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Azione e interazione nel dialogo fra culture in divenire

 Picasso,1922

Picasso, 1922

  di Concetta Garofalo

Mattina e sera, pranzo e cena il torpore della routine quotidiana viene squarciato da telegiornali che urlano storie di violenza e sofferenza, amore e coraggio, attraversamenti e sbarchi, salvataggi e recuperi, attentati e rivolte civili. Sono voci che urlano giustamente diritti: il diritto alla vita, alla libertà della persona, di pensiero e opinione, azione e parola. Il mondo scientifico, da parte sua, si interroga sui grandi temi dei diritti umani; gli Stati e le grandi organizzazioni mondiali definiscono a loro volta piani di intesa per la piena attuazione del diritto della persona che si concretizza in azioni di riforma e nell’elaborazione di strumenti teorici, legislativi, economici e politico-sociali, linee guida sulla definizione di concetti ampi che prendono il nome di “progetto di vita”, “normalità e specialità”, bisogni individuali, emergenze sociali, aiuti umanitari, svantaggio, diversità, intercultura.

Bisogna tenere conto del fatto che – ciò di cui parliamo – sono pur sempre concetti astratti, costrutti teorici, strumenti euristici, elaborazioni in intellectu prima che in obiecto; nelle azioni e interazioni ciò che è effettivamente manifesto sono i comportamenti e le relative pratiche attraverso i quali si attuano schemi mentali, rappresentazioni e sistemi simbolici condivisi. È «attraverso il flusso del comportamento – o, più esattamente dell’azione sociale – che le forme culturali trovano articolazione» (Geertz, 1998: 26). Il problema, di non facile soluzione, che si pone è il seguente: qual è il passaggio dal singolo caso all’astrazione scientifica? Quali differenze e ricorrenze si pertinentizzano nella fase-azione di oggettivazione? È infatti necessario ribadire un punto: le scienze umane si occupano di eventi che assumono rilievo sociale a livello collettivo per lo più a partire da un fatto e/o caso specifico. Spesso, infatti, gli scienziati sociali si “applicano” a un caso di studio che, in quanto rappresentativo, condensa l’esperienza soggettiva del vivere in società in seno a un sistema culturale di riferimento condiviso in maniera più o meno consapevole. Ciò avviene grazie ai processi che a livello individuale traducono il sociale in collettivo e il collettivo in soggettivo, come ad esempio la teoria della mente, le interazioni fra sistema delle aspettative e sistema delle attribuzioni, autoregolazione e autodeterminazione delle azioni. In ogni caso, i processi interazionali concorrono alla strutturazione di un’immagine di sé, complessa e orientata dal sistema, che rende possibile il sistema stesso nelle sue articolazioni e configurazioni di vita quotidiana.

 Louise Nevelson

Louise Nevelson

Belle parole! Forse. Il fatto è che l’articolazione delle domande non finisce qui: questi processi sono performativi in certe classi sociali e quali sono i livelli di autodeterminazione possibili nella società contemporanea nel caso di uomini e donne che, per ragioni economiche e sociali, subiscono la povertà di mezzi e la limitazione di libertà personali? Anche la loro è una forma di partecipazione sociale? Sembrerebbe assurdo, ma di fatto lo è! Gli uni si impongono all’esistenza degli altri! La questione, piuttosto, si pone nei termini esposti da Geertz:

«Quest’ottica – secondo la quale i problemi dovuti alla presenza della diversità culturale hanno a che fare più con la nostra capacità di penetrare sensibilità estranee, modi di pensiero che non possediamo […] e che non sono simili ai nostri, che con il fatto di potervi sfuggire preferendo le nostre stesse scelte – ha un gran numero di implicazioni […] questi problemi non sorgono semplicemente ai margini della nostra società […], ma per così dire ai margini di noi stessi. L’estraneità non comincia alla sponda del fiume, ma dalla pelle. In effetti l’idea, nutrita spesso sia dagli antropologi (a partire da Malinowski) sia dai filosofi (a partire da Wittgenstein), secondo la quale – per esempio – uno Shi’is, essendo altro, rappresenta un problema, mentre i tifosi di calcio, essendo parte di noi, no, o almeno non allo stesso modo, è semplicemente sbagliata. Il mondo sociale non crea una divisione alle proprie giunture fra dei “noi” chiari ed evidenti con i quali possiamo facilmente identificarci – a dispetto di quanto dissentiamo da loro – e degli “altri” enigmatici coi quali non possiamo identificarci – per quanto ci sforziamo sino alla morte di difendere il loro diritto di differire da noi» (Geertz, 2000: 551).

Quindi, per tirare le somme, ci sarebbero diversi livelli e modalità di partecipazione al sistema sociale e culturale: sono i ruoli e le funzioni, sono i posizionamenti e le forme di interazione. Dobbiamo allora rassegnarci ad essere tutti attori, in un modo o nell’altro, di attanti sociali? In definitiva, l’istanza soggettiva è il punto di incontro di programmi narrativi sociali e collettivi, trasformazioni narrative, azioni, interazioni e schemi comportamentali individuali. Ciò lo si rileva perfino in segmenti comuni della vita quotidiana, di tutti i giorni: cammino per strada, da sola, e sono comunque in presenza di altri; “Altro” è per me, anche, discontinuità nel mio flusso di pensiero, “punti” che compongono come un mosaico l’esperienza sensoriale dello spazio che percorro con il mio corpo. Percepisco la presenza degli altri sensorialmente: la vista, l’udito, l’olfatto concorrono a strutturare la mia immagine mentale della persona che incrocia il mio cammino. Alla luce dei processi di attenzione, percezione e memoria, occhi chiari, scuri, capelli lisci, ricci, pelle chiara, scura, colori e forme prendono il sopravvento come input di categorizzazione sociale, perché nella mia immagine mentale dell’Altro sono contemplati i ruoli e i posizionamenti nel sistema di relazioni orientato e plasmato dall’organizzazione sociale e politica della realtà culturale in cui vivo da quando sono nata. E allora, in quel momento, allorché incontro una persona, ancora prima di un nome, questa persona ha un posizionamento: il vigile, il lavavetri, il turista, la mamma col bambino, il mendicante, il commerciante, il venditore ambulante. Nella mia rappresentazione dell’Altro, questo primo posizionamento si associa al sistema più generale di appartenenza, sia riferito all’identità sia all’alterità. Un esempio potrebbe essere l’attribuzione delle provenienze e appartenenze: il turista europeo e non (pochi i cinesi e i giapponesi in città ancora in questo mese dell’anno!), l’extracomunitario (maghrebino, senegalese, nigeriano), il palermitano, il settentrionale, il meridionale.

Ma di tutto questo processo di rappresentazione mentale, culturalmente orientato, io non sono pienamente consapevole; non tutti acquisiamo tale consapevolezza, presi dal continuo fluire della quotidiana routine di azioni, percezioni e interazioni con se stessi, con gli altri, con gli spazi, con il prima e il dopo, con il dentro e il fuori, vicino e lontano, presenza/assenza. Scalfisco la discutibilità degli schemi precostituiti solo se riesco, più o meno intenzionalmente, a spostarmi a un livello riflessivo di metacognizione. Ciò vale pure per uno scienziato sociale. L’antropologo perviene a una conoscenza di livello metacognitivo dei sistemi culturali oggetto delle sue ricerche; l’osservazione e la descrizione conducono ad un livello superiore di consapevolezza dei fenomeni sociali che trascende i comportamenti osservati, li traduce in comportamenti appresi e, infine, in fatti ed eventi sociali collettivi. Secondo quanto spiega, ad esempio, Goodenough:

«Pensiamo tradizionalmente ad una lingua come a qualcosa di condiviso dai suoi parlanti ed a una cultura come a qualcosa di condiviso tra i membri di un gruppo […]. Anche quello che le persone sembrano condividere non viene compreso esattamente nello stesso modo sotto tutti gli aspetti da due singoli individui. Non si tratta, come dice Wallace, di una “replicazione dell’uniformità”. Ogni conoscenza individuale della lingua della propria comunità discorsiva differisce in qualche modo da quella di qualsiasi altro membro della stessa comunità. […]. La stessa cosa si può dire della conoscenza di ciò che le persone ritengono essere le pratiche tradizionali, i valori, le credenze – la cultura – dei gruppi di cui sono membri. Anche quando sembra esserci un alto grado di consenso, un esame più attento rivela la presenza di differenze individuali» (Goodenough, 2000: 328).
Mirò,Rondine amore,1934

Mirò, Rondine, amore, 1934

Il passaggio dall’individuo al collettivo socialmente condiviso (in termini di conoscenza-consenso-partecipazione) si manifesta nei livelli di performatività dei comportamenti appresi, osservabili e spiegabili in base alla coerenza fra rappresentazioni (e interpretazioni delle interazioni) e la negoziazione dei significati attribuiti alla realtà.

In tal senso, allora, studiosi, pensatori, operatori e mediatori di cultura devono necessariamente interrogarsi sulle annose questioni relative ai processi e sistemi di “formazione” e “trasmissione” di cultura; come avviene, per esempio, nel dibattito incentrato sulla definizione sottile di “multiculturalità” e “interculturalità”, volto a stabilire quali tratti socio-culturali segnano il passaggio differenziale fra “inserimento”, “integrazione” e “inclusione”. Sono keywords che prendono forma nei comportamenti sociali, nei posizionamenti, nei sistemi complessi relazionali e interazionali. La multidimensionalità dell’essere persona si scontra con l’azione interpretativa e descrittiva che “appiattisce” inevitabilmente la poliedricità della realtà sociale negli stilemi comportamentali socialmente condivisi all’interno di strutture culturali. L’habitus (il riferimento va a Bourdieu) agisce in maniera performativa sulla nostra percezione dell’Altro a tal punto da configurare le rappresentazioni mentali entro strutture coerenti interpretative dei fatti umani. In tal senso è lecito chiedersi se esiste davvero una cultura che accoglie veramente, in toto: non una pan-cultura indistinta, ma una cultura come spazio di dialogo fra culture in divenire. Piuttosto, è una via di mezzo come dice Deleuze. Il dialogo si misura nel cambiamento. Due culture aperte al dialogo sono culture fluide che dispongono se stesse nel fluire del cambiamento (come ribadisce pure Geertz). Per comprendere meglio questa idea di cambiamento vorrei, altresì, ricorrere ad un altro aspetto della questione. In particolar modo, mi riferisco alla spiegazione che Deleuze dà del divenire.

«Divenire non significa mai imitare, fare come, e neanche conformarsi a un modello, fosse pure quello della giustizia o della verità. Non c’è un termine da cui si parte, né uno a cui si arriva o si deve arrivare. E nemmeno due termini che si scambiano fra loro. Chiedere “che cosa stai diventando?” è una cosa particolarmente stupida, dato che man mano che uno diventa, muta in se stesso tanto quanto muta ciò che egli diventa. I tipi di divenire non sono fenomeni di imitazione, né di assimilazione, bensì di doppia cattura, di evoluzione non parallela» (Deleuze, 1998: 8).

Di conseguenza, l’intercultura si trasforma in inclusione non nel senso di “io divento te e tu diventi me”, piuttosto in un cambiamento in continuo divenire in virtù dell’interazione comune. Ciò che penso sia interessante è che Deleuze, riportando la stessa struttura discorsiva, spiega anche il concetto stesso di “incontro” (Deleuze, 1998: 13). Questo è un esempio, tra tanti altri possibili, di come, applicando teorie e metodologie, gli antropologi mettano alla prova i livelli metadiscorsivi (scientifici e non) di disponibilità al confronto dei sistemi culturali che studiano. Dall’osservazione dei modi di vita, nei quali si rendono manifeste le istanze collettive e individuali, emerge che comportamenti e azioni culturalmente in divenire sono sempre all’opera nei contesti di vita quotidiana: per le strade cittadine, nelle zone costiere di sbarchi e approdi, nei centri di accoglienza, negli spazi delle associazioni culturali, nelle scuole di frontiera, nei quartieri “a rischio”. Adulti, ragazzi e bambini vivono il confronto fra culture, interno ed esterno al sistema stesso. Il dialogo coniuga le istanze soggettive con le istanze plurime delle appartenenze le quali oggi non sono territorialmente circoscritte, pur tuttavia storicamente collocate. Vorrei, così, poter tradurre la riflessione di Geertz sul futuro dell’etnocentrismo in un quesito più orientato dinamicamente verso una cultura del movimento e del cambiamento: «È possibile il dialogo nel futuro (dell’inconciliabilità) delle idee, delle interpretazioni, delle rappresentazioni?». Il dialogo fra culture si pone prima di tutto in termini di confronto, più o meno consapevole, fra rappresentazioni e interpretazioni e transita attraverso i comportamenti osservabili, le interazioni e le azioni di vita quotidiana. Ecco perché, giusto per fare un esempio, in Io, venditore di elefanti (racconto reportage pubblicato nel 1990 e, oggi, più che mai, attuale) abbiamo testimonianza di forme culturali stereotipate le quali, come parte per il tutto, congelano la fluidità culturale:

«Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore […]. Io non so quali siano le virtù principali di un buon venditore. Noi del Senegal ne possediamo tante. […] come molti altri ragazzi del Maghreb o della Costa d’Avorio o del Mali o del Ghana o di qualsiasi altro paese al mondo che abbia allevato venditori e li abbia mandati in giro tra i bianchi, tra i tubab dell’Europa» (Khouma, 2006: 11).
«Mettiamo il caso che io mi trovi davanti a un poliziotto. La prima regola è dire sempre: “Sì, capo. Hai ragione, capo. Scusa, capo”. La seconda regola è abbassare gli occhi. È il segno che il clandestino è pieno di rispetto davanti alla divisa. Ha capito bene chi comanda. Non sta scritto in nessun posto ma sono regole da imparare a memoria. […]. Hai guadagnato la sua benevolenza, ti lascerà andare» (Khouma, 2006: 14).

Sembra sentire ri-suonare che fra un “Noi” e un “Voi” ci sono tanti “Io” sparsi e lontani tra loro. Il dialogo interculturale avviene inoltre nelle azioni di vita quotidiana. Si agisce, volenti o nolenti, mettendo in “scena” stereotipi comportamentali funzionali alle proprie esigenze di vita. Racconti come questi sono esempi utili a mostrare che le prospettive sono molteplici (e non solo la loro o la nostra). Volendo rompere alcuni rigidi schemi disciplinari, potremmo, provocatoriamente, affermare che “Loro”, come “Noi”, sono osservatori partecipanti. Inoltre, dal punto di vista etnografico emerge l’intuizione che gruppi e comunità in movimento sono disancorati dai sistemi culturali che attraversano. La storia di Pap Khouma, raccontata ad un giornalista italiano, traduce una istanza soggettiva e allo stesso tempo collettiva e universale che si mette in cammino e attraversa le culture e, simbolicamente, le oltrepassa risemantizzandone le prospettive sociali nelle azioni–reazioni quotidiane. Ciò che intendo dire è che, nel dialogo fra culture, all’interno delle culture, si dispiega l’opportunità di vedere oltre ciò che è intuitivamente manifesto. Dal decentramento delle rispettive prospettive culturali emerge quanto colui il quale è innanzi a me è tale in virtù del coraggio che ha avuto per affrontare il deserto e il mare. Paradossalmente, il coraggio ha reso questi uomini liberi di andare oltre le culture (la nostra e la loro) e di vivere l’istanza culturale del movimento e del cambiamento; allo stesso tempo, questo coraggio li ha resi schiavi della società internazionale. Minoranze nell’immenso mare della diversità culturale, portano con sé il coraggio dell’oltre, il coraggio di immaginare e realizzare il lontano.

 De Chirico, Torre rossa, 1913

De Chirico, Torre rossa, 1913

Il confronto fra culture risiede proprio nella pluralità condivisa del contesto dialogico che si configura come contesto di conoscenza per scoperta progettuale nel divenire dell’esperienza diadica, persino molteplice. Sulla scia di Geertz, la metafora dello spazio ci consente di rendere modificabile il rapporto fra etnocentrismo e relativismo, dialogo e differenza, noi e loro.

«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, e ciò implica non che il nostro orizzonte mentale – ciò che possiamo dire, pensare, apprezzare e giudicare – sia intrappolato entro i contorni della nostra società, del nostro paese, della nostra classe o del nostro tempo; ma che la capacità delle nostre menti, la serie di segni che possiamo in qualche modo usare per interpretare, è ciò che delimita lo spazio intellettuale, emotivo e morale entro il quale viviamo. Più ampio è questo spazio, più ampio possiamo farlo diventare: tentando di comprendere […] diventerà per noi sempre più chiaro cosa di ciò che vediamo negli altri ci sembra remoto e cosa invece ci appare simile, cosa è attraente e cosa è repellente, cosa è ragionevole e cosa è folle: opposizioni che, del resto, non possono essere schematizzate in modo semplice» (Geertz, 2000: 552).

Concepire un sistema culturale ricorrendo alle capacità di confronto apre il concetto di dialogo al cambiamento come predisposizione necessaria alla sopravvivenza del sistema stesso (esempio di processi e relazioni fra sistema ed entropia secondo Watzlawick) e non come negazione delle diversità o come affermazione di esse. Si tratta della strada verso la conoscenza. Anche in Deleuze troviamo elementi utili a dare conferma del fatto che «si incontra della gente (e a volte senza mai averla conosciuta né vista prima), ma anche dei movimenti, delle idee, degli avvenimenti, delle identità» (Deleuze, 1998: 12). La prospettiva antropologica ha il privilegio di questo sguardo rivolto al cambiamento il quale non è necessariamente “detto e fatto”; piuttosto, esso è reso possibile, probabile, in divenire. È in questo spazio che agire, pensare, credere, valutare, pro-gettare, pro-muovere assumono la realtà fluida della società contemporanea. Chi scrive ritiene che il confronto fra culture, oggi più che mai, non debba mirare a mettere in crisi il senso di appartenenza e la densità sociale delle radici culturali di comunità già messe a dura prova dai tragici eventi della storia. Ma, nel tempo della storia, ogni comunità non deve precludere a se stessa questo spazio di negoziazione di significati, interno a se stessa, nel quale le interpretazioni e le rappresentazioni collettive di valori, criteri, regole manifeste nei modi di vita vengano messe alla prova del confronto.

Quindi, a mio parere, una traiettoria culturale, fra le tante possibili, è la seguente: diversità → dialogo → cambiamento plurale → (meta)conoscenza → (auto e etero)consapevolezza. A questo punto è importante sottolineare che si tratta di traiettorie evolutive insite nel sistema stesso in grado di determinare un movimento multidimensionale e multidirezionale. Ancora più importante: mi preme ribadire che in questa sequenza, intenzionalmente, manca il lessema “identità”, troppo spesso inteso in chiave stereotipata, fissa e cristallizzata; anzi, questa sequenza, nella mia prospettiva, tende, nel suo insieme, a sostituirlo in un sistema integrato di interdipendenze. Non è forse l’identità un divenire la cui evoluzione è sottomessa al cambiamento, al dialogo con se stessi e con gli altri, alla conoscenza che si riflette sul suo stesso meccanismo? Bisognerebbe dunque pensare oltre, “divenire oltre”! In tante direzioni diverse! Affermare che il pensiero divergente è convergente nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno! Pensare dunque non una società multiculturale all’interno della quale ognuno è nessuno, ma culture all’interno delle quali le istanze soggettive partecipano dell’istanza collettiva e gridano il diritto al bisogno fondamentale della dignità umana.

E. Prampolini, Simultaneita architettonica,1921

E. Prampolini, Simultaneità architettonica,1921

Vorrei a questo punto concludere, sinteticamente, riprendendo adesso il titolo, forse inizialmente sibillino, del mio intervento: azione e interazione sono tali e correlate poiché inserite nel dialogo in divenire fra culture anch’esse (da considerare) in divenire. Ovviamente, almeno nel mio proposito, il divenire, che privilegio qui in maniera quasi ridondante, è semmai un modus di intendere, nel senso più largo, la vita e la teoria come decentramento continuo (Montes, 2015). Tale prospettiva antropologica agisce in uno spazio dialogico complesso in continua tensione fra osservazione e descrizione, “sguardo da vicino” e “sguardo da lontano”, osservazione partecipante e impegno sociale e personale, e traduce tali istanze in conoscenza, riflessione e metacognizione.

Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Riferimenti bibliografici
Deleuze G., Parnet C., Conversazioni, Ombre Corte, Verona, 1998 (1977)
Geertz C., “Gli usi della diversità”, in Borofsky R., L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000 (1994): 546-561
Geertz C., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988 (1973)
Goodenough W. H., “Per una teoria operativa della cultura”, in Borofsky R., L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma, 2000 (1994):324-336
Khouma P., Io, venditore di elefanti, Baldini Castoldi, Milano, 2006 (1990)
Montes S., “In sordina a Auschwitz. Tra sensibilità e razionalità, ordinario e straordinario”, in Dialoghi Mediterranei, n. 14, luglio 2015

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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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