non molto eccessivo per le gambe, e i piedi, ma spezialmente nella parte destra, nella gamba della quale poco sotto il ginocchio ha un piccolo tumore duro. Non mi pare, che possa disperarsi della cura, tanto più che non ostante la dissolutezza della vita, promette lasciare affatto il vino, bisognando, e non uscir un atomo della regola, che gli assegnerò» (Lett. Da Porto Farina, 20 aprile 1667).

Dalle ultime sue osservazioni possiamo dedurre che si trattasse di una malattia di origine venerea. A partire da quel momento il Pagni continuò il suo lavoro di medico approfittando del suo soggiorno, durato un anno, per annotare osservazioni sulle tradizioni ed i costumi, la fauna e la flora, da vero naturalista, e soprattutto iniziò un’esplorazione dei siti archeologici in cerca di iscrizioni latine e di epigrafi degne di essere raccolte.

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Frammento di stele votiva a Saturno con le quattro stagioni (da Cartagine)

Dai luoghi da lui evocati ci risulta ch’egli non abbia mai oltrepassato le immediate vicinanze di Tunisi, come Uthina (l’attuale Oudhna), o  Mohammedia e naturalmente Cartagine, anche se quest’ultimo sito, nonostante l’emozione cha ha provocato in lui la vista delle rovine dell’antica avversaria di Roma, non gli è stato utile per la raccolta di reperti archeologici degni di interesse. Aspettava il Pagni, comunque, di ritornare a Tunisi per cominciare la sua scoperta dei luoghi ed annotare quanto stimava interessante riguardo il mondo degli uomini e quello della natura, con la varietà delle sue piante e dei suoi animali:

«Come sarò in Tunis, che tra pochi giorni succederà, il Sig. Bey mi darà commodità, e compagnia per poter vedere le cose più cospicue sì  di animali, come di piante, fabbriche antiche, e moderne, e ogni atra cosa di mio gusto. E mi giurò, che se fosse stato in Tunis, quando io giunsi alla Goletta, per amor di S.A.S (il Gran Duca), m’avrebbe incontrato con cinque, o seicento cavalli» (Moreni 1829: 15).

Sul trattamento riservato alla gente del paese, che chiama “Mori”, il medico pisano non nasconde la sua sorpresa e la sua implicita disapprovazione: «Trattano i Mori assai peggio, che se fussero schiavi, nè gli permettono il fabbricarsi case, ma stanno solamente in campagna nelle trabacche (baracche), ed oltre gli altri gravissimi pesi devono ogni anno pagare un tanto per testa, e non avendo il commodo si pigliano per pegno i proprii figli» (Moreni, 1829: 20).

Nella lettera datata Tunis, 31 agosto 1667, il Pagni cita un numero cospicuo di piante, confrontando i nomi locali con quanto aveva letto in Avicenna, correggendo talvolta quest’ultimo, sbagliando egli stesso, come quando cita «Hakla: Palma, da che si corregge il Testo d’Avicenna, lib.2… dove si legge Nakla…», mentre il nome giusto è effettivamente “nakhla”. Molti nomi trascritti secondo la pronuncia locale sono accompagnati dal corrispondente in latino o in italiano, come Harùb (carrubo), Trungiàn (melissa), Bsal (cipolla), Dokàn (tabacco) in arabo significa fumo perché «non danno altro nome al tabacco, che fumo», Bathiksuri (popone), Filfil (pepe, peperone), Zeit (olio), Hasel (miele), Selk (bietola), Babunegi (camomilla) ecc…

A partire da pagina 46 (Moreni 1829) comincia a trattare degli animali iniziando con il leone (oggi scomparso dalle montagne tunisine): «Leone, Esed, Leonessa, Lebua. Nascono, e ritrovansi i leoni in molte parti di questo regno di Tunis, ma particolarmente in un monte detto Takrùn (l’attuale Takruna), vicino ad un villaggio, o castello chiamato Zariàn (Zaguan)». In questo passaggio, alquanto lungo, in cui tratta del leone egli riporta anche varie favole o credenze, come il fatto che i

«Mori di campagna, uccidendo qualche leone si mangiano la carne, e vendono la pelle, la quale conciano, e servonsene per tappeto, e credono fermamente, che chi patisse d’emorroidi, sedendovi sopra assisuamente, ne senta notabilissimo giovamente. Similmente credono, che portandosi a dosso la pelle della fronte, sia un potentissimo amuleto contro ogni sorte di fascino, per il quale effetto ancora tengono appese a’ fanciulli, legate in argento, l’unghie dell’istesso leone».

Narra, inoltre, la storia di un Moro chiamato Makemet Laur , cioè orbo, il quale s’imbattè in un leone che gli fece cenno di seguirlo fin dentro un bosco di palme, dove c’era una leonessa che giaceva «languente con il collo enfiato per un osso», e il Moro preso « il grasso di un uccello, che aveva ucciso, lo scaldo’ ed unsene il collo della leonessa», e per alcuni giorni continuò a curarla finché guarì. Per sdebitarsi il leone portò ogni giorno alla capanna del Moro un animale da lui cacciato. Tale leggenda ricorda la favola di Fedro, dove uno schiavo chiamato Androclo, fuggendo dal suo padrone malvagio trovò rifugio in una tana. In quella tana stava un enorme leone, e lo schiavo dapprima si spaventò ma poi si accorse che il leone era ferito a una zampa e ne soffriva. Allora si avvicinò e vide che aveva una scheggia di legno conficcata nella zampa, gliela tolse e lo medicò. Dopo stette con il leone tre anni mangiando ciò che l’animale portava, finché non fu catturato dal suo padrone e condannato ad essere buttato alle belve e divorato. Un leone gli si avventò contro ma di colpo si fermò e lui si avvide che era il leone che aveva curato dalla ferita. Questi impedì che le altre belve lo mangiassero, e visto questo miracolo, egli fu graziato.

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Rilievo con kantharos,  cigni e decorazione fitomorfi (da Cartagine)

La stessa leggenda si narra anche a proposito di San Gerolamo, condannato ad essere divorato nell’arena dalle belve fu difeso dal leone che aveva trovato ferito in una grotta e lo aveva guarito. Racconta poi il Pagni, che la leonessa vedendo le parti genitali dell’uomo «vergognosamente si fugge», e molte altre storie. Seguono parecchie pagine sugli animali di terra e di mare, e sugli insetti: cammelli, cavalli, asini, bovi, bufali, cicogne, cornacchie, upupa, falconi, cignali, razza, triglia, cavellette, scorpioni, struzzi, tortore, colombe ecc..il tutto accompagnato da osservazioni e da aneddoti.

Il medico Pisano riporta anche molte osservazioni sugli ordinamenti, come la legge che proibisce di girare dopo una certa ora della notte «legge posta dal passato re Karacùs, che dopo sonata la huba, che a nostra usanza, sono le due ore di notte, ne và la vita a qualsisia o Turco, o Moro, ma particolarmente cristiano, che vada per la città» (Moreni 1829: 111).

In questa lettera a pagina 111, il Pagni annuncia la sua intenzione di trattare del costume e dei riti: «Sarà, dico, intorno agli sponsali, modo di far orazione, Quadragesima, Pasqua, Circoncisione, modo di seppellire, abito di lutto, e sepoltura»”. Quindi parla del matrimonio, delle quattro mogli legittime, «oltre le quali possono tenersi quante concubine vogliono, Nere, Cristiane o rinegate», del rito: la dote, la Henne della sposa, il corredo, la festa, il bagno, la sposa, confrontando anche con lo sposalizio in campagna (Moreni, 112-117). Seguono osservazioni sul rito delle abluzioni e della preghiera, citando i nomi delle cinque preghiere, chiamate Salé , il Gem (moschea), la Fet (Fatiha)… (118-120). A pagina 121, parlando della Quadragesima o Ramdam (il Ramadan), racconta una storia alquanto strana sull’origine del Ramadan:

«Dicono che la Q. fu istituita perché essendo un giorno domandato quel buon uomo di non so qual grave negozio, ed essendo ebrio, e non diede risposta, o la diede a rovescio, onde per correggersi stette un mese, che il giorno non gustava niente, ma la notte tornava alle solite crapule, e quindi a sua imitazione hanno istituito questo digiuno, che chiamano Ramdam» (Moreni 1829: 121).
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Stele figurata con dedica Sidi Nasser

E sulle abitudini del Bey durante il Ramadan dice «il Sig. Bey ciascuna sera usa far quattro zufle (ar. Sufra, cioè banchetto), una all’oscurar del giorno (rottura del digiuno), la seconda a due ore di notte, la terza a mezzanotte, e la quarta vicino al di’» (122). Pagni chiama Pasque gli Aid o feste musulmane: la prima Pasqua (Aid sghir che segue il Ramadan), la seconda Pasqua (Aid Kbir, con il sacrificio dell’agnello, in ricordo di Abramo), il Maulèt (il Muled, nascita di Maometto), menzionando i piatti tipici che si fanno durante tali feste, come la Basina (Basin, tuttora in uso in alcune zone), o la Malochia (Mlukhia, che si cucina al primo dell’anno Hegira, come augurio di un anno verde o fertile).

L’epistolario del medico Pisano sembra diviso in due parti, di cui la prima ha come obiettivo di soddisfare la curiosità scientifica del medico naturalista Francesco Redi, interessato alle annotazioni fatte dal Pagni sulla flora e  sulla fauna, sui costumi e i riti. La seconda parte, invece, doveva soddisfare le brame del Card. Leopoldo de’ Medici, appassionato collezionista di cose antiche, a intenzione del quale Giovanni Pagni raccoglierà, quanto gli era possibile, epigrafi ed iscrizioni latine, riuscendo alla fine del suo soggiorno ad inviare più di 20 pezzi, che saranno dapprima integrati nella collezione del Card. Leopoldo de’ Medici, per poi entrare a far parte delle collezioni degli Uffizi.

Nelle varie sue lettere, il Pagni racconta le circostanze felici, e qualche volta infelici, di questi ritrovamenti. La sua attenzione si sposta infatti dal mondo degli uomini, delle piante e degli animali, a quello dei luoghi e dei siti di cui sentiva parlare:

«In questo tempo, così permettendomi la cortesia dell’eccelltiss. Sig. Bey, anderò a vedere queste campagne, e specialmente un Anfiteatro da essi chiamato Gem, distante da questa città cinque giornate di cammino, e al ritorno passerò per il Zaiian (Zaguan), dove dicono essere un bagno nominato Hamemel Zerib (l’attuale Hammam Zriba), di cui mi raccontano meraviglie, le quali soprassiedo di raccontare fino che con gli occhi proprii non l’averò veduto» (Moreni 1829: 145).

Non sembra, comunque, che egli sia stato mai al Djem, perché in seguito non ne disse più nulla. Del sito di Cartagine dove era andato a cercare reperti ed iscrizioni, non ricavò nulla e si accontentò di descrivere i resti dell’antica città aggiungendo qualche disegno sulla disposizione di colonne o di muri. Lo spazio in cui si muoveva nelle sue ricerche non oltrepassò comunque un raggio di circa quaranta chilometri intorno a Tunisi, limitato a sud da oued Milian e a nord da Utica e Ghar el melh (Porto farina) ed a ovest da Zaguan. In particolare Utina (l’attuale Udhna) e Mohammedia, come racconta nella lettera indirizzata a Fabrizio Cecini, segretario del Card. Leopoldo de’ Medici, gli è stato possibile recuperare «inscrizioni dedicate a Saturno … scolpita la testa di Saturno… Ho procurato aver le dette iscrizioni e finalmente con molta fatica l’ho ottenute» (159).

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Stele funeraria con coppia di coniugi

Non molto lontano da Mhamedia (l’attuale Mohammedia) egli evoca la località di Sedfin, «dove le scrissi esser quella antica iscrizione, la quale per essere un pilastro grossissimo, e che sosteneva una porta, è stato di mestiero farla segare, e non di manco non ho potuto averla intiera»(160). Potrebbe apparire oggi scandaloso una tale disinvoltura nel segare e nell’asportare dal loro sito i reperti antichi, ma dobbiamo tener conto che a quei tempi era un uso corrente, ed i collezionisti europei portavano via pezzi ed oggetti di antiquaria con naturalezza e talvolta con l’aiuto delle autorità locali, come era il caso con il Pagni al quale lo stesso Bey mise a disposizione aiutanti cristiani e Spahi (corpo armato) di guardia per non essere molestato durante le sue ricerche: «E per aver le suddette pietre mi è stato di grande aiuto il medesimo Sig. Bey, perché i Mori di Nessera insospettiti avevano cominciato a tumultuare..», non tanto perché questi “Mori” avevano coscienza dell’importanza di questi reperti o perché volevano proteggere il sito, ma perché nella loro ignoranza sospettavano che il Pagni andasse in cerca di tesori nascosti, come egli stesso afferma a proposito della sua visita al sito antico di Utina (Udna) dove sperava di trovare delle iscrizioni:

«Ma per quanta diligenza che usassimo cinque persone ch’eramo, non potemmo trovare alcuna iscrizione, delle quali domandando a certi Mori, che avevano quivi le loro tende, risposero che le avevano viste, ma non si ricordavano il luogo; né più oltre si potè intender da loro, perché hanno una fermissima credenza, che per quelle campagne vi siano molti tesori, e dove trovano pietre con caratteri latini, ch’essi chiamano Christianeschi, si persuadono, che vi sia un tesoro, e che quelli, che vanno cercandoli, non per altro fine ne vadino in traccia, che per cavare i tesori ivi celati» (164).
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Stele votiva con offerente (da Cartagine)

Nel sepolcro del Mrabt Sid Nasar Bergù (marabutto) dice di aver trovato due segmenti con delle iscrizioni, uno dei quali «feci smurarlo, e sminuirlo di mole per quanto potei, ma perché una carretta non poteva portarlo ci tenni tre giorni due maestri christiani e uno Spahi per guardia, i quali la sminuissero. Vi stettero tre giorni, ed infine me lo portarono rotto, ma in modo che può accomodarsi, ed è in scritto così: JVLIE DOMNAE AVG./ MATRE, CASTRVM/ MATRI. AVGVST (iscrizione dedicata a Giulia Domna)». Il Pagni racconta poi che tornando alla Mhamedia trovò sulla strada un «grosso pilastro di pietra viva con la seguente iscrizione, la quale ancora feci portare in Tunis» (168). Più avanti dice di aver rintracciato in una villa detta Norciba Hibica «una mezza statuetta di marmo bianco, senza busto. È questa una donna, la quale ha il manto sopra gli omeri con lembo… con la sinistra si appoggia ad un Delfino, da che si comprende essere Venere…, e questa pure è in mio potere» (168).

Oltre al dono da parte del Bey di queste epigrafi, altri regali furono mandati al Gran Duca:

«il Sig. Bey, manda al Ser. Padrone dieci cavalli, e quattro cameli… Porto inoltre un leone, un orso di pelo rossigno, tre struzzi, quattro gazzelle … alcune erbe e semi, ed altre curiosità… l’acqua dell’Amemelif (l’attuale Hammam Lif presso Tunisi), l’acqua del Zaguan» (184).

Dopo il suo ritorno a Pisa, il Pagni scrive ancora che «Sid Mahamet l’Hafs Bey di Tunis (ciò conferma che il paziente non era Murad II, ma suo fratello) non ha voluto dimenticarsi l’affetto, con il quale ha sempre riguardato la mia debole servitù» (Pisa li 12 settembre 1668). In un’altra lettera più tardiva viene confermato ciò che è stato detto prima sulla pratica corrente dei Bey di Tunisi per quanto riguarda l’invio di medici toscani: «Il sig. Console Genovese in Tunis, mi scrive d’ordine del Sig. Bey, che io gli provveda un medico per la sua persona… gli darà cento Doppie di Spagna l’anno, casa, servitore, pane e carne» (Pisa 22 agosto 1674).

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Steletta dedicata da Labienus pudens Caecilianus (da Mohammedia)

Quest’epistolario di Giovanni Pagni è una testimonianza preziosa ed oggettiva, per l’epoca, che rende conto di una Tunisia che i più conoscono poco, dove convivono turchi, mori e schiavi cristiani, in una rete di rapporti non sempre facili, e in condizioni di vita talvolta indegne per la noncuranza dei governanti e il peso dell’ignoranza e della superstizione. Duole pensare che tanti reperti fossero stati portati via nell’indifferenza di tutti e per la scarsa consapevolezza del loro valore, ma per quei tempi potrebbe riuscire comprensibile visto che siamo ai primi inizi dell’interesse antiquario, anche presso gli europei.

Ma duole maggiormente vedere che una tale mostra che riporta in terra tunisina una parte della sua storia, sia passata in un altrettanto silenzio e indifferenza, come se fosse una storia che non ci riguarda. E per alcuni lo è forse, in questo clima di fondamentalismo pieno di violenza, di rifiuto dell’altro, di chiusura mentale che esclude l’arte e la riflessione oggettiva, e che considera la storia della Tunisia preislamica non degna di essere ricordata e conservata. Abbiamo visto le distruzioni di siti archeologici unici nel loro valore e nella loro bellezza per mano dei Talebani e dei soldati del Califfato. L’attentato del Bardo, oltre a recare un duro colpo al turismo culturale del Paese è un attacco a tutti i luoghi che custodiscono la memoria degli uomini, nel tentativo di cancellare parte di quella memoria.

Il patrimonio archeologico della Tunisia è tuttora in pericolo, per la noncuranza delle autorità o la loro incapacità a proteggerlo, e per i tanti atti di vandalismo e di furto a scopo di traffico. In un certo senso, queste epigrafi hanno avuto la fortuna di cadere nelle mani giuste, che le hanno conservate in un insieme omogeneo per costituire una collezione unica, e di entrare a fare parte di un’illustre Galleria, come quella degli Uffizi. Molte altre iscrizioni non hanno avuto questa fortuna e sono andate perdute.

Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
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Ahmed Somai, insegna lingua e letteratura italiana moderna e contemporanea alla Facoltà di Lettere Arti & Umanità – la Manouba (Tunisi). È co-autore di tre manuali per l’insegnamento della lingua italiana in Tunisia (1995-1997). Autore di una Bibliografia italiana sulla Tunisia (ed.Finzi), ha curato per la collana “I Classici” i volumi: G. Verga, Vita dei campi; L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina. Dalla metà degli anni ’80 è impegnato in una costante attività di traduzione in arabo di opere e autori italiani: I. Calvino, G. Bonaviri, N. Ammaniti, U. Eco. Ha curato ultimamente l’Antologia di Poeti Tunisini tradotti in italiano.

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