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Dalla neve al sorbetto: un itinerario inedito

copertina-defdi Rosario Lentini

Gli studi etno-antropologici, di storia dell’agricoltura e dell’economia siciliana, dal secondo dopoguerra in avanti, hanno dato vita a una mole considerevole di monografie e saggi soprattutto sulla centralità plurisecolare del grano, della vite, del vino e dell’olio, trattati sotto diversi profili: colturali, tecnico-lavorativi, produttivi, commerciali, folklorici, simbolici, religiosi, ecc. Sugli agrumi, sulle varietà botaniche e sulle innovazioni introdotte nello sfruttamento razionale delle acque irrigue, introdotte nell’Isola durante la dominazione araba, vi è abbondante letteratura; ma dell’elemento acqua ci si è occupati principalmente per ricordarne l’utilizzo “energetico” – per es. come forza motrice degli apparati meccanici degli innumerevoli mulini sparsi nelle campagne dell’entroterra – o per gli usi industriali nelle cartiere, nelle concerie, nella lavorazione delle piante tessili ecc. Pochissime, invece, le indagini approfondite e di vasto respiro sull’acqua allo stato “solido”, cioè sulla neve e sul ghiaccio e sugli usi relativi.

Potrebbe, perciò, sembrare una forzatura dell’Autore l’abbinamento dei termini impresa e neve che contrassegnano il titolo del libro di Luigi Lombardo, L’impresa della neve in Sicilia tra lusso e consumo di massa (Le fate edizioni, 2018). Se, infatti, è ancora vivo il ricordo delle fabbriche di ghiaccio novecentesche e della primordiale catena del freddo che si cominciava a garantire all’industria alimentare, nonché dei piccoli blocchi che si collocavano nelle ghiacciaie domestiche in legno, stagnate internamente, si stenta, invece, con riferimento ai secoli passati, a immaginare la neve come oggetto di attività d’impresa organizzata e redditizia.

In verità questa sorta di perplessità contemporanea nei confronti della dimensione lavorativa e imprenditoriale pre-industriale scaturisce dalla convinzione del tutto erronea che lo sviluppo sociale e la modernità abbiano avuto origine con la nascita delle fabbriche e delle industrie e che prima di esse l’Isola fosse abitata da sventurati impossibilitati a emanciparsi in assenza di prodotti seriali e standardizzati; e che la civiltà, quella vera, sarebbe iniziata con la rivoluzione industriale inglese dal Settecento in poi.

Si fa finalmente strada il convincimento che non sia stato così e non perché lo sviluppo tecnologico non abbia davvero trasformato in profondità le condizioni di vita degli esseri umani e la capacità di sfruttamento delle risorse del pianeta, ma perché tutta la storia della cultura materiale millenaria espressa in Sicilia testimonia della ricchezza e della creatività produttiva dei suoi abitanti nei diversi settori. In agricoltura, nella pesca, nell’artigianato e, più in generale, nel rapporto con l’ambiente e il territorio antropizzato, si rimane ancora oggi ammirati per la bellezza delle architetture rurali funzionali al mondo della produzione: masserie, bagli, mulini (ad acqua e a vento), trappeti, marfaraggi di tonnare. Non c’è stata diffusa cultura d’impresa riconducibile ai modelli più affermati nell’Italia continentale, ma sarebbe metodologicamente discutibile applicare a tutte le realtà del Paese un prototipo di sviluppo industriale e di progresso economico e civile omologante, rispetto al quale gli scostamenti non meriterebbero la dovuta attenzione o verrebbero considerati forme residuali del passato.

-Buccheri-neviera-sotto-la-neve.

Buccheri, neviera sotto la neve

Pur se a macchia di leopardo, quindi, l’evidenza nell’economia siciliana di un sostenuto capitalismo agrario in età moderna, di una presenza imprenditoriale e di un ceto di finanziatori di attività pre-industriali è innegabile; ciò ha permesso all’Isola di progredire, di inserirsi nei traffici internazionali, di soddisfare una domanda estera di produzioni agricole e di risorse naturali. Lo dimostra – per non citare sempre il pilastro della cerealicoltura – la storia dello zucchero siciliano ottenuto con successo nei trappeti dal Quattrocento al Seicento, la storia delle tonnare, delle saline, del vino, dell’olio, della manna, del sommacco, delle ceneri di soda, dello zolfo, che hanno rappresentato punti di forza dell’economia pre-industriale. E alcune di queste produzioni hanno resistito e continuato a essere redditizie e apprezzate anche nel Novecento e fino ai giorni nostri.

Nel novero di queste attività rientrava pienamente quella oggetto del libro di Luigi Lombardo nelle cui prime pagine si delinea la storia della raccolta, della conservazione e commercializzazione della neve sin dall’antichità, almeno da 4.000 anni – come testimoniano le prime “case del ghiaccio” mesopotamiche (tra Siria e Iraq) – e fino agli inizi del secolo scorso. Nelle pagine successive si sviluppa e circoscrive l’ambito dell’indagine all’area della Sicilia orientale e principalmente al territorio siracusano ed etneo, per un arco temporale che procede dalla seconda metà del XVI ai primi del XX secolo; i riferimenti agli studi di altri autori sulle analoghe imprese della Sicilia occidentale valgono a offrire un quadro unitario e di sintesi. La parte propriamente inedita, oltre che ricchissima di dati e informazioni, è quindi quella relativa all’area iblea e dell’Etna, dove si realizzarono le più importanti neviere del sud Europa, non solo dell’Isola.

Luigi Lombardo, antropologo e storico, già direttore della biblioteca comunale di Buccheri nonché docente presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Catania, da decenni studia in profondità e con rigore metodologico la società, le tradizioni e la cultura materiale del territorio ibleo, alternando ricerche archivistiche laboriose, lunghe e complesse, alle indagini sul campo e ai sopralluoghi, con interviste ai protagonisti superstiti di un mondo che è andato scomparendo. Ha pubblicato numerosi saggi originali sulle tradizioni popolari e sulla storia delle culture alimentari mediterranee e, in ultimo, un saggio dal titolo Catastrofi e storie di popolo. Ha organizzato e curato mostre etnografiche ed è stato uno dei cofondatori della Casa Museo di Palazzolo Acreide dopo la morte di Antonino Uccello.

 Buccheri, neviera a cupola.

Buccheri, neviera a cupola

Il volume in esame, impreziosito da una bella prefazione di Giuseppe Barone, corredato da un ricco apparato di immagini infratesto e da una sezione iconografica e fotografica, è collegabile a un sito web specifico mediante il codice a barre (QR quick response) impresso a chiusura della pagina delle “Avvertenze”, utilizzando una semplice applicazione gratuita da scaricare nei dispositivi digitali o nel PC. In questo sito, l’Autore ha messo a disposizione dei lettori la trascrizione integrale di ben 246 documenti di archivio che coprono il periodo 1588-1906. In buona sostanza, è come se il libro di 310 pagine di testo fosse in realtà di oltre 500. Questa corposa appendice documentaria non è utile solo per gli specialisti e per gli storici ma anche per i docenti degli istituti superiori che non sempre sono nelle condizioni di guidare gli studenti negli archivi di città per illustrare “le fonti” della storia locale. Il libro si rivela, perciò, di grande ausilio come strumento didattico se affiancato al manuale di dotazione, per entrare nel vivo della microstoria attraverso i documenti trascritti.

Nel testo si affrontano tutti gli aspetti dell’attività di impresa: la dislocazione delle neviere, le tecniche di conservazione e lavorazione; la rete di relazioni formali e contrattuali tra proprietari (pubblici e privati), fornitori appaltatori, lavoranti, bordonari, amministratori dei comuni, rivenditori; in sostanza un microcosmo di soggetti in connessione per garantire il consumo e l’uso del “prodotto” nei posti più lontani e persino fuori dall’Isola, a Malta. Un viaggio nella storia della neve – elemento e alimento – come precisa l’Autore, tra lusso, piacere, economia.

Ed è proprio da questa notazione lapidaria e sintetica che si potrebbe procedere, considerando i due contrapposti bisogni primordiali che hanno conferito alla neve un forte potere attrattivo: il soddisfacimento del piacere, riservato inizialmente a una minoranza di privilegiati e ben presto divenuto consumo di massa, ma anche il bisogno di lenire la sofferenza come avrebbe sperimentato con successo il medico regalbutese Giovanni Filippo Ingrassia con l’applicazione di impacchi freddi agli appestati durante l’epidemia del 1575-76. Successivamente avrebbe avuto largo impiego come decongestionante, antiemetico, antiemorragico, nei casi di contusione e di febbri alte oltre che negli interventi chirurgici. La neve infine come alimento, come il pane e il vino; per raffreddare l’acqua da bere o le bevande dolcificate «o semplicemente arrifriscati, annivati, come dicevano i siciliani».

Nel capitolo dedicato ai luoghi della neve Lombardo illustra dettagliatamente le aree di raccolta e di conservazione, dalla seconda metà del Cinquecento in poi, da monte Inici a sud di Castellammare del Golfo ai rilievi madoniti e peloritani, all’Etna e all’altopiano Ibleo. La neve delle Madonie soddisfaceva non solo i consumi della capitale e del suo hinterland ma anche delle province di Trapani e di Caltanissetta. Tuttavia «l’Etna coi suoi tremila e passa metri di altezza era la neviera per eccellenza della Sicilia», disseminato di grotte naturali, che venivano adattate dall’uomo, provvedendo a scavare una scala di ingresso e una bocca di immissione nella volta, rafforzata da un pilastro in muratura. Ben si prestavano alla conservazione dell’elemento naturale, come nel caso della Grotta dei Ladri raffigurata in due incisioni di Jean Houel pubblicate nel 1784.

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Bordonari sull’Etna trasportano la neve (da Houel)

Ci si avvaleva anche delle fosse sottosuolo opera dell’uomo, scavate in superficie nell’arena lavica o delle tacche che erano delle rientranze naturali soprasuolo, create dal vulcano nel corso delle molteplici eruzioni, all’interno delle quali la neve si depositava sospinta dal vento; in questo caso i nivaroli si limitavano a ricoprirle di fronde e di terra. A Buccheri, in territorio siracusano, inizialmente le neviere venivano scavate nella roccia lavica, ma già dai primi del Seicento si cominciarono a costruire a cupola e muratura interna e, successivamente, a volta di conci con due o tre bocche di immissione. Al di là della tipologia, un elemento le accomunava: «il fondamentale canale di scolo delle acque sciolte, che drenava la neviera e impediva il dilavamento della neve».

La ricostruzione delle diverse fasi di lavoro che solo in parte poteva essere desunta dalla documentazione archivistica, è ben spiegata nel volume, grazie alle interviste effettuate negli anni ottanta agli ultimi nivaroli in vita. I lavoranti, «come fossero mietitori» si distribuivano sul manto nevoso per avviare la raccolta; nel terreno in pendìo si formava una palla e la si faceva rotolare fino all’esterno della neviera raggiunta la quale veniva caricata in spalla per essere immessa nella bocca. «Se il terreno era pianeggiante, si formavano dei mucchi di neve a distanza regolare, mentre altri uomini a due a due li prelevavano, per mezzo di una rudimentale barella» fabbricata con fibre di ampelodesma. Simultaneamente all’immissione nella neviera, altri lavoranti, i pisaturi (battitori, calpestatori), iniziavano a battere con i piedi la neve per compattarla fino a formare un primo strato che veniva coperto con paglia e così di seguito, strato su strato, un suolu sopra l’altro dello spessore di 20-30 centimetri ciascuno, fino a colmare la neviera. Ai fini della vendita, i carichi (ogni carico consisteva di due “balle” di 50-60 Kg ciascuno) si misuravano «a bocca di niviera, cioè appena uscita dalla porta e pesata sul posto».

Ed è proprio la parte dedicata al commercio della neve che Lombardo affronta e tratta con notevole maestria e con ricchezza di informazioni. A inizio Seicento, il barone Morra, feudatario dello stato di Buccheri, imponeva agli abitanti, fra l’altro, l’obbligo di riempire annualmente le neviere di sua proprietà. Allorché si appalesò il rischio di dover competere con un altro proprietario concorrente, don Gaspare Lanteri, capitano dell’armata di Sicilia, il feudatario fece annunciare con il banditore il suo diritto ad avere la precedenza nella raccolta della neve: «Tuttavia assai presto i privati borghesi presero a costruire nuove neviere col consenso del barone», previo versamento della relativa tassa.«Nella generosa concessione il barone aveva uno scopo: associare questi liberi imprenditori alla propria impresa, per far concorrenza alla neve dell’Etna». Ma le pretese e la protervia del feudatario avrebbero portato anche ad uno scontro frontale con l’amministrazione civica, sindaco in testa, a causa dell’applicazione di un’ulteriore tassa baronale su tutte le esportazioni dal territorio di Buccheri, neve inclusa. Ovviamente in una fase di crescita esponenziale del commercio della neve, questo diritto doganale rappresentava un introito significativo per le casse del Morra e il conflitto tra i giurati della città e il feudatario raggiunse il suo culmine con l’omicidio del sindaco.

 Buccheri, neviera a cupola.

Monterosso Almo, neviera a cupola

Dai primi del Settecento gli Alliata di Villafranca, già proprietari di numerose neviere della Sicilia occidentale, subentrarono ai Morra e svilupparono ulteriormente i loro affari prendendo anche in gabella alcune neviere di Palazzolo. Meritevole di approfondimento la figura di donna Marianna Di Giovanni sposa e poi vedova del principe Giuseppe Alliata che si distinse come vera e propria imprenditrice ante litteram, dallo spiccato senso degli affari.

Un altro aspetto singolare – ma non inconsueto – della gestione commerciale si rileva nelle pagine dedicate all’università (città) di Palazzolo, nel quale numerosi ecclesiastici, la cui vocazione religiosa risultava assai fragile, si inserivano nella filiera delle operazioni, tanto da suscitare l’indignazione del vescovo di Siracusa: «i sacerdoti dimentichi della dignità del sacro loro carattere arrivano ad avvilirsi col fare i soprastanti e i pagatori della mercede della povera gente che ivi concorre a raccogliere la neve».

La grande disponibilità di «materia prima» e l’inarrestabile crescita della domanda spingevano i proprietari a ristrutturare o a costruire nuove neviere e ad associarsi, «come nel 1747, quando si costituisce un “cartello” fra ecclesiastici e laici per gestire il commercio». La capillare rete distributiva che veniva assicurata utilizzando un nutrito numero di bordonari copriva i comuni siciliani anche più lontani dalle neviere e persino l’isola di Malta per il cui rifornimento si conseguivano i maggiori profitti. Le neviere di Buccheri e di Catania si contendevano il mercato dei Cavalieri e i rapporti con il Gran Maestro: «Era un affare senza precedenti e per tutto il secolo XVII e i successivi secoli XVIII e XIX, la Mensa Vescovile di Catania ne fu quasi monopolista». Dal Settecento, ai gabelloti della Mensa si affiancarono nella contesa degli appalti non solo gli Alliata ma soprattutto il commerciante don Diego Pappalardo che si impose presto come il maggiore fornitore delle città di Siracusa, Augusta e Lentini, grazie alla più efficiente gestione del trasporto della neve garantita da esperti mulattieri.

Buscemi-cupola-della-neviera-di-Monte-Vignitti

Buscemi, interno della cupola della neviera di Monte Vignitti

La proprietà della stragrande maggioranza delle neviere rimase comunque saldamente nelle mani non solo del vescovo di Catania ma delle potenti famiglie Moncada (principi di Paternò) e Alliata (principi di Villafranca e Buccheri). Il vescovo catanese per antica concessione ruggeriana (1091) vantava la proprietà feudale su un vastissimo territorio comprendente la città. Le rendite derivanti dalla gestione di tutte le risorse naturali e i diritti rivendicati su prodotti agricoli, dogana, erbaggi, ortaggi, pascoli, boschi, acque, mulini e neve, fruttavano 1440 onze l’anno nel 1743 e di questo totale il 73% proveniva proprio dalla gabella della neve. Il vescovo deteneva l’esclusività della raccolta e della commercializzazione e i cittadini potevano provvedersene, ma solo per uso personale. Naturalmente questa condizione di monopolio non poteva reggere a lungo soprattutto perché le compagnie di privati commercianti si andavano rafforzando. Tuttavia il vescovo era riuscito sin dal 1638, con apposita transazione con il senato della città, a stabilire una condizione di reciproca convenienza per cui «il prezzo della vendita in bottega rimaneva bloccato a grani 4 per rotolo […]. Di questi quattro grani, due andavano alla città di Catania e due alla Mensa. Tale prezzo costituiva la base d’asta ed era soggetto ad eventuale aumento da parte dei gabelloti partitari, cioè quelli che si assumevano l’onere della vendita in città».

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Sorbettiera e stufa

Al di là degli aspetti e delle problematiche economico-commerciali, il volume non trascura neppure il tema delle origini delle sorbetterie e, secondo l’Autore, appare quanto mai ragionevole e fondato rivendicare il primato siciliano nell’arte della gelateria, quanto meno per il sol fatto di disporre in abbondanza, più che in qualunque altra regione mediterranea, di tutti gli elementi fondamentali: succhi, paste di frutta, zucchero, neve, sale marino, salnitro. Lo rivelano anche gli inventari notarili da quali si evince quanto fosse già diffuso l’uso della cantimplora, di vetro o di stagno, dal nome di un antico recipiente domestico che nell’antichità si utilizzava per rinfrescare vini o altri liquidi. A Palermo, come a Siracusa i rifriscaturi fanno la loro comparsa a metà del Cinquecento. Tra la fine del Seicento e i primi del secolo successivo si compie il salto in avanti con la bozza o buzzuni fornito di tinello che rappresentava già lo strumento idoneo alla preparazione dei sorbetti per il consumo popolare, anteprima della sorbetteria vera e propria. Naturalmente Lombardo si sofferma anche sulla figura del palermitano Francesco Procopio Cutò che nel 1686 avvia il celebre “Café Procope” portando alla conoscenza dei parigini la nuova invenzione del sorbetto.

«Nel ‘700 – scrive Lombardo – la Sicilia è la “mamma” del sorbetto e del gelato in particolare. Il re Amedeo di Savoia nel 1720 scrive sprezzantemente che il parlamento siciliano era di “gelati e di sorbetti”, intendendo riferirsi alla “barbara” usanza dei deputati siciliani di sorbire gelati durante le sedute». Chissà che avrebbe pensato se avesse assistito alle sedute di qualche secolo dopo.

In chiusura va riconosciuto all’Autore il merito di aver saputo bilanciare strumenti e metodologie propri dell’antropologo e dello storico con grande padronanza e rigore, portando a compimento uno studio pregevole, frutto di anni di ricerche, che colma una delle ancora tante lacune gravi nella conoscenza della storia del territorio e dell’economia siciliana.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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 Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Il suo ultimo studio edito da Torri del Vento è dedicato alla Storia della fillossera nella Sicilia dell’800.
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