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Con Virgilio Titone e Jorge Luis Borges per le strade di Mazara

Telamone dell'ingresso al Collegio dei gesuiti.

Telamone dell’ingresso al Collegio dei gesuiti.

 di Nino Giaramidaro

Spuntava in planata sulle balate di via XX settembre. La curva larga lo sospingeva sul deserto della piazza Plebiscito, nel silenzio solcato da due alberelli, testimoni di solitudine, che separavano il pizzo di sant’Egidio e la interminabile facciata dell’ex Collegio dei Gesuiti, col portone vecchio e spitturato, vigilato da grandi telamoni. Uno di essi, col volto sofferto e mangiaticcio dal salso era Assalonne, impigliato dai bei capelli biondi e mortali nella pietra dalla quale continua ancora a tentare di liberarsi.

Il professore Pellegrino, proprietario dei teoremi e del mistero delle rette parallele, virava davanti alla chiesa di sant’Ignazio – col tondo più alto vuoto e attraversato da un ramo spurio che finiva in una forca – e lì abbassava un poco il braccio destro che lo aveva soccorso durante l’aerea manovra. Davanti ai telamoni strambava deciso e sollevandosi come preso da una ieratica calamita, si faceva inghiottire dal portone semichiuso della scuola media statale. Una testimonianza come questa la possono elargire coloro i quali, dopo avere attraversato la via Porta Palermo, lasciandosi a destra il chiasso bagnato della piazza Chinea e smaltita tra il languente odore di etere la via Ospedale, si affidavano alla discesa di via Santa Teresa per prendere quell’abbrivio decisivo nella quotidiana scommessa con l’orologio della preside La Marca.

 Sant'Ignazio, interno (foto Giaramidaro)

Sant’Ignazio, interno (foto Giaramidaro)

Pensavo a questa mia estrema giovinezza girando in tondo dentro la chiesa gesuita per aspettare la presentazione di un libro sul mare. Colonne teologiche ancora dritte, rovine di tufi una volta consacrati, cielo di un celeste buono, passaggio per il Collegio diventato segreto, affreschi cancellati, angioletti orribilmente mutili, colori estinti dal tempo mondano. E il silenzio templare che resisteva nonostante il vocio risucchiato nell’alto, dove vanno a finire tutte le parole dette. Un ovale forse monito della rotazione e rivoluzione, la nostra condanna alla lunga illusione del tempo, indifferente anche alla segreta fatica degli orologi. Rimane, lì dentro, lieve e intensa, una liturgia di bellezza che si rivela improvvisa e pungente per poi riassopirsi in quel corpo senza agonia da quasi cent’anni.

Sulle concave pareti addentate dalle piccozze, negli ovali degli affreschi caduti, il lieve mutare delle ombre e dei riverberi sembra suscitare l’alternarsi di figure antiche. Fantasmi concitati e fugaci di vite dimenticate e avvenimenti senza più memoria. Forse Virgilio Titone, lo storico e scrittore di Castelvetrano, fu sedotto dalle visioni dentro questa chiesa prima di scrivere della sua “storia circolare” con le “espansioni” e le “contrazioni”. Nel 1920 il futuro storico era studente di ginnasio nell’ex Collegio dei Gesuiti, e il passaggio dal monastero alla chiesa non era ancora ostruito. Titone evoca la Mazara di quasi un secolo fa nel suo libro di racconti Storie della vecchia Sicilia (Arnoldo Mondadori Editore 1971). Per licenza narrativa – o per memoria debole – scrive che il collegio «occupava quasi tutto un lato della piazza Mokarta, una delle più belle, ma anche, per i vecchi abbandonati edifici che d’ogni lato la circondano e il colore delle loro pietre, delle più malinconiche piazze che mi sia accaduto di vedere». È la descrizione dell’allora Piano del Collegio, già di sant’Egidio e oggi piazza del Plebiscito, dove resiste il complesso dei Gesuiti, con la chiesa di sant’Ignazio di fronte al Satiro custodito sotto le cupole di sant’Egidio. Tutto sotto vigilanza rotonda e marmorea di Ignazio di Loyola, lo sguardo socchiuso verso la luce e l’aureola arrugginita, che indica il libro delle leggi.

Il busto di S.Ignazio sull'omonima Chiesa.

Il busto di S. Ignazio sull’omonima Chiesa (foto Giaramidaro)

Il giovane studente abitava in casa di una compaesana, donna Ciccina Forte. Nel «quartiere antico, un intrico di viuzze e cortili, rimasti quasi intatti dal tempo della città araba». Quasi al centro, cioè nei dintorni dell’antico serraglio, il fondaco dove si fermava la gente di mare appena sbarcata, dopo aver salito la “scala del serraglio” gremita di poveri, invalidi, malati che speravano nel buon incontro. Pagine che fra nomi e luoghi, mi fanno ripescare ricordi postumi all’autore di una trentina d’anni. La piazza Immacolata, meglio nota come il Purgatorio, con la chiesa di santa Lucia e sul frontone un’anima e corpo tra le fiamme purgatorie ma, soprattutto, con la camera mortuaria dell’ospedale che, nei giorni di lutto povero, accendeva l’irresistibile curiosità di adolescenti mai stati a tu per tu con la morte.

Nella via Giacomo Sciacca che conduceva alla “scala dei poverelli” e alla chiesa di san Nicola, c’erano i falegnami Bertuglia, omonimi della seconda affittacamere di Titone e dei titolari di una taverna con cucina all’angolo dove la via Marina si allarga in uno spazio di rispetto alle absidi di san Nicolò regale. Forse gli stessi Bertuglia che affittavano a Titone la camera con finestra sul mare, luogo di ascolto delle dicerie marinare, suggestioni e pensieri dell’aspirante liceale. Via Marina, una strada balatata e sempre bagnata dall’acqua di rianimazione sopra le fosforescenti attarine, sgombri, sarde e sardone, spicari e lappani, ritunni, gronghi e murene infidi con il loro aggrovigliarsi serpentesco, sanguinanti pezzi di cufuruna, alias tartaruga, allora stimolo alla voracità ittica, e le peccatrici romboidi, i cagnulicchi scuoiati, mazzame per la ghiotta, le letterarie ope (vopi) e qualche pesce di serie A.

Via Marina, a dx: S.Nicolò Reale

Via Marina, a dx: S. Nicolò Reale (foto Giaramidaro)

C’erano le bancarelle dei pescivendoli dirimpetto a san Nicolicchia, poco prima che la strada si incurvasse per sfociare sul molo Caito, presidiata all’angolo dall’antro nero del Burgio del carbone, mentre andando dritto, sulla via sant’Antonio, il Burgio delle patate vigilava, dentro un superportone, una montagna di tuberi che lambiva il tetto. Anch’io, credo, sono entrato nel tempo circolare di Jorge Luis Borges: «ripeto ciò che ho fatto innumerevoli/ volte nell’assegnato mio cammino./ Io non posso eseguire un gesto nuovo/ tesso e ritesso la scontata favola»; «Ricordo i gelsomini e la cisterna, cose della nostalgia. / Ricordo i lampioni a gas e l’uomo con la pertica / Ricordo il bastone animato. / Ricordo ciò che vidi e ciò che mi narrarono i genitori. / Ricordo la Drogheria della Figura in via Tucumàn». Sì, Pippineddu con la scala a spalla, carico di lampadine, piccolo e leggero sul suo itinerario di lampioni accecati. Don Peppino La Verde, ironico e alacre che rimetteva a nuovo scarpe e scarpette mortificate. Il magazzino di Miliuni, in via del Turco, quadrato, un po’ rettangolare – la memoria non ha simpatia per la geometria e gli altri canoni del reale – le pareti assediate da bianchi scatoli di scarpe, fra i quali c’era pure quello delle mie polacchette che mi facevano dolere i talloni per giorni e giorni. Gli alterchi insanabili nel salone di Pino Giammarinaro fra coppiani e bartaliani. Ricordo Francolino all’ala, Ballarin terzino sinistro e quel portiere scassato di Barracchedda. Don Carlo Adamo, in via Garibaldi: cinque Nazionali, una Esportazione e due mentine che facevano cinquanta lire esatte. La vecchietta alla cassa nel grande bar pasticceria “Pastizzuni”, e le folate alla vaniglia che si sprigionavano nella via Carlo Agostino, sede dei grandi artefici dolciari. L’attonito silenzio stradale alla notizia della morte estera di Vittorio Emanuele III. Lu zu Cicciu Scoccirifora con la sua sfosella ambulante di pesce povero. E Morrione, con la fiddeccula che debordava dal carniere, asciutto e dritto nel suo orgoglio per la mira, che tornava a sole alto dai Gorghi Tondi o dal Preola, dove un giorno è scomparso.

Nell’effimero disegnarsi di figure sugli antichi muri della chiesa, come gli atomi turbinanti di Democrito che si congiungevano e disgregavano senza principio né fine, sembra di identificare facce, corporature, gesti già visti nella realtà passata che ora il ricordo deforma, slarga e restringe. Suggestioni provvisorie a cavallo della fantasia che il reclinare breve del capo cancella, come tutte le cose che si scrivono in cielo. A ritroso sull’itinerario scolastico. Nella via Santa Teresa, salendo dal Collegio e prima di giungere alla chiesa, c’è un vicolo senza nome. Vi abitava la maestra Di Marco che insegnò a leggere, scrivere e far di conto a una ventina di generazioni. Aveva la bacchetta nella mano grassottella e rapida. E veloce e vibrante si abbatteva sulla mano con la quale scrivevo: quella del peccato, del diavolo. Mio padre la chiamava ancora manu scherda, la izquierda, sinistra degli spagnoli. Imparai a scrivere con la destra, sin quasi alla bella grafia nell’apposito quaderno. A lei si dovrebbe regalare quel vicolo; un risarcimento doveroso alle bacchettate didattiche e all’impegno materno che metteva nel consegnare alla terza classe bambini che avevano imparato e la lasciavano con lacrimato rimpianto.

Via Pilazza (foto Giaramidaro)

Via Pilazza (foto Giaramidaro)

La Pilazza, una casbah colorata che sprigionava vapori di pentole con odore di pesce, pareti rosa, verdi, rosso greco, e gettava in quei vicoli a misura d’uomo pescatori antichissimi, con i volti  bulinati da rughe di profonda salsedine, che ancora, come per vizio in quei loro giorni consacrati all’inutile, cercavano nel vicolo del Vento di trovare la direzione dello spirare. A piedi scalzi e con i pantaloni di ‘ntoccu arrotolati sino al polpaccio, coloro i quali avevano ancora in corso la ‘nciuria combattevano con reti tormentate da squarci, remi e scalmi che non ne potevano più, nasse con giunchi esausti, conzi con il sughero straziato dagli ami, rizzagghi variopinti dall’avugghia sottile. I bambini giocavano seminudi e martoriati dalle mosche, i capelli rapati oppure all’umberta contro l’impidocchiamento, e le madri che vociavano i loro nomi ad intervalli per sentirne svogliate risposte. Ragazzine saltellanti su un piede solo dentro invisibili disegni nella polvere, ragazzini accapigliati, all’impiedi o per terra, sollevando trombe di polveraccio, urlanti e leggeri nel loro esperto rincorrersi incurante del tempo, dei passanti e dei richiami materni.

Da via Bambino o da via della Barca, entrare nel quartiere era come varcare una frontiera: il confine della puzza sotto al naso, della povertà nemmeno da guardare. Ora nella Pilazza si offrono quadrivani e trivani fra porte e finestre di azzurro maghrebino, e gli studiosi sostengono vi si parlino almeno 25 lingue, dal cinese, all’ucraino, dal serbo al romeno. Al senegalese e, soprattutto, quella dell’«Islam che fu di spade/ che desolarono il ponente e l’aurora/ …e la distruzione degli idoli/  e la conversione  di tutte le cose/ in un terribile Dio che sta solo/… nella delicata penombra della cecità/ è un concavo silenzio di cortili/ un ozio del gelsomino…» (Borges). Nel mio ricordo c’è un linguaggio di francese e spagnolo mischiato alle sopravvivenze di una lingua antica e stanca, con accenti brevi e lunghissimi, in una cantata scandita dalla metrica marinara. L’olio si comprava, portando la bottiglietta, a unzi, la pasta, incartata, a rotoli, si misurava a canne e le persone di statura stentata venivano dette mezzacanna. Per dirla con Borges, sono nato in un’altra città che pure si chiamava Mazara.

Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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