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Decostruire memorie e verità attraverso le immagini. Il caso Giuliani

copertinadi Eugenio Giorgianni

La commemorazione è un’attività comune a tutte le istituzioni, a qualunque livello. Le autorità politiche, i mezzi di comunicazione, gli enti locali, gli istituti culturali, le chiese, la famiglia, puntellano il proprio calendario con date dedicate al ricordo di eventi o personaggi fondativi per la comunità, di qualsiasi dimensione essa sia: dall’anniversario del primo bacio per una coppia di fidanzati, alla celebrazione del Natale per miliardi di esseri umani in ogni nazione del globo, la discretizzazione del tempo pubblico attraverso date salienti – e la celebrazione di tali momenti – è alla base del processo di creazione e di costante rinegoziazione della memoria collettiva.

Le commemorazioni, soprattutto quelle laiche, tendono a proporsi come momenti inoppugnabili, che rievocano emozioni e sanciscono valori da tutti condivisi, al di là delle opinioni personali. La tragedia dell’Olocausto, la Liberazione dal fascismo e la nascita della Repubblica Italiana, il progresso tecnologico prodotto dalla Scoperta dell’America: le iniziali maiuscole segnano l’importanza capitale di tali questioni nell’orizzonte sociale, e la pretesa di una partecipazione compatta, di un’adesione univoca a tali celebrazioni da parte dell’opinione pubblica. Le date designate alla commemorazione divengono occasione di approfondimento, riflessione, commozione; non c’è spazio per i dubbi e per il politicamente scorretto, ogni dissenso va taciuto mentre la comunità rivive il dramma della sua genesi per esultare della propria rinascita. Quale intellettuale della sinistra italiana, in occasione del Giorno della Memoria, si sognerebbe di tirar fuori la questione palestinese o porre l’accento sul genocidio di Rom e Sinti? E chi, per la Festa della Repubblica, oserebbe rivangare pubblicamente i brogli del referendum del 2-3 giugno 1946, o sminuire il peso storico della Resistenza partigiana a fronte dell’avanzata delle truppe alleate? Sarebbero posizioni indifendibili, che attirerebbero il biasimo di tutti gli schieramenti; chi si esponesse in tal senso, verrebbe senza dubbio emarginato. Sarebbe come organizzare una partita di calcetto la sera dell’anniversario di fidanzamento.

Ma proprio nell’ostentazione della dimensione pubblica, la commemorazione mostra la sua debolezza, la sua ansia di essere costantemente ribadita, quasi che l’attenzione della gente dovesse naturalmente dirigersi altrove, se non venisse rintuzzata. Da qui il fastidio che alcuni – io tra questi – provano per la celebrazione delle ricorrenze, sia pubbliche che private: il motivo del ricordo è sempre il pretesto per provocare una reazione emotiva, più intensa possibile. L’obiettivo è creare audience, consolidare sentimenti deboli; le modalità della celebrazione altro non sono che strategie pubblicitarie. Si tratti di piangere un caro defunto o celebrare la Festa del Lavoro a Portella della Ginestra, i comportamenti degli attori saranno mirati allo stesso scopo: la costruzione del consenso. Il discorso commemorativo, al pari della letteratura scolastica, viene percepito come produzione letteraria minore sebbene possieda una straordinaria rilevanza nella dialettica culturale. Decostruire il conformismo e la pretesa neutralità di tale discorso significa interrogarsi su come viene raccontata la storia mentre la viviamo, e su chi è preposto a raccontarla.

Se le commemorazioni sono spettacoli del dramma sociale, e come tali comprendono le tensioni e i conflitti che generano lo status quo e che ne preparano il cambiamento, la dimensione mediatica è il piano fondamentale dell’elaborazione delle ricorrenze, che invariabilmente si configurano come esibizioni rivolte a un pubblico. Nel 1624, le istituzioni palermitane, in processione, chiesero a Santa Rosalia di liberare la città dalla peste, venendo – a loro dire – esaudite in pochi giorni. L’invenzione della santuzza, delle sue ossa e della sua provenienza da una nobile famiglia normanna, presenta numerose somiglianze con l’apparato mediatico del fistinu, che da 391 anni commemora la gloriosa processione e il miracolo che ne seguì, trasformando un culto popolare e periferico in momento civico spettacolarizzato (Petrarca, 1988). Somiglianze apparentemente trascurabili – “ricorrenze nascoste” le definirebbe Caillois (1986) –, che possono gettare luce sulla morfologia del potere che le produce e le celebra a cadenza periodica.

Sono i mezzi di comunicazione di massa, oggi, a sancire quali eventi e personaggi siano da commemorare, e a decretare gli spazi e i tempi dell’informazione della memoria. Nel caso della diffusione via internet, tuttavia, si aprono notevoli margini di autonomia: i social media, per esempio, permettono agli utenti di conquistare uno spazio pubblico alla propria memoria, e di propagarla attraverso la rete dei contatti. La narrazione storica si pluralizza.

Una conseguenza è di certo l’inarrestabile moltiplicazione dei dati in circolazione, che intasano la nostra capacità di elaborazione critica e riducono drasticamente la soglia dell’attenzione, limitando l’interazione con i messaggi a pochi secondi e un paio di clic nell’interminabile flusso delle notizie. Ma senza voler entrare nel dibattito sui limiti dell’ultrademocrazia della rete, va detto che i social sono attraversati anche dai discorsi altri, dalle voci che non hanno sbocco sui canali televisivi e sulle prime pagine dei giornali, e che invece affiorano tra le immagini postate per San Valentino, i jingle di Natale, gli auguri di compleanno e il compianto dei cari (e/o cani) defunti, attivando – almeno tra gli amici – connessioni che la memoria selettiva pubblica aveva cortocircuitato. Anche questi discorsi si avvalgono delle proprie commemorazioni: sebbene le modalità siano le stesse di quelle ufficiali, i ricordi che vengono a galla sono altri, propongono valori alternativi, antagonisti.

Il conflitto delle versioni e delle compilazioni si fa più vivo per le commemorazioni minoritarie, che godono di un’adesione meno forte, e che sono di conseguenza meno protette dalla censura del dissenso: il dibattito, in questi casi, procede quasi sempre in polemica. L’osservazione dei processi cibernetici delle memorie altre permette di problematizzare la storiografia in fieri, inceppando la macchina del silenzio e dell’oblio programmato, ponendo domande che il corpo sociale non aveva previsto e che cercava di eludere.

 G8, Genova, 2001

G8, Genova, 2001

Niente da archiviare

Lo scorso 20 luglio cadeva il quattordicesimo anniversario della morte di Carlo Giuliani, centrato da una pallottola sparata da una camionetta dei carabinieri durante le manifestazioni in occasione del vertice G8 a Genova nel 2001. Non c’è stata alcuna celebrazione ufficiale, a parte la consueta commemorazione in Piazza Alimonda, organizzata dal Comitato “Piazza Carlo Giuliani”, nella quale genitori di Carlo, a pochi metri dal luogo dove il figlio è stato ucciso, hanno continuato ad attaccare la giustizia italiana che rifiuta di produrre verità, protestando per l’archiviazione in fretta e furia di uno dei casi più controversi della storia della Repubblica. C’era anche qualcun altro alle prese con il ricordo di Carlo: il Coisp, sindacato indipendente di polizia, impegnato a raccogliere firme per la rimozione della lapide commemorativa, posta dal Comune di Genova in Piazza Alimonda, con l’epigrafe “Carlo Giuliani, ragazzo” – la stessa scritta che i manifestanti hanno graffitato sul segnale della piazza poche ore dopo gli spari. Nel comunicato stampa che accompagna la raccolta firme si legge:

Noi riteniamo che Carlo GIULIANI, con tutto il rispetto che si deve ad una giovane vita spezzata, non debba essere commemorato con tutti gli onori, quasi fosse un martire, tanto meno riteniamo possa essere considerato un esempio da imitare per le giovani generazioni [1].

Firma la petizione anche Giuseppe Placanica, padre del carabiniere che ha sparato. Si dichiara abbandonato dalle istituzioni, con il dolore di un figlio che sopravvive distrutto, allontanato dall’Arma sebbene abbia fatto il suo dovere, oppresso dal peso di aver ucciso un suo coetaneo [2]. Ironia della sorte amara. Uccisore e ucciso attaccano entrambi l’indifferenza delle istituzioni. Entrambi sono tenuti in vita sull’arena pubblica dai genitori, che li proclamano martiri di un sistema ingiusto. Due vittime di una stessa pallottola, di cui tutti e due, per motivi opposti, mantengono vivo il ricordo, nel silenzio generale.

A commemorare Carlo Giuliani – o meglio, gli eventi che determinarono la sua morte – ci sono quelli che sostengono i motivi che lo hanno spinto in piazza, fino a ritrovarsi a fronteggiare un Defender dei carabinieri con un estintore in mano. Dall’altra parte un sindacato di polizia, che sebbene con l’intento di cancellare ogni traccia pubblica del ricordo di Giuliani, interviene nel giorno della sua memoria, contendendo ai familiari la scena mediatica e contestando la loro versione dei fatti. La contestazione del ricordo non cerca l’oblio, bensì si sforza di cambiare il segno della memoria, neutralizzare l’eroismo che parte dell’opinione pubblica attribuisce alla morte di Giuliani, emarginare il discorso commemorativo fuori da ogni ufficialità. La sfida mediatica affronta tempi e luoghi della memoria avversaria: Matteo Bianchi, segretario della sezione genovese del Coisp, aveva annunciato una passeggiata da libero cittadino” a Piazza Alimonda proprio in concomitanza con la manifestazione del comitato “Piazza Carlo Giuliani” – l’idea gli è stata inibita dalla Questura per evitare disordini. Cosa spinge un pubblico ufficiale a una tale provocazione?

Ai fatti di Genova sono seguiti processi e condanne, che hanno accertato comportamenti criminosi degli agenti di polizia nella gestione dell’ordine pubblico per il G8 in numerosi episodi; Piazza Alimonda non è tra questi: il processo per la morte di Carlo Giuliani non è stato nemmeno celebrato, dato che il GIP prosciolse Mario Placanica per legittima difesa e uso legittimo delle armi, archiviando il caso nel maggio 2003. Secondo la giustizia, Carlo è morto da criminale, mentre aggrediva un agente nell’esercizio delle sue funzioni; celebrarne il ricordo è, di per sé, un atto di sovversione e una calunnia nei confronti della polizia – o meglio, della parte delle forze dell’ordine che ha cattiva memoria di Genova. Chi commemora Carlo, mette sotto accusa la faziosità degli istituti dell’ordine, della giustizia, dell’informazione e della memoria, e nel tentativo di allargare il consenso alla propria causa, scruta negli ingranaggi di questi istituti, cercando di metterne a nudo le falle, i veleni, i brutti ricordi.

Questo conflitto, ufficialmente concluso con l’archiviazione, continua a giocarsi sulla rete, sui canali di informazione alternativi, dove il movimento di solidarietà a Carlo Giuliani continua a condurre inchieste, riapre i fascicoli, rianalizza e pubblica le prove processuali, compila le fonti, fa ricerche sui protagonisti dei fatti del G8, produce documentari e li distribuisce gratuitamente. È una guerriglia mediatica senza quartiere, con l’obiettivo di demistificare la versione ufficiale. Dall’altro lato, lo Stato risponde col silenzio di chi si è già espresso: i processi sono conclusi, i ricorsi respinti, la proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Genova, allora voluta dal governo Prodi, è stata bocciata alla Camera nel 2007 – al Senato, tra i seggi di Rifondazione Comunista, sedeva Haidi Giuliani, madre di Carlo. Ma il discorso non è concluso, e riguarda l’intero l’apparato di Stato.

È vero che Genova non fa più notizia: i cantautori e i filmaker si occupano di altro, i blog sull’argomento sono sempre meno frequentati, la risonanza delle sentenze dei processi – e delle uscite su facebook di qualche agente di polizia – è sempre più ovattata, e le forze politiche che aderivano alla causa sono scomparse dalla scena parlamentare. Lo spazio si riduce, il pubblico anche. Ma nelle residue nicchie di attenzione, il dissenso si radica, e una voce continua a dire: “tutto quello che la maggioranza degli italiani sa della morte di Carlo Giuliani è falso” [3]. Le commemorazioni sono l’occasione per fare ricircolare inchieste, video e denunce, con la scusa di un post scritto da un intellettuale che aderisce alla causa, o di una delle tante tracce della discografia antagonista sui fatti di Genova. È proprio uno di questi post a ricordarmi quello che è successo, le immagini alla televisione, i racconti degli amici più grandi che ci sono stati, gli slogan alle manifestazioni degli anni successivi, le occupazioni; e poi il sapore del gas lacrimogeno, la polizia in assetto antisommossa; e poi ancora la rabbia di un filo che si perde, di un discorso che non si segue più.

Non sono imparziale sull’argomento; pertanto mi asterrò dal proporre una teoria o una ricostruzione dei fatti, né cercherò di scagionare qualcuno e accusare qualcun altro. Propongo una disamina del conflitto sui fatti di Genova a partire dalle immagini, dalle strategie di comunicazione audiovisuale, che stanno alla base degli eventi in piazza, delle reazioni immediatamente successive, del processo giuridico e del controprocesso mediatico. L’argomento tocca il nucleo dell’antropopoiesi politica contemporanea, e affronta il potere dell’immagine anche oltre la comunicazione. Immagini di vicende la cui storia, come sempre in Italia,verrà scritta quando sarà troppo tardi per leggerla.

Targa Carlo GIuliani vandalizzata

Targa Carlo GIuliani vandalizzata

Fatalità

La narrazione ufficiale vuole che le circostanze che hanno portato allo scontro di Piazza alimonia nel pomeriggio del 20 luglio 2001 siano dovute al condensarsi di una sfortunata serie di eventi accidentali. A cominciare dai movimenti di Carlo, uscito da casa quella mattina con addosso il costume da mare, poi convintosi a partecipare alla manifestazione, e condotto in quella sezione del corteo soltanto dalla ricerca di un bar dove pranzare. Casuale sarebbe stata la mancanza di orientamento delle forze dell’ordine che, perse tra i carruggi del centro, si trovarono erroneamente a caricare il corteo autorizzato delle tute bianche piuttosto che i gruppi responsabili delle devastazioni di banche, supermercati e pompe di benzina. Casuale, perché immotivata e pericolosa dal punto di vista strategico, la presenza di due Land Rover Defender non blindati dietro i reparti dei carabinieri che stavano caricando tra Piazza Alimonda e Via Tolemaide; i due mezzi, per caso, rimasero scoperti nella ritirata rocambolesca delle forze dell’ordine di fronte ai manifestanti, bloccandosi a vicenda. Il caso volle che, dentro al Defender rimasto più indietro – bloccato da un cassonetto che, casualmente, riparava un agente che continuava a lanciare liquido urticante sui manifestanti inferociti – ci fossero due agenti, tra cui Mario Placanica, che erano stati allontanati dalle azioni perché in evidente stato di crisi nervosa (il capitano Cappello, in sede processuale, ha detto che “erano cotti”) [4], e che però non vennero ‘sfiltrati’ nonostante ci fossero due ambulanze sul posto. Ultima casualità è la presenza, vicino al Defender fermo, di un estintore, ormai vuoto, che i carabinieri avevano portato in piazza. Mentre la rabbia dei manifestanti si sfoga sul Defender, abbandonato dal resto del contingente dei carabinieri, qualcuno scaglia l’estintore contro l’auto. Il metallo rimbalza sulla ruota di scorta, e rotola a quattro metri di distanza, vicino a Carlo. E qui, secondo la macchina dello Stato, finisce l’alea del Fato e avviene l’atto di volontà, l’unico: Giuliani afferra l’estintore e lo solleva sopra la testa, costringendo Placanica, già ammaccato dalla sassaiola dei manifestanti, a sparargli un colpo in testa – anzi, a sparare in aria, centrando una delle pietre lanciate durante l’assalto al Defender, che per un ulteriore scherzo del Fato maligno, avrebbe privato il proiettile della camiciatura d’ordinanza, deviandone la traiettoria verso lo zigomo del giovane. Se l’è voluta lui, caso chiuso.

Il movimento di opinione che si stringe attorno alla famiglia Giuliani considera questa narrazione, e la sentenza che ne consegue, del tutto inaccettabili. La grande azione di controindagine coordinata dal comitato ‘Verità e Giustizia per Genova’ segue un’altra linea: quella di Piazza Alimonda è stata una trappola, “un’imboscata da parte delle forze di polizia”, come la definì a caldo Don Andrea Gallo, quella stessa sera, alle telecamere di Porta a Porta. L’intenzione che ci scappasse il morto era presente molto prima che Carlo si avvicinasse all’estintore. Il caso non c’entra niente, quel colpo sarebbe dovuto esplodere comunque. Aspettava solo di trovare un bersaglio, e ne ha beccato uno del tutto incolpevole.

Non entrerò in merito al dibattito politico e all’andamento dell’indagine e del processo [5]. Ciò che mi interessa è il contraddittorio tra le due istanze. Da un lato, c’è una voce le cui frasi sono sentenze, e che, oltre il monopolio della violenza, detiene anche quello della verità. Dall’altro, un manipolo di cittadini assolutamente certi che la verità sia un’altra, e determinati a promuovere il loro discorso con tutti i mezzi a disposizione. Evidentemente, la disciplina antropologica non si occupa di prendere posizione tra i contendenti; ciò che, a mio avviso, diventa estremamente rilevante, è che il conflitto riguarda direttamente sia i meccanismi di costruzione della verità sia gli interessi e le finalità che innescano tali meccanismi. Sono questi gli imputati chiamati in causa, in un processo che, al momento, può avere sede solo nella testa degli esseri umani. Per mettere la questione in prospettiva, e per evitare di ridurre tutto a una scaramuccia tra guardie e ladri, facciamo un passo indietro e diamo un’occhiata alla scenografia.

Lucciole nere

Il summit tenutosi a Genova da 20 al 22 luglio 2001, sotto la presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, è stato il ventisettesimo vertice del Forum che riunisce i governi di quelle che erano le sette principali potenze ‘occidentali’ più la Russia, entrata dopo la fine del regime sovietico. Sul finire degli anni ’90, i vertici del G8 e di altri forum dell’economia globale come il WTO hanno catalizzato un massiccio e variegato fronte di protesta alle politiche neoliberiste. Questo fenomeno politico internazionale, che in Italia veniva all’epoca chiamato movimento no-global, si era definitivamente imposto all’attenzione dei media in occasione della contestazione alla conferenza del WTO a Seattle nel 1999, e dopo due anni era sbarcato in Italia, promettendo centinaia di migliaia di manifestanti a Genova.

Tra i no-global ci sono formazioni assolutamente nonviolente e pacifiste, altre molto meno. Una, in particolare, la più ambigua, fa la sua comparsa in Italia proprio in occasione del G8 di Genova, e da allora è restata una presenza immancabile in tutti i momenti di tensione politica e sociale. È il Black Bloc, raggruppamento di autonomi e anarchici che non fa capo a nessun gruppo ufficiale, e non partecipa a nessuna azione politica all’infuori delle manifestazioni. Difficile dire cosa sia e che gente accolga: di certo, da Genova in poi, il Black Bloc non ha mai mancato una occasione ‘calda’: durante il corteo degli Indignaos a Roma, nei picchi delle contestazioni studentesche alle riforme di scuola e università, nella contestazione No TAV, all’inaugurazione dell’Expo a maggio 2015 a Milano.

Così come le lucciole, il cui andirivieni segnava per Pasolini e Sciascia (1978) gli scarti del linguaggio del potere democristiano, l’avvento del Black Bloc segnala l’avvio di una nuova stagione nella gestione delle manifestazioni politiche di dissenso di massa a livello internazionale, e in Italia corrisponde al primo morto per ordine pubblico dopo 22 anni (l’antecedente più prossimo a Carlo Giuliani è Alberto Giaquinto, giovane missino ucciso nel 1979 a Roma durante una commemorazione della strage di Acca Larentia) [6].

L’arrivo del blocco nero, e di altre formazioni potenzialmente violente, era stato abbondantemente previsto a Genova, e le autorità erano preparate. La Questura aveva compilato e fatto circolare tra gli agenti un fascicolo di 36 pagine, titolato “Informazioni sul fronte della protesta anti-G8” [7], prospettando uno scenario che sembrava tratto dal programma di Orson Welles, La guerra dei mondi: lancio di sangue infetto da parte dei manifestanti, rapimento di agenti, fionde perforanti, volanti contraffatte, deltaplani e catapulte per attaccare la ‘zona rossa’ del summit. Ciò che è accaduto è molto più semplice: durante il primo giorno del summit, piccoli gruppi di individui a volto coperto si staccano dai cortei, ricavano dal tessuto urbano armi improprie quali ciottoli e materiale da cantiere, e devastano banche, saccheggiano supermercati, tirano pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine, che reagiscono con cariche dirette anche a gruppi di manifestanti del tutto pacifici e autorizzati [8]. La tensione sale, così come il livello dello scontro. Un carabiniere, ferito alla testa, viene ricoverato: la notizia rimbalza e viene ingigantita, inizia a circolare tra gli agenti la voce della morte di un collega [9]. Pochi minuti dopo cominciano gli scontri nelle strade limitrofe a Piazza Alimonda.

FOTO4. Dylan Martinez - ReutersImmaginare la verità

C’è un’immagine che condensa le cariche e le controcariche, le ore di violenza, gli alti gradi di polizia e carabinieri a pochi metri, l’assalto al Defender da parte dei manifestanti. Un’immagine che presenta tutti gli elementi di ogni discorso possibile su Piazza Alimonda. Questa immagine è una fotografia scattata da Dylan Martinez per l’agenzia Reuters. C’è una folla di manifestanti che attacca una camionetta dei carabinieri; in mezzo c’è Carlo con il passamontagna e in mano l’estintore, che si muove verso il Defender; dentro c’è una mano armata di pistola che mira dritto verso di lui. La foto è scattata da lontano attraverso l’uso di un potente zoom, che produce un forte effetto di schiacciamento delle figure nel campo; ma questo non si vede, fa parte del fuori campo, così come il plotone dei carabinieri in assetto antisommossa che osserva impassibile a pochi metri. Dentro l’immagine c’è anche una frase scritta con la bomboletta sul muro: “No more cops”, niente più sbirri. Il dettaglio sembra trascurabile, e invece fornisce un potente intertesto alla scena: quello che sta avvenendo è un linciaggio, a furor di popolo, ai danni di uno sparuto gruppo di poliziotti. I filmati acquisiti dal GIP, in cui si sentono voci tra la folla gridare “Sbirri di merda, vi ammazziamo!”, aggiungono la traccia audio alla scena del delitto già delineata dalla foto. Ognuno è libero di scandalizzarsi o di esultare per l’evento, ma il messaggio parla chiaro: c’è chi attacca, e chi si sta difendendo.

Questa foto è l’illustrazione attraverso cui la gran parte dell’opinione pubblica italiana visualizza l’avvenimento della morte di Carlo Giuliani. Il successo di questa immagine travalica abbondantemente il piano comunicativo, intervenendo fortemente su quello giuridico, ossia sull’unica agency che può legittimamente elaborare la ‘verità’ nel sistema civile contemporaneo, e che ha usato questa foto come prova processuale. Che sia stata la forza insita nell’immagine ad averla condotta così lontano, o la sua fortuna nell’adempiere alle caratteristiche volute dal decision-making ufficiale, ciò che risalta sono le affinità elettive tra lo scatto e il verdetto. Verdetto non solo giuridico: la versione ufficiale a caldo scagionò da subito lo sparo dell’agente, attribuendo l’omicidio alla sassaiola dei manifestanti, come vedremo tra poco. Ad ogni modo, ciò che la foto di Martinez conferma è che, nel caso che ad uccidere Carlo sia stato un proiettile sparato da un carabiniere, l’uso dell’arma era l’unica possibilità di difesa per l’agente all’interno del mezzo – la foto, infatti, è alla base della perizia accolta dal GIP.

Per la famiglia Giuliani non è così. L’immagine chiave della loro ricostruzione è un fotogramma simultaneo alla foto Reuters, contenuto in un filmato ripreso da più vicino. La posa è la stessa, ma la distanza appare di ben altre proporzioni: Carlo, secondo i consulenti tecnici della persona offesa, si trovava a circa tre metri e mezzo dall’auto al momento dello sparo, ossia in una posizione molto meno minacciosa per la vita di Placanica. La famiglia va oltre: sostiene che la mano dentro il Defender ha sfoderato e armato la pistola, minacciando i manifestanti, ben prima che Carlo raccogliesse l’estintore da terra; Carlo, secondo tale ricostruzione, avrebbe preso l’estintore proprio nel tentativo di disarmare l’agente che stava minacciando la vita dei suoi compagni dimostranti [10]. L’intento della famiglia Giuliani, nel quadro della ricostruzione della ‘verità’, è quello di ribaltare la sentenza del GIP, e fare del proprio figlio un eroe, almeno nella memoria dei compagni, suffragando la propria ricostruzione con un ricco apparato audiovisuale che in primis evidenzia la violenza di Stato, la vigliacca e fallimentare carica al fianco del corteo autorizzato su via Tolemaide, effettuata senza lasciare vie di fuga, e preceduta da ore di pestaggi a manifestanti inermi e dalla connivenza della polizia con i gruppi di vandali.

Uno sparo e un estintore: sia la polizia che la famiglia Giuliani giustificano l’evidente atto violento del loro membro sulla base del diritto alla legittima autodifesa. Per supportare la loro tesi, confidano su uno dei più resistenti pregiudizi positivisti della società delle telecomunicazioni: l’autoevidenza dell’immagine. Entrambe le tesi presentano immagini come prove incontrovertibili del loro discorso; gli scatti proposti mostrano invece due frammenti di realtà diversi e contraddittori, confermando che è il punto di vista e la selezione del mirino a costruire l’immagine, la quale è simultaneamente una discretizzazione del reale e una sua automatica interpretazione.

Il differente peso delle due immagini non va cercato dunque nella loro maggiore o minore adesione alla ‘verità’; bisogna guardare al fuori campo, al discorso che le ingloba e le rende parte di una narrazione, e al riscontro sociale ottenuto da tale discorso – che lo rende più, o meno, ‘credibile’.Delle due foto proposte, la prima ottiene la ragione, la seconda no. Le immagini che illustrano la prima tesi confermano il proprio ruolo di informazioni ufficiali; le immagini invocate dai familiari restano illustrazioni subalterne, scivolano via dalle prime pagine di risultati nei principali motori di ricerca in rete, diventano controinformazione.

 Fotogramma da La Trappola

Fotogramma da La Trappola

Like a rolling’ stone

Torniamo dentro l’immagine, all’istante della foto. Carlo di fronte a Mario, pochissimi anni e pochissimi metri di distanza. Qualche fotogramma dopo: lo sparo. Carlo si accascia a terra, la piazza piomba in un silenzio surreale. Passano sette secondi: secondo sparo. La piazza si risveglia: i manifestanti gridano il loro sdegno; il Defender si sblocca, fa marcia indietro, passa sul corpo di Carlo, poi ingrana la prima, lo calpesta di nuovo; il plotone si compatta, recupera il controllo della piazza, occupa lo spazio attorno al corpo di Carlo. E qui si apre un nuovo conflitto di immagini, il più oscuro: l’autopsia rivela la frattura dell’osso frontale del cranio di Giuliani, dovuta ad un colpo di pietra; il passamontagna, però, non presenta nessun segno corrispondente [11].

Subito dopo lo sparo, i carabinieri si compattano intorno al corpo, mentre i fotografi presenti continuano a scattare foto. La compresenza dei due fattori causa un cortocircuito: Eligio Paoni, fotoreporter, viene manganellato e spinto contro il corpo di Giuliani, un apparecchio fotografico gli viene distrutto, un altro viene privato del rullino. Il perché di questa aggressione non è mai stato chiarito. Nel frattempo, come si evince dalle indagini della famiglia Giuliani, un sasso continua a cambiare posizione intorno alla testa di Carlo.

Dieci minuti dopo lo sparo, arrivano in piazza i reporter Toni Capuozzo e Renato Farina; qualcosa è cambiato, perché gli agenti non provano alcun segno di fastidio in loro presenza. Nel frattempo, tutti gli attori del dramma stanno riavendosi dallo shock, e rientrano nei loro ruoli; le telecamere autorizzate iniziano a riprendere. Un manifestante, dai gradini della chiesa, grida “Assassini!” rivolto alla polizia. Il vice-questore Lauro scatta: «L’hai ucciso tu l’hai ucciso, bastardo! Col tuo sasso, pezzo di merda!», e lancia due suoi uomini in un accenno di inseguimento al manifestante, che si spegne dopo appena una decina di metri. Il tutto ripreso in video, e trasmesso pochi minuti dopo su tutti i Tg nazionali.

Il comportamento di Lauro evidenzia un elemento cruciale: gli scontri di piazza Alimonda diventano un fatto prettamente mediatico, da affrontare rispettando le regole della comunicazione di massa. La scaturigine della trasformazione è, ovviamente, la morte di Carlo Giuliani: il suo cadavere sposta immediatamente il conflitto dalla politica all’immagine. Il G8 è un evento estremamente rilevante su scala globale, e la notizia di un morto durante uno scontro a fuoco tra polizia e manifestanti sarebbe stata sulla copertina di quotidiani e telegiornali in tutto il mondo di lì a poche ore. Sul fronte di fuoco c’era la polizia, ma in quella occasione gli agenti – e il loro operato – rappresentavano tutte le istituzioni italiane; in primis il governo, politicamente responsabile per ciò che è successo.

La tensione dello sparo in piazza trasporta l’Italia nel cronotopo della morte di Stato. Lauro si trova a due passi dal cadavere ancora caldo, una manciata di secondi dopo lo sparo. Non lo preoccupano né il rapporto da stilare, né i procedimenti penali e disciplinari; ha un problema ben più pressante: le telecamere. Sa che Genova fa notizia ora, intorno a lui, e che bisogna agire sulla notizia, non subirla. Non ha paura di smentite: quelle verranno, semmai, dopo, quando l’attenzione sarà scemata; la partita va giocata all’istante. Primo problema: controllare quanto più possibile la produzione di notizie, selezionare i reporter da ammettere sulla scena; Paoni di certo non è tra questi, forse perché ha colto qualcosa di scomodo da far sapere sugli istanti che seguono lo sparo, quando Carlo, secondo l’autopsia, era ancora vivo. Secondo problema: passare alla regia, mettere in atto una scena efficace che racconti per immagini la versione dei fatti che si vuole far circolare. All’arrivo delle telecamere più gradite, il vicequestore improvvisa: non ha il tempo di pensare ai dettagli, deve creare un supporto visivo da far circolare immediatamente, prima che vengano elaborate strategie comunicative antagoniste. L’obiettivo è cristallino: addossare la responsabilità del morto sugli avversari, e di conseguenza scagionare la polizia. Per riuscirci, deve attirare l’attenzione.

In quel momento, la tv italiana è nel caos: circola la notizia di un morto tra i manifestanti, ma non si sa neanche di che nazionalità sia. Qualcuno parla di un agente ucciso, altri in mancanza di dettagli ricamano sulla violenza del Black Bloc, altri cercano di elaborare criticamente i pochi dati ma hanno bisogno di più tempo. La performance di Lauro [12] interviene come coagulante, e attira gran parte dei cronisti e dei commenti verso una linea comune: l’accusa ai manifestanti violenti. Dura poco, perché le smentite arrivano presto, e la dinamica dei fatti viene chiarita in serata; ma quel video di pochi secondi lascia un imprinting destinato a perdurare in tutto il corso della vicenda.

Ricordo le immagini in tv, con i presentatori che davano la notizia di un manifestante rimasto ucciso, probabilmente, da un sasso tirato da un violento, e a seguire il video con il vicequestore Lauro che grida «Tu l’hai ucciso, col tuo sasso!». Ricordo l’immediato commento di mio padre: «Non è vero. Se fosse stato il manifestante, non avrebbe certo gridato “assassini” ai poliziotti, con il cadavere del compagno ucciso per sbaglio. È un complotto»; cresciuto nella militanza nei movimenti sessantottini, non aveva dubbi si trattasse di un falso. Ed è proprio questa la teoria della famiglia Giuliani: Lauro sta improvvisando una pièce a uso e consumo delle telecamere di regime, per giustificare una sassata data sul cadavere di Carlo, sfogo brutale di rabbia repressa o rozzo tentativo di depistaggio dal proiettile.

Una volta accertato che Giuliani è morto per un proiettile sparato sotto gli occhi di Lauro, la giustizia contesta l’episodio dell’inseguimento, e il vice-questore viene ascoltato in merito dalla commissione parlamentare. Lauro fa un passo indietro: avrebbe reagito d’impulso, pensando, «forse ingenuamente, che potesse essere stata una pietra»; e fornisce anche una seconda interpretazione alle parole da lui stesso pronunciate verso il manifestante: «se non ci avessero lanciato le pietre, ciò non sarebbe successo» [13]. Quest’ultima interpretazione avrà più successo.

Nonostante l’accusa al manifestante sia stata smentita, e si sia dimostrato che neanche Lauro stesso era convinto di stare inseguendo il responsabile, il meccanismo del sasso, messo in moto di fronte alla telecamera, e accreditato dalle prime versioni della Questura di Genova e dai principali telegiornali, non si interrompe; anzi si ritaglia un posto nella versione ufficiale, assumendo una nuova forma.

La perizia balistica del consulente del PM afferma che il primo dei due colpi esplosi da Placanica era rivolto verso l’alto ed è stato deviato dall’impatto con un sasso che un manifestante aveva lanciato verso il Defender. L’impatto avrebbe non solo deviato il proiettile verso la testa di Carlo, uccidendolo, ma lo avrebbe privato di netto della camiciatura. Questo secondo dettaglio spiega una forte incongruenza nella scena del delitto: secondo l’esame autoptico, il proiettile omicida era ‘scamiciato’, ossia incompatibile con l’arma di ordinanza di un militare ventunenne arruolato da soli sei mesi quale Mario Placanica. Questo dettaglio aveva aperto ipotesi su altri agenti di grado superiore a bordo del Defender, ma la perizia balistica è tornata a rendere congrui tutti gli elementi del quadro processuale e mediatico che si andava delineando come la versione ufficiale.

Gli eventi vengono attratti dal polo magnetico creato dalle immagini; i suoni e le fotografie vanno molto più rapidi dei meccanismi burocratici e dell’elaborazione delle interpretazioni, lasciano un solco che i processi più lenti spesso seguono senza discostarsi. L’archiviazione decisa dal GIP Elena Daloiso impedisce che le indagini sulla morte di Giuliani continuino, prima ancora di aver celebrato il processo: è stato un sasso a farlo morire, come ha detto Lauro.

Piazza Carlo Giuliani

Piazza Carlo Giuliani

 #pernondimentiCarlo

Meno di due mesi dopo il G8 di Genova, crollano le Torri gemelle a Manhattan. Gli Stati Uniti, attraverso la celebrazione collettiva e la spettacolarizzazione mediatica della tragedia, iniziano un decennio di violenti interventi politici e militari su scala globale, in cui trascinano di peso gli alleati, Italia compresa.

Genova cede i titoli di testa ad altre notizie, ma la ferita provocata dal G8 è profonda. Decine di cantautori e gruppi rap e rock incidono pezzi dedicati a Carlo Giuliani. L’immensa quantità di materiale audio e video prodotta nei giorni del summit viene condensata in molteplici documentari, e vengono realizzate opere di fiction sui fatti di Genova.

Carlo è il fermento di gran parte di questa produzione culturale antagonista. Le commemorazioni, di anno in anno, parlano del suo coraggio e della sua dolcezza, ma attecchiscono su una stragrande maggioranza di persone che Carlo non l’hanno conosciuto né si domandano chi fosse. Anche questa ricorrenza è veicolo di qualcos’altro.

La morte di Giuliani diventa una bandiera per chi si riconosce nelle varie anime del movimento no-global, che già pochi anni dopo Genova non ha nient’altro in cui riconoscersi se non la commemorazione di Carlo e le recriminazioni per le violenze subite a Genova. L’epoca della crisi economica, infatti, sembra aver aperto una nuova fase nel panorama politico europeo, in cui il dissenso si frastaglia e la sua espressione di piazza si fa più sporadica. La morte di Carlo Giuliani si presenta come il punto più commovente nell’epica del movimento; la famiglia Giuliani si rende conto di questo elemento, e il comitato “Piazza Carlo Giuliani” dà alle sue rivendicazioni un carattere quanto più aperto possibile, accettando di veicolare un’istanza contestataria più generale.

Il comitato appoggia la famiglia Giuliani nel tentativo di istruire un processo sulla morte del figlio, e ha sostenuto i manifestanti di Genova in tutti i processi e le controversie legali, sia come difesa che come parte civile. Ne è seguita una vera e propria controinchiesta sui fatti di Genova, basata sugli atti ufficiali del tribunale e su fotografie e video realizzati da manifestanti e giornalisti durante i cortei anti-G8, sulla cui base il comitato si oppone all’archiviazione e all’invocazione della legittima difesa per lo sparo di Placanica. Questo enorme database è stato compendiato in La Trappola [14], un documentario di solo montaggio che ricostruisce in circa un’ora una versione dei fatti alternativa a quella ufficiale. I documentaristi (anonimi, che non hanno voluto nessun diritto di autore sull’opera) attaccano sin dalle prime slides l’operato delle forze dell’ordine a Genova, e della giustizia che non le condanna. La disamina dei fatti di piazza del 20 luglio 2001 parte con documenti che proverebbero la connivenza tra polizia e frange violente (in alcuni casi palesemente infiltrate dai carabinieri) e la totale indifferenza delle forze dell’ordine di fronte agli episodi di violenza riconducibili al Black Bloc. Seguono le cariche immotivate al corteo autorizzato, con cui la polizia si accanisce sui manifestanti senza lasciare loro vie di fuga, fino a condurre una parte del corteo nel cul de sac di Piazza Alimonda. Qui la ricostruzione si concentra sull’imperizia strategica che produce assurdi errori quali la presenza dei Defender, il mancato sfiltramento di Placanica, la sterile carica contro i manifestanti e la rocambolesca ritirata dei carabinieri, il tutto in presenza dei più alti gradi in carica al summit. La tesi dei documentaristi viene suggerita attraverso domande retoriche: «Perché tanta violenza? Perché questi errori?», e poi enunciata con l’intervento di Don Andrea Gallo, che spiega il titolo del documentario: tutta la dinamica della gestione dell’ordine pubblico del G8 sarebbe stata una trappola mortale, secondo un piano criminoso proprio del terrorismo di Stato. Questa, in definitiva, è la tesi di tutto il movimento.

Mancano le prove. Il documentario, preciso e puntuale nella dinamica della giornata fino alla morte di Giuliani, sul finire si fa più retorico, ripropone scene di commemorazioni e cortei; si rivolge ai militanti, ne rinsalda la coesione, ne rinforza la consapevolezza di essere dalla parte del giusto, di lottare per la verità. Come alcuni critici interni al movimento hanno detto [15], non è ancora dimostrato che l’episodio di Piazza Alimonda sia il risultato di una trappola premeditata e non di una ritirata scomposta delle forze dell’ordine. Eppure questa ipotesi racchiude il senso del video, che presenta un solido impianto documentaristico su alcuni fatti puntuali, ma basa su un consenso prettamente emotivo l’adesione dello spettatore all’ipertesto: la polizia è stata violenta e si è accanita futilmente sui manifestanti pacifici; la violenza a Genova è stata decisa a tavolino (queste due ipotesi sono suffragate da dati nel documentario); quindi, la morte di Carlo Giuliani non può che essere stata voluta. La sequenza che ricostruisce la morte rappresenta il climax del video, conquista definitivamente l’adesione del pubblico alle enunciazioni successive: l’hanno ucciso loro, il processo lo avrebbe provato e per questo lo hanno impedito.

La dimostrazione non è affatto stringente, ma non importa; gran parte del pubblico di questo documentario è già d’accordo con la tesi. In questo caso, la conclusione è genericamente data per scontata («viviamo in uno stato di polizia che reprime il dissenso con ogni mezzo»), mentre le argomentazioni a sostegno costituiscono il vero contributo dato dal film all’utente (« avevamo ragione: guarda qui»). La logica è invertita: si parte dalla conclusione, poi se ne ricostruiscono le ragioni logiche. Il video si rivolge a tutti quelli che provano simpatia per Giuliani e ce l’hanno con lo Stato, la polizia e gli organi dell’informazione ufficiale, e fornisce loro robuste argomentazioni per confermare la propria convinzione e rinsaldare la militanza consapevole.

Non sostengo affatto che il film strumentalizzi la morte di Giuliani in malafede, né che la disamina dei fatti non presenti degli argomenti estremamente interessanti. Voglio dire che La Trappola è un interessantissimo caso di supporto commemorativo on line, in cui la celebrazione diventa esplicitamente momento politico di azione sul presente e sull’elaborazione della memoria comune a una fetta della società.

Il film è stato più volte rieditato, sulla base di nuovi dati emersi, e ogni commemorazione del 20 luglio è una buona occasione per metterne in circolo la versione più aggiornata. E così è successo anche il 20 luglio 2015. Se il comizio a Piazza Alimonda ha raccolto un centinaio di manifestanti, la campagna mediatica online, condotta con l’hashtag #pernondimentiCarlo, ha raggiunto molte più persone. La narrativa antagonista del comitato “Piazza Carlo Giuliani” continua a trovare spazio in rete, e se il silenzio dello Stato è cassazione sul piano giuridico, lascia di contro enormi spazi sui nuovi canali comunicativi. E come la vicenda in questione ha insegnato, spesso le immagini esuberano dai confini dell’informazione, e modificano i fatti. Per questo, un ente quale il Coisp continua a sentirsi chiamato in causa dalle commemorazioni del 20 luglio, che cantano un eroe bandito, che nessuna campagna di diffamazione riesce a fare tacere. L’immagine che lo ha fatto condannare contribuisce a immortalarlo giovane, senza paura di fronte a un nemico meglio armato di lui. Carlo continua a vivere, e a produrre dissenso.

Il riassunto, superficiale e di certo parziale, con cui ho proposto la vicenda della morte e ricordo di Carlo Giuliani, non serve a prendere posizione. Non invito il lettore ad accettare o meno la teoria della famiglia Giuliani, secondo cui il proprio figlio è stato ucciso per motivi politici con il benestare delle forze dell’ordine e della giustizia. Ciò che propongo è un esercizio logico, che consiste nell’accettare che sia possibile che un giovane cittadino sia morto a causa della repressione di Stato, e che l’apparato della verità ufficiale abbia coperto le responsabilità penali e politiche di questo omicidio. L’obiettivo di tale esercizio non è affatto l’istigazione al dubbio paranoico di vivere in un sistema che occulta sistematicamente la verità ai suoi membri. Ritengo che tra l’accettazione supina delle voci ufficiali, e le teorie della cospirazione, ci sia una terza via che è la coscienza civile critica, che ha dato vita all’opinione pubblica e che oggi sembra incagliata nelle sabbie mobili della postmodernità. Ammettere che sia possibile che la verità pubblica sia manipolata da interessi che non perseguono il bene della comunità, significa maturare un altro occhio sul reale sociale, muoversi nella giungla dei segni stando attenti alle tracce, fiutando le piste del senso, seguendo scie che non portano a nulla o centrando l’obiettivo della comprensione. Restare in ascolto, interpretare i segni, discernere i punti significativi senza farsi ingannare dai mimetismi mediatici. Aggredire i flussi informatici alla caccia della consapevolezza, restando in guardia dai predatori più grandi che ingurgitano e digeriscono la coscienza delle masse.

Auspico una svolta paleolitica nella coscienza civica italiana, con le cittadine e i cittadini embricati nell’ambiente sociale in cui vivono, in costante partecipazione e scambio, consapevoli dei rischi e delle risorse dell’habitat. L’impigrirsi dell’opinione pubblica dipende dalla falsa fiducia di vivere in una società pacificata, dall’illusione che i grandi conflitti, da quello di classe a quello politico, siano stati sopiti dalla diffusione e distribuzione del benessere. Non è così, e i giorni che viviamo lo dimostrano. Guardare al recente passato, in cui la società si raccontava con altre parole e con voci discordanti, può gettare luce sulla monocromia del dibattito odierno. Commemorare per reagire, e per sbirciare dentro ai vuoti di memoria.

Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Note
[1] http://www.coisp.it/archivio-completo/finish/189-agrigento/14576-coisp-agrigento-comunicato-stampa-raccolta-firme-rimozione-monumento-a-carlo-giuliani-20-lug-2015
[2] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2015/07/20/g8-padre-placanica-coisp_n_7832182.html
[3] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9071#more-9071
[4] Cfr. La Trappola, minuto 27’40’’, sequenza estratta dalla testimonianza del capitano Cappello, resa in tribunale il 20 settembre 2005 durante il processo in primo grado a 25 manifestanti.
[5] Per un’analisi dei fatti di Genova, si consiglia di partire dal testo e dalle note delle pagine che wikipedia dedica all’argomento, tra cui https://it.wikipedia.org/wiki/Fatti_del_G8_di_Genova#Lo_scontro_di_Piazza_Alimonda; e https://it.wikipedia.org/wiki/Processi_e_decisioni_giudiziarie_sul_G8_di_Genova. Una rassegna delle principali controinchieste dirette dal comitato “Piazza Carlo Giuliani” è su http://www.piazzacarlogiuliani.org/carlo/iter/controin.php.
[6]http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=137
[7]http://www.repubblica.it/online/politica/gottotredici/documento/documento.html
[8] Cito, qui in nota, la presenza di immagini inquietanti di individui vestiti di nero e col volto coperto che discutono tra la fila delle forze dell’ordine: cfr. La Trappola (7’20’ – 9’08’’)http://indygraf.com/wp-content/uploads/2015/06/g8infiltrati_big.jpg e http://ita.anarchopedia.org/File:Blackpol.jpg. Molti accusano le forze dell’ordine di aver infiltrato agenti all’interno del Black Bloc per stimolare azioni violente e screditare l’intero movimento di contestazione al G8.
[9]http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/modules.php?name=News&file=article&sid=109&mode=&order=0&thold=0testimonianza di Marco Poggi, infermiere alla caserma di Bolzaneto.
[10] La ricostruzione dei fatti sostenuta dalla famiglia Giuliani è espressa per immagini dal minuto 36’06’’ al minuto 40’32’’ del documentario La Trappola.
[11] Per una compilazione e analisi (pro famiglia Giuliani) delle foto che documentano ciò che avviene in Piazza Alimonda nei minuti successivi agli spari, cfr. «L’orrore in P.zza Alimonda». Non ho inserito le immagini nel corpo del testo per la crudezza delle foto alle ferite: http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/modules.php?name=News&file=article&sid=110
[12] La Trappola, dal minuto 43’06’’ a 43’22’’.
[13]http://www.piazzacarlogiuliani.org/pillolarossa/modules.php?name=News&file=article&sid=72
[14] Film visibile e scaricabile gratuitamente in rete sul sito https://www.youtube.com/watch?v=bC-dy_gp17c
[15] Vedi il commento di Wu Ming 2 all’articolo su http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=9071#more-9071
Riferimenti bibliografici
AA. VV. (2015), Paleolithic Turn, Pleistocity Press.
Caillois, Roger (1986), Ricorrenze nascoste , trad. it., Palermo, Sellerio.
Petrarca, Valerio (1988), Di Santa Rosalia Vergine Palermitana, Palermo, Sellerio.
Sciascia, Leonardo (1978), L’affaire Moro, Palermo, Sellerio.
Filmografia:
Comitato Piazza Carlo Giuliani O.n.l.u.s., La Trappola (2011), copy left.
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.

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