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Astrarre il paesaggio: vuoti ed estasi ne “L’eclisse” e ne “Il deserto rosso” di Antonioni

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da Il deserto rosso di Antonioni

di Clarissa Arvizzigno

Ripensare lo spazio, svuotarlo di presenze, saturarlo di cose scandite da silenzi: questo, forse, potrebbe essere uno dei possibili modi di sintetizzare l’estetica di Antonioni, definito da molti critici il maestro dell’incomunicabilità. Ed è questa forse la cifra che più caratterizza L’eclisse e Il deserto rosso, gli ultimi lungometraggi che chiudono quella che è stata definita la sua tetralogia esistenziale. Rispetto ai due film che la aprono, L’avventura (1960) e La notte (1961)[1] assistiamo qui a un progressivo svuotarsi della scena di presenze umane, come se queste si compaginassero alle atmosfere in cui sono immerse e con cui collidono, come se si procedesse a una graduale astrazione del paesaggio, nella misura in cui da questo si tragga via, si estragga ciò che consente al regista di ri-creare nuovi spazi percettivi ed atmosferici da cui far muovere la narrazione.

Quella che qui tenteremo di fornire sarà, pertanto, una rilettura in chiave neofenomenologica, avendo come bussola l’atmosferologia, ovvero quella branca della fenomenologia che si occupa di atmosfere quali sentimenti effusi nello spazio circostante, qualità affettive che ci invadono, si lasciano afferrare e, a volte, ci corrispondono [2]. Tutto questo perché il cinema di Antonioni insiste sulle qualità percettive che possono derivare da una sequenza di immagini, sulla loro espressione-percezione sinestetica e olistica.

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da L’eclisse di Antonioni

Percorrere il vuoto: L’eclisse

Iniziando la nostra analisi da L’eclisse (1962) ci accorgiamo, come del resto nei lungometraggi precedenti della tetralogia, di come la trama sia abbastanza semplice e lineare, senza particolari intrecci o colpi di scena. Questo perché Antonioni si concentra sull’elemento narrativo nella misura in cui esso non sia groviglio di fatti, azioni, movimenti, bensì intreccio di espressioni di fatti, azioni, movimenti per lo più statici ma qualitativamente densi: come qualcosa accade e come si riflette e si articola nell’ambiente-narrazione è preferibile al che cosa accade, avviene, muta. L’eclisse si apre in un interno, una stanza di una casa, arredata con quadri delle avanguardie alle pareti, tanti libri e oggetti bizzarri, dove una Vittoria (Monica Vitti) e Riccardo (Francisco Rabal) discutono sulla fine della loro relazione. Come spesso avviene nei film del regista ferrarese, le donne sono disposte a lasciare gli uomini che non amano più per seguire la propria autonomia e per riappropriarsi dei loro spazi. Sono esse soggetti problematici che aprono voragini, crepe, dubbi esistenziali da cui i loro uomini, semplicemente, si traggono indietro.

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da L’eclisse di Antonioni

Salutando il suo ex compagno, che sembra vivere in una dimensione da elitario intellettuale borghese, Vittoria va a vivere per conto proprio in una tranquilla zona residenziale di Roma. Non vediamo qui la città storica del Colosseo o dei Fori Imperiali, ogni traccia della sua storia millenaria sembra essere venuta meno per aprire lo spazio ad un paesaggio fatto di conglomerati in cemento dalle tipiche forme spersonalizzanti e geometriche degli anni sessanta. Uno spazio che Augè avrebbe definito un non-luogo, asettico, grigio, senza qualche connotazione che gli dia una sua particolare pregnanza.

Noi invece, seguendo il filone neofenomenologico, tratteremo, per quanto riguarda questi luoghi, di atmosfere e precisamente di atmosfere urbane, della pelle atmosferica della città, come ci suggerisce T. Griffero, per cui quest’ultima possiede:

«detto metaforicamente, una sua pelle emozionale e polisensoriale, a tal punto che il townskape diventa un vero e proprio punto di orientamento psicotopico, il fulcro di mental maps in cui si condensa, fisiognomicamente, l’intera città (vissuta). Si tratta però di una pelle che non è affatto una proprietà dell’oggetto (di quale poi?) o di un involucro di qualcosa di più essenziale, bensì […] una qualità che le cose non “hanno”, ma nella cui manifestazione semmai si esauriscono: un modo-di-essere o “carattere” che, come sappiamo, genera lo spazio affettivo in cui (letteralmente) entriamo»[3].
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da L’eclisse di Antonioni

Non dobbiamo infatti cadere nell’equivoco, squisitamente romantico, secondo cui è atmosferico soltanto ciò che emana un’atmosfera ai nostri occhi, bella o comunque qualitativamente positiva. Anche un grigio conglomerato di costruzioni possiede una sua peculiare identità atmosferica, poco importi che essa comunichi squallore e decadenza, in ogni caso, ciò che avviene è un irradiarsi del paesaggio urbano circostante su uomini che, a loro volta, lo percepiscono ognuno a seconda del proprio particolare grado di ricezione e di adattamento o meno all’ambiente vissuto. Ciò che avviene è, riprendendo la lezione dei fenomenologi, un predominare dello spazio vissuto sullo spazio fisico, un suo parlare, un dire oltre i confini puramente materiali del paesaggio urbano che ci inglobano al loro interno: uno spazio in cui è il Leib (il corpo-proprio, vissuto) e non più il Körper (corpo fisico che si muove in uno spazio geometrico) ad abitare lo spazio e a renderlo tale consentendo la sua spazializzazione, la sua articolazione predimensionale di spazio,  piuttosto che a colmarlo con la sua fisica spaziosità.

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da L’eclisse di Antonioni

Con l’ultima pellicola in bianco e nero, Antonioni, così, si riappropria di uno spazio da cui sottrae i suoi protagonisti, aprendo discrepanze tra paesaggi e uomini. In una Roma periferica e mai eccessivamente trafficata, se non nella Borsa (unico ambiente in cui si registra un fitto conglomerato d’uomini dediti a inalare e fagocitare quanto più denaro possibile), Vittoria incontra Piero (Alain Delon), giovane e furbo agente di cambio di bell’aspetto, di mente intraprendente. Come la madre di Vittoria, donna materialista che passa le sue giornate a giocare in Borsa quello che le resta del proprio denaro, anche Piero presenta un cinico materialismo di fondo: in occasione di un minuto di silenzio fatto alla Borsa per ricordare la morte di un suo funzionario, Piero ribadisce a Vittoria come infatti anche un minuto, in quel luogo, possa costare milioni. Più che ricordare il celebre detto: “il tempo è denaro”, potremmo qui forse dire che il denaro coincide, per i personaggi che animano la Borsa, con il tempo della loro vita, diluito in una spasmodica corsa per accaparrarsi  tutto ciò che si può, anche in modo illecito se necessario.

Piero non è altro che un agente di cambio dedito al proprio interesse privato, in grado di trattare automobili e uomini alla stessa stregua, tanto che

 «svolge il proprio lavoro con competenza e distacco del tutto disumani. Piero si trova a suo agio in un mondo così privo di sentimenti e di limitate aspirazioni, agendo con lucidità ed esattezza rigorosamente pragmatiche e senza alcuna considerazione per l’essere umano in quanto tale. S’addormenta nel bel mezzo di una conversazione con lei e, alla prima uscita insieme, tenta di baciarla in maniera automatica, quasi si trattasse di un dovere; non le fa caso quando la vede afflitta da qualcosa, è troppo preoccupato dal costo della riparazione dell’auto nella quale è morto tragicamente l’uomo che gliela aveva rubata. Angosciata e distante, Vittoria gli chiede: “È solo questo che ti preoccupa, la carrozzeria dell’auto?”, “Beh, no”, le risponde Piero, “mi preoccupa anche il motore”»[4].
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da L’eclisse di Antonioni

Vittoria inizia così una relazione con un uomo molto diverso da lei, liquidando con tanti “non so” la qualità di un rapporto che vorrebbe forse che non fosse mai cominciato o, che al contrario, fosse caratterizzato da un amore più forte, tanto che, quando Piero le chiede perché lei continui ad uscire con lui, lei gli risponde angosciata: «Vorrei tanto non amarti affatto, oppure amarti molto di più».

Ecco: in questa atmosfera di una Roma insolitamente grigia, che ha perso la sua superba bellezza, si muovono i personaggi di Antonioni, inquieti, immersi in un paesaggio privo di storia che gli rassomiglia, che sembra continuamente riplasmarsi nella desolazione del vuoto che li circonda. Vi è, pertanto, una corrispondenza tra paesaggio e Stimmung dei protagonisti da non intendere qui però in senso romantico, ovvero con la classica corrispondenza paesaggio-stato d’animo, bensì fenomenologicamente: il paesaggio circostante irradia un’atmosfera che i personaggi fanno propria, introiettano collocandovisi perfettamente dentro e modellandola a loro volta.

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da L’eclisse di Antonioni

Ciò che si realizza è una compagine tra loro e l’ambiente che li circonda, uno scambio osmotico tra le parti, una duplice influenza che muove però dal paesaggio fisico che gli sta dietro, che, inevitabilmente, finisce anche con il diventare anche paesaggio di uomini. In questa palpabile pelle della città, l’atmosferico, in questo caso, è dato dall’architettura urbana tra cui si muovono Vittoria e Piero.

Anche l’architettura può infatti sprigionare una sua peculiare atmosfera, anzi scrive Griffero citando M. Wigley, A. Hahn e P. Zumthor:

«“architecture is but a stage set that produces a sensuous atmosphere”, even that it “is defined by atmosphere”[5] because “the production of the architecture (of “the architectural space”) is the production of feelings”[6]. Architectural atmospheres are therefore responsible for “immediate understanding, immediate contact, immediate rejection”, and are generated fundamentally by everything: “things, people, air, noises, tone, colors, material, presences, structures, also forms”[7]»[8]

L’architettura è, quindi, una scenografia atta a produrre atmosfere, è la condizione della loro produzione e, a sua volta, la produzione stessa di una peculiare atmosfera. Se abbiamo definito un’atmosfera come un insieme olistico e sinestetico di sentimenti effusi nello spazio, non è forse l’atmosfera, proprio come la definisce Hahn, una produttrice di sentimenti? Potremmo dire però che, mentre per altre atmosfere (crepuscoli, albe, dolore, etc.) di cui non conosciamo bene l’origine, in un certo modo lo intuiamo ciò che lo produce, nelle atmosfere generate dall’architettura è come se ne conoscessimo, apparentemente, l’origine. Ciò dipende dal fatto che gli elementi di cui si compone una casa, un ponte sono visibili e sempre uguali a loro stessi (dal momento che conoscono, nella maggior parte dei casi, un lento deterioramento), e di essi possiamo dire che se è vero che l’atmosfera che emanano è data da tante cose collaudate e articolate in un insieme funzionale, che possiamo analiticamente distinguere, è anche vero che tale insieme può essere colto in maniera sinottica senza che qualche elemento materiale, nel frattempo, vada via, ci sfugga. Ciò non può dirsi, ad esempio, per l’atmosfera di un crepuscolo, i cui generatori molteplici che ne determinano l’origine (il cielo blu sfocato, l’aria serale che sopravviene, il vento crepuscolare, etc…) non possono essere colti sinotticamente in un insieme. È vero, come sottolinea Zumthor, che l’atmosfera di un’architettura non si racchiude semplicemente nel suo essere materialmente un edificio, ma che è generata anche da persone, odori, colori, suoni, etc., ma, per lo meno, la sua prima facies, quella che più predomina nel suo insieme espressivo, è visibilmente statica.

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da L’eclisse di Antonioni

Non possiamo, infatti, considerare la percezione dell’atmosfera architettonica (e di qualsiasi altra atmosfera) come una percezione analitica e temporalmente scandita, ma come una percezione i cui elementi sinestetici possono essere colti contemporaneamente. È in questo senso che la geometria di un balcone, il design di un tetto possono fungere da affordances, ovvero da inviti di oggetti che ci spingono a percepire atmosfere.

Piero e Vittoria si muovono tra queste architetture urbane essenziali e scialbe, come essenziale e scialbo pare essere il loro modo di vivere le relazioni umane. Camminando tra questo geometrico paesaggio architettonico, è come se partecipassero come partner-utenti della regia spaziale creata dall’architetto: «this way of thinking conceives the architectural space as a choreographic score and the atmospheric perception as a specific movement» [9] in cui loro stessi sono lo spazio che producono standoci, contemporaneamente, dentro. I due personaggi sono quindi co-generatori di spazi, dal momento che attraverso la loro presenza li modificano qualificandoli: per citare G. Matteucci, essi sono in una relazione-con lo spazio [10].

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da L’eclisse di Antonioni

Tanto che, quando Vittoria visita la casa di Piero, caratterizzata da spazi sontuosi e da arredi fastosi e oscuri, avvertendo la discrepanza tra quel modo di abitare e il carattere spicciolo e diretto dell’uomo, ne resta stupita (la casa infatti era dei genitori di lui che, adattandovisi, vi abita). Ma ancor di più: è un-modo-di abitare[11], un’atmosfera di cui la donna non ha esperienza perché non le appartiene: è uno spazio non sperimentato di cui percorre, cautamente, le stanze ma in cui non si sente a casa.  È uno spazio con cui Vittoria non è in sintonia (in cui non è immersa), ma con cui si verifica una discrepanza e quindi, a maggior ragione, uno spazio che maggiormente sente [12] sia pur per contrasto, di cui deve ancora appropriarsi, imparare a sentirsi nello spazio con lo spazio attraverso le proprie isole proprio-corporee [13]: uno spazio-da-vivere che si trasformi in spazio vissuto.

La casa di Piero diviene così, gradualmente, domestica anche per Vittoria che vi passa parte delle sue giornate e, contemporaneamente allo spazio, la donna accede gradualmente anche a Piero, considerandolo come un qualis di quell’atmosfera che le si profila dinanzi e in cui si immerge lasciandosene sedurre. Tuttavia lo iato tra la donna e l’uomo è troppo forte e finisce con allontanarli l’uno dall’altra. Pur promettendosi di rivedersi domani, il giorno dopo e il giorno dopo ancora, è già in loro la consapevolezza di un inevitabile e definitivo distacco.

Ciò che accade, nell’ultimo tempo dell’azione di Antonioni, è che i due personaggi non scompaiono soltanto l’uno per l’altro, ma escono anche dallo spazio che, precedentemente, li aveva ospitati: escono-di-scena. Rimane ora un paesaggio ancora più essenziale, scialbo, che richiama le città metafisiche di De Chirico: esso è come vuoto, o meglio, le sue architetture appaiono come sospese nel vuoto, lo abbracciano e gli danno significato cooperando alla sua creazione atmosferica (infatti lo spettatore non proverebbe alcuna sensazione di vuoto qualora non vi fosse un pieno che lo esalti, per contrasto).

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da L’eclisse di Antonioni

Per astrazione dal paesaggio Vittoria e Piero scompaiono, eclissandosi; vi è una correlazione profonda, come hanno sottolineato alcuni critici e Antonioni stesso, tra l’eclisse di sole che occupa la scena finale del film e l’eclisse dei sentimenti umani, come se questi ultimi si dovessero appannare momentaneamente, fermare nel tempo. Questo vuoto di sentimenti che può sembrare, a primo impatto, soltanto metaforico, in realtà non lo è: viene piuttosto percepito proprio-corporalmente come spazio vissuto predimensionale. Scrive Griffero: «il vuoto atmosferico è piuttosto una tonalità affettiva esterna, effusa nello spazio che ci accade di incontrare proprio-corporalmente, nella forma di un loss of feeling, esattamente come se fosse una condizione metereologica»[14]. Ecco allora la corrispondenza tra loss of feeling e loss of light, tra sparizione del sentimento e sospensione della luce (data dall’eclisse) che provoca, conseguentemente, una ri-cognizione del tessuto spaziale circostante.

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da L’eclisse di Antonioni

È da notare, tuttavia, come questo insieme espressivo che caratterizza l’atmosfera dell’eclisse non si manifesti nel lungometraggio improvvisamente, ma al contrario come il regista impieghi circa dieci minuti per tessere la sua fenomenologia. Se è vero che Antonioni non pone grande attenzione alla trama, all’azione quale articolazione dei movimenti che i soggetti fanno nello spazio, è allo stesso tempo evidente come gli interessi il movimento dei fenomeni, delle qualità atmosferiche. La staticità dei suoi film può essere quindi considerata tale qualora riguardi soggetti e oggetti, più propriamente materiali discreti, definibili: cose; le sue pellicole, al contrario, si accendono di dinamismo qualora entrino in scena soggetti e oggetti immateriali, vaghi, atmosferici: quasi-cose. Ciò che ad Antonioni interessa è quindi cogliere questo movimento-mutamento di stati del fenomeno: vediamo infatti come il paesaggio de L’eclisse si astragga progressivamente in un continuum atmosferico (in cui si verifica una compaginazione sensibile dei qualia) in cui si ripetono movimenti di cose, oggetti, uomini finché tutto finisce con l’astrarsi nel buio eclissandosi e ridefinendo una nuova ri-organizzazione degli spazi atmosferici.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Saturazioni e iperspazi: Il deserto rosso

Se L’eclisse apre al tema del vuoto, Il deserto rosso (1964) potremmo dire che lo satura. L’ultimo lungometraggio del regista ferrarese problematizza il concetto fenomenologico di spazio vissuto attraverso le qualità espressive del colore. Primo lungometraggio a colori, nel quale Antonioni sperimenta molteplici possibilità narrative, Il deserto rosso ha come scenario una desolata Ravenna, fredda e autunnale, devastata dai fumi e dai rifiuti dell’industria, tanto da farla apparire uno spettro sfocato, che ricorda il colore andato della ruggine. I protagonisti sono un uomo e una donna: Ugo (Carlo Chionetti), un benestante e meschino industriale e sua moglie Giuliana (Monica Vitti), una donna fragile, depressa e tormentata, che mal si adatta al contesto relazionale del marito, caratterizzato da amicizie ambigue e ciniche. Perennemente alienata dal paesaggio umano che la circonda, la donna sembra stringere qualche legame solo con un collega del marito, l’ingegnere Corrado Zeller (Richard Harris), unico personaggio del film in cui è possibile trovare una qualche sensibilità e che sembra entrare in un’ineffabile sintonia con lei, fatta di sguardi e silenzi.

La scena iniziale de Il deserto rosso si apre con Giuliana che, tenendo per mano il figlioletto, si muove goffamente in un deserto di ciminiere e lamiere dai colori accessi e terrosi, rossastri e umidi: è autunno e c’è foschia, lei indossa un cappotto verde smeraldo che contrasta con il paesaggio circostante, qui lavora il marito e qui incontra, per la prima volta, di Corrado.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Si apre, sin dalle prime scene, un paesaggio atmosfericamente vago, che profuma di umido frammisto agli odori dei gas delle industrie immerse in un rumore opaco di rottami e pezzi che si elevano su pezzi, quasi si autogenerassero artificialmente dalle catene industriali. In questo sfondo di desolazione, si innalzano in eguale misure uomini e cose su un terreno che si modella a partire dalle presenze che lo percorrono e dagli edifici che vi sorgono: a metà tra pietra e sabbia, con le quali si collide o vi si sprofonda dentro, la terra garantisce un adattamento, un avvolgimento precario e parziale, sempre in forse rispetto ai corpi che la occupano. Si sprigiona così un’atmosfera di terrosità diffusa, potremmo dire “quasi aerea” per la sua capacità di permeabilità entro i confini del corpo-proprio,

 «ragion per cui, se la pietra è pietrosa, la terra è allora terrosa, irradia cioè, in quanto meno “cosa” della pietra, più duttile e porosa, più eteroplasmabile e meno sovratemporale, un’atmosfera anche meno antagonistica […] La comunicazione proprio-corporea che ne deriva è allora verosimilmente di tipo dialogico: appunto per la sua consistenza aperta ad ogni possibilità, la terrosità non sfida superbamente l’agente (come la pietra), ma ne sollecita dolcemente la creatività modulatrice, e lo induce a lasciarvi la propria impronta»[15].

A farci percepire l’irradiarsi di questa atmosfera, contribuisce non poco il colore, la cromia ruggine-rossastra che sembra avvolgere, spazialmente, ogni cosa: come se il colore del paesaggio si irradiasse dalla terra, terra che macchiando indelebilmente cose, oggetti e uomini, tra cui gli stessi capelli ramati di Giuliana, istituisce corrispondenze di senso, fungendo da input atmosferologico. L’elemento desertico sta proprio in questo uniformarsi cromatico del paesaggio che pare compattare la materia, sia essa naturale o artificiale, per renderla un insieme indifferenziato e arido, quasi-cosale e ibrido.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Questo ibridismo di fondo, appunto, apre all’atmosferico nella misura in cui si realizzi come mancanza di discrezione, sfondo opaco in cui si situazionano proprio-corporalmente gli uomini, in continua relazione-con gli oggetti. La densità percettiva che ne viene fuori pare fare della scena di Antonioni un dipinto astratto, sfocato e materico: qui tutto diviene ibrido, uomini e macchine delle industrie adattano reciprocamente le loro forme ri-formattandosi. Persino il bambino di Giuliana, nonostante la tenerissima età, appare già sommerso da giocattoli che richiamano i luoghi e gli oggetti dell’industria paterna: gioca con la chimica, impara ad assemblare pezzi di piccoli robot giocattolo, compagni di relazione che abitano la sua stanza. Il deserto rosso è quindi questa percezione di un’aridità di fondo che pervade tutti e tutto e che si autogenera all’infinito, spesso a partire da una macchia di colore stesa su una parete.

Giuliana tinge le pareti del suo futuro negozio di azzurro e verde perché, a detta della donna, sono colori freddi che non disturbano, semmai irradiano le proprie qualità nello spazio circostante suggerendo un senso di calma. Questo a dimostrazione di come le atmosfere muovano dall’esterno verso di noi e non al contrario e di come il soggetto manifesti una capacità ricettiva in relazione all’ambiente-mondo in cui si dà la sua mente merleaupontyanamente estesa. L’ambiente, la stanza, in questo caso, fungono da medium atmosferico, spazi interni che si aprono sugli spazi esterni del paesaggio ravennate riproducendone le discrasie.

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da Il deserto rosso di Antonioni

In questi interni Giuliana cerca di agire per contrasto, contrapponendo al rosso terroso un verde fresco e al giallo-arancio dei fumi inquinanti delle ciminiere un blu cielo, quasi si volesse completare il paesaggio, colmare i suoi vuoti, insidiare le sue crepe: da qui la scelta di questo uso complementare del colore. Potremmo quindi parlare di discrasie riportate nella misura in cui la distonia del paesaggio viene riportata dentro gli interni oppure, come abbiamo visto, in modo complementare, portando ulteriormente a saturazione un colore tenue esterno: si pensi al rosso vivo ed intenso dell’interno di una piccola e vecchia casa sul porto di Ravenna dove Giuliana, Ugo e gli amici di lui trascorrono un dissennato pomeriggio tra risa sguaiate e bicchieri di troppo.

 Alla saturazione del colore corrisponde una saturazione dei sentimenti, dell’inquietudine che, allo stesso tempo, alimenta e fa esplodere la nevrosi di Giuliana: le sue risa nervose, la paura che a bordo della nave appena attraccata al porto vi sia un malato di colera pronto a contagiarli. Il colore ruggine e ramato che si spargeva già nel paesaggio esterno insidiandolo gradualmente quasi si volesse comunicare una sottile angoscia, ora pare essere introiettato all’interno nel suo massimo grado.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Come ha sottolineato lo stesso Antonioni parlando di inquietudine dei colori, ma come già teorizzava Kandinskij ne Lo spirituale nell’arte, il rosso si caratterizza per il suo essere vivo, acceso, inquieto e quindi capace di addentrarsi nei meandri della mente. Il colore, quindi, per la sua capacità di esercitare effetti sulla psiche, per la sua capacità di irradiarsi e di creare atmosfere la cui autorità è tale da invadere lo spazio proprio-corporeo degli individui, agisce su Giuliana come atmosfera prototipica, la cui influenza è tale che da essa non si può sfuggire. A ciò si aggiunge anche una certa claustrofobia dello spazio della piccola stanza rossa e la sua relativa friabilità accentuata dalle pareti di legno fradice, il cui rosso vivo ne esalta il lento degradarsi.

L’atmosfera quasi-cosale che si genera è dunque quella di un’angoscia, porosa e umida, viva e degradante al tempo stesso, quasi come se le sue qualità fossero effuse sinesteticamente nella stanza, tanto da amplificarne anche gli odori, i suoni.

Operando un’astrazione del colore per definire i risvolti psichici che questo ha sugli uomini, è come se Antonioni estraesse parte del paesaggio traponendola in un contesto-interno umano, lasciando che contamini frammenti o ampi spazi di superfici chiuse. Quello che fenomenologicamente avviene è un’estasi, ovvero ciò che

«al contrario delle proprietà fisiche fa sì che qualcosa esca da sé e, modificando lo spazio così irradiato dia vita a un campo appunto atmosferico, in quanto tale sopravveniente rispetto alla dimensione fisico-quantitativa [16]. Conformemente al senso letterale del greco ekstasis, il termine deve indicare questo uscire da sé della cosa, intendendo così l’uscire-da-sé in senso assolutamente spaziale. È il modo e la maniera in cui una cosa esce nello spazio della propria presenza, della propria sphaera activitatis, ivi diventando percettivamente presente» [17].

In questo senso estrazione ed astrazione coincidono nel loro senso più propriamente originario: quello di trarre-da, trarre via una parte da un contesto. Questa estrazione, tuttavia, ne Il deserto rosso non avviene in modo nitido e definito, ma quasi per macchie, quasi si volesse sporcare una superfice di una qualità prelevata. L’uso estetico della macula allude proprio a una contaminazione, a una pennellata informale che il regista preleva dallo spazio circostante collocandola in forma di riporto in un secondo paesaggio, genericamente chiuso, a volte claustrofobico e squallido come quello della casa sul porto o della fabbrica.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Se nei precedenti lungometraggi della teatralogia si trovano già tanti accenni alla discrasia o all’amalgama tra uomo e paesaggio urbano o naturale che fosse, qui il tutto si fa sempre più tangibilmente profondo. L’uso del colore permette infatti di toccare otticamente il rapporto tra interno-esterno, uomo-natura, uomo-spazio, consente cioè una più profonda spazializzazione, una ridefinizione degli ambienti e delle qualità ad essi connesse. Ne deriva, perciò, anche una maggiore pregnanza atmosferica di fondo, non tanto perché i tentativi precedenti fossero privi di atmosfere, quanto piuttosto per la maggiore facilità di afferrarle grazie alle qualità estatiche del colore. Assistiamo inoltre, sempre rispetto ai lungometraggi precedenti, a una problematizzazione del concetto di atmosfera.

Se ne L’avventura, ne L’eclisse e ne La notte vi era comunque una sintonia di fondo tra uomini e sentimenti effusi nello spazio, ne Il deserto rosso è in atto una soggettivazione dell’atmosferico: come spiegare altrimenti la percezione che delle cose ha Giuliana, con il suo sguardo nevrotico sul mondo e che invece è assente negli altri personaggi? Quando la donna, svegliandosi nella notte, è cosparsa da brividi e sente un’atmosfera di paura e angoscia, questa è veramente tale o è relativa soltanto al soggetto che la esperisce? Potremmo rispondere, considerata la lezione neofenomenologica, che le atmosfere con i loro qualia agiscono in maniera diversa a seconda delle capacità ricettive del soggetto. Il fatto che vi sia un’atmosfera d’angoscia esterna al soggetto ed effusa nell’ambiente circostante è, dunque, sempre vero: sta al soggetto poi filtrare il patico attraverso le sue isole proprio-corporee e introiettarlo.

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da Il deserto rosso di Antonioni

Riprendendo la distinzione citata da Griffero, nel caso di Giuliana un’atmosfera prototipica l’assale rendendole impossibile ogni resistenza: siamo qui in presenza di un filtraggio netto accentuato da una patologia psichica. Giuliana vive come una disadattata in un ambiente che sente atmosfericamente ma che non comprende: «c’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice», lei afferma rivolgendosi a Corrado.

Il senso di angoscia che la invade la aliena [18] dal paesaggio umano in cui vive perché tende a differenziarsene, non riuscendo a mescolarsi con lo squallore e il cinismo del gruppo di amici del marito e, allo stesso tempo, con quello del paesaggio artificiale, altrettanto squallido, dell’industria. Al contrario, Ugo e gli altri sembrano non accorgersi dell’atmosfera che li circonda dal momento che loro stessi contribuiscono a crearla, essendo parte di un paesaggio i cui confini naturali e artificiali sono ormai sfocati. Gli altri non sentono l’angoscia perché sono in sintonia con essa: sono immersi in quella che Griffero chiama atmosfera sintonica, che è tanto familiare al nostro modo d’essere da non riuscirne a carpirne la forma.

Giuliana scappa da una relazione che non vuole intraprendere: quella tra lei e l’atmosfera circostante, ma in questo suo fuggire da un non identificato sentimento angoscioso, finisce con il con-fondersi con la quasi-cosa nebbia non riuscendo a tesservi nessun rapporto appunto, nessuna forma di adattamento. Lo spazio della quasi-cosa angoscia con la sua peculiare atmosfera, in questa scena del lungometraggio, trova così espressione, nel senso che si esprime a partire da e nello spazio della quasi-cosa nebbia: possiamo parlare in questo caso di sub-atmosfera, non in un senso gerarchico (nel senso che un’atmosfera è più importante, predomina sull’altra) quanto in un senso strettamente generativo-sequenziale. La nebbia si configura dunque come spazio di origine nella misura in cui è condizione, è input dello spazio dell’angoscia e quest’ultima vi sta sotto (sub) senza scarto d’attesa, ma sprigionandosi conseguentemente alla prima con un movimento sincronico e non sequenziale.

Potremmo quindi dire che la quasi-cosa angoscia è una sub-atmosfera nella misura in cui la quasi-cosa nebbia sia funzionale all’irradiarsi della precedente. Prova ulteriore di questa mancanza di adeguamento all’ambiente, in cui Giuliana vive, è la fiaba che lei racconta al figlioletto, fiaba in cui è presente una bambina che vive tutta sola in un’isola paradisiaca della Sardegna che, fungendo da eterotopia, produce un contrasto netto con i luoghi in cui la donna e il bambino vivono: qui vi è assenza di nebbie con le conseguenti angosce che esse apportano.

Altro personaggio che mal si amalgama al paesaggio circostante è l’ingegnere Corrado che preferisce piuttosto fuggire e riformulare la propria vita in Patagonia. Segretamente attratto da Giuliana, i due finiscono per avere un’avventura erotica alla vigilia della partenza di lui. La donna accede alla stanza d’hotel in cui l’uomo alloggia: qui le pareti della stanza, gli oggetti che la compongono, tutto sembra colorarsi di tonalità atmosferiche cangianti nel tempo: verdi, viola, rosa… creando un effetto di perturbante squilibrio che si riflette anche su Giuliana: «ho paura delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto» dice cercando consolazione tra le braccia di Corrado. Ma è proprio il colore che con le sue proprietà estatiche ora la prevarica con la sua autorità (e a cui lei non può sottrarsi) che contribuisce a creare una certa interoggettività espressiva:

«l’essere blu di un oggetto, ad esempio, lo specifica espressivamente proprio in quanto tonalizza o tinge al tempo stesso tutte le altre cose donando a un luogo una sorta di interoggettività espressiva. […][19] La prima cosa da notare è che i colori come estasi modificano lo spazio nella sua interezza. Proprio perché essi non sono proprietà delle cose, neppure sono spazialmente circoscritti al luogo in cui si trova la cosa, irradiandosi piuttosto in tutto lo spazio» [20].
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da Il deserto rosso di Antonioni

Proprio come scrive Böhme, il colore nella scena della camera da letto di Corrado tonalizza simultaneamente tutte le cose presenti, stendendovisi sopra come nebbia provvista di cromie cangianti nel tempo: da qui la sua natura quasi-cosale che si pone come un tra inter-oggettivo. Queste, potremmo dire, qualità-ponte del colore, che lo rendono non solo atmosferico ma generatore di atmosfere, comportano un certo olismo di fondo: tutto si propaga con e nel colore. Se nelle scene precedenti abbiamo visto come il colore si estraesse dal paesaggio per macchiare gli interni e gli oggetti che li componevano, assistiamo ora a una specie di continuità spaziale della macchia, che ora contamina tutto con la proprio scia estesa. Ne consegue una maggiore carica atmosferica, che giunge a saturazione espandendosi dallo spazio-vissuto al corpo-proprio.

Dal colore poi si irradia una seconda atmosfera, quale fosse una sub-atmosfera non meno autorevole quanto, piuttosto, solo conseguente alla prima: quella del dolore che pervade la stanza in maniera anche qui olistica e totalizzante: «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca» dice Giuliana disperata a Corrado, come se il dolore si spargesse su tutto il suo corpo-proprio. L’atmosfera del dolore, in questo caso, produce una sorta di movimento interno contribuendo alla genesi del soggetto, alla sua storia: attraverso il patico si giunge a una continua ri-definizione dell’individuo.

«La presenza quasi-cosale (del dolore) contribuisce, allora, alla genesi del soggetto. In specie, poi, se fosse vero che «la costituzione dell’io non si realizza ontogeneticamente nello stadio dello specchio o nelle relazioni di riconoscimento» – momenti precari – «ma piuttosto nelle primarie esperienze negative del dolore e della malattia, dei rifiuti e del divieto […] Come esperienza dell’autodatità colpita, ossia come certezza che la cosa riguarda me», il dolore può sicuramente essere considerato, per dirla con Adorno, «memoria della natura del soggetto»: un’esperienza patico affettiva che è sempre-mia e che solo in un secondo tempo, ontologizzata ed esteriorizzata nella dimensione di terza persona, si trasforma nell’avere dolori» [21].

La memoria del dolore ricostruisce anche fatti, luoghi, esperienze: la quasi-cosa dolore è quindi l’esperienza-del-dolore che Giuliana ha fatto (tentando in passato il suicidio) e che ora fa nella stanza e con Corrado: una genesi diagetica di un sentimento che si protrae nel tempo e nello spazio.

finale

da Il deserto rosso di Antonioni

Anche qui assistiamo a quelli che ne L’eclisse abbiamo descritto come movimenti di fenomeni colti dalla cinepresa del regista. La differenza rispetto al film precedente consiste nel fatto che Antonioni coglie il movimento dei fenomeni che si esplica in variazioni di stati metamorfici, la cui pregnanza risiede però nella loro storia di oggetti. Si pensi infatti alla routine che continua a caratterizzare il paesaggio de L’eclisse anche dopo la scomparsa dei suoi protagonisti (il movimento del legnetto galleggiante nel pozzo che si ripete accompagnato da quello dell’acqua che scorre, i colori dei semafori che si susseguono meccanicamente nel trascorrere della sera, i bus urbani che percorrono il medesimo tragitto, etc.) Ciò implica una fenomenologia del dato storico, seppure con minime variazioni diacroniche, che non è propria invece de Il deserto rosso in cui il movimento dello stato dei fenomeni è dato, piuttosto, da variazioni di stati tonali, la cui pregnanza si esprime attraverso le qualità del colore.

Nel finale de L’eclisse potremmo dire che si insinuano dei meccanismi interni che comportano un certo meccanicismo fenomenologico: sequenze seguono altre sequenze che si ripetono in un medesimo spazio tonale fino a essere, improvvisamente, cancellate dall’eclisse di sole. Ne Il deserto rosso, invece, il colore si espande e si contrae secondo un ritmo proprio nello spazio, mettendo-in-scena una certa acronia di fondo. Tuttavia lo spettatore non sente questa esigenza di temporalità scandita che aiuti a comprendere queste variazioni di stati fenomenici dal momento che il colore la soppianta, ridefinendo una percezione qualitativamente diversa che si esplica secondo una sua logica interna a cui soltanto i sensi possono accedere: una logica patica potremmo dire.

Ed è proprio un guizzo di colore a chiudere la scena finale che vede il bambino di Giuliana mentre osserva il fumo di una ciminiera chiedere: “perché quel fumo è giallo?” alla madre che risponde “perché c’è il veleno”. “Ma allora se l’uccellino passa lì in mezzo muore” ribatte il bambino e la madre ancora: “Ormai gli uccellini lo sanno, non ci passano più”, segno di una continua relazione mutevole tra esseri viventi e ambiente che si ri-definisce continuamente nel tempo e nello spazio [22].

 Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] A tal proposito si guardi Atmosfere messe-in-scena: per una rilettura de L’avventura e de La notte di Antonioni in “Dialoghi Mediterranei”, n. 44, Luglio 2020.
[2]  Si ci riferisce qui, in particolare, al concetto di atmosfera dal punto di vista neofenomenologico: le atmosfere sono i sentimenti effusi nello spazio circostante, con le quasi-cose da cui sono costituite ed espresse. Si legga a tale proposito Schmitz, Nuova Fenomenologia, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011; T. Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari, 2010; T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano, 2013; T. Griffero, Il pensiero dei sensi, Atmosfere ed estetica patica, Guerini e associati, Milano, 2016; G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2010.
[3] T. Griffero, Il pensiero dei sensi, atmosfere ed estetica patica, cit.: 181.
[4] J. Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Mondadori, Milano, 2000: 255.
[5] M. Wigley, The architecture of Atmophere, «Daidalos», 68, 1998: 20, 27.
[6] A. Hahn, Erlebnis Landshaft und das Erzeugen von Atmosphären, in A. Hahn (Hg.), Erlebnislandshaft-Erlebnis Landschaft?, cit:79.
[7] P. Zumthor, Atmosphären, Architektonische Ungebungen. Die Dinge und mich herum, Birkhäuser, Basel-Boston- Berlin 2006: 13, 17.
[8] T. Griffero, Architectural Affordances: the Atmospheric Autority of Spaces, in Philip Tidwell (a cura di), Architecture and atmosphere, Tapio Wirkkala-Rut Bryk Foundation, Espoo 2014: 15-47.
[9] T. Griffero, Architectural Affordances: The Atmospheric Autority of Spaces, cit.: 8.
[10] A tal proposito si veda la differenza tra “esperienza-con” ed “esperienza-di” dal punto di vista fenomenologico, illustrata da G. Matteucci in Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019.
[11] «Abitare è una forma di cultura-coltivazione dei sentimenti entro uno spazio che è recintato, e quindi (in senso lato) sacro», Griffero, Il pensiero dei sensi, cit.:192.
[12] Si veda il concetto di atmosfere sintoniche, prototipiche, antagoniste, contenuto sempre in T. Griffero, Architectural Affordances: the Atmospheric Autority of Spaces, cit.
[13] Si veda Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, cit.: 30-31: «Il corpo fisico (Körper) è stabile esteso, dotato di una superficie e divisibile in parti occupanti uno spazio locale relativo, quindi un legittimo oggetto delle scienze naturali (anatomia in primis), il corpo proprio (Leib) è viceversa privo di superfici e occupa un luogo ‘assoluto’ e non geometrico, è capace di autoauscultarsi senza mediazioni organiche e, siccome eccede il contorno cutaneo, solo occasionalmente coincide con il corpo fisico. Manifesto della sfera affettiva e, in modo totalmente diverso dal corpo fisico, secondo un ritmo polarizzato (contrazione o angustia/espansione o vastità) i cui estremi, entrambi incoscienti, sono il terrore paralizzante (incorporazione) e il rilassamento totale (decorporizzazione), esso si articola non in parti discrete, ma ‘in isole proprio corporee’».
[14] T. Griffero, Il pensiero dei sensi, cit.: 68-69.
[15] Ivi: 79-80.
[16] T. Griffero, Fisiognomica emozionale, affordances, estasi, atmosfere, Lebenswelt, 6 (2015): 67-68.
[17] G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2010: 193.
[18] Relativamente al sentimento d’angoscia quale spazio alienante che produce spaesamento si ricordi Heidegger in Essere e tempo, ed. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 2006: 230-231: «nell’angoscia ci si sente “spaesati”. Qui trova espressione innanzi tutto l’indeterminatezza tipica di ciò dinanzi a cui L’Esserci si sente nell’angoscia: il nulla e l’in-nessun-luogo. Ma sentirsi spaesato significa, nel contempo, non-sentirsi-a-casa-propria […] A null’altro si allude quando si parla di “spaesamento”».
[19] T. Griffero, citando Böhme e Pinotti in Fisiognomica emozionale, affordances, estasi, atmosfere, Lebenswelt, 6, cit: 68.
[20] Ivi: 204.
[21] T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, cit: 83.
[22] A tal proposito si legga Dewey in Arte come esperienza, trad. di G. Matteucci, Aesthetica, Palermo, 2018: 43: «l’essere vivente ricorsivamente smarrisce e ristabilisce l’equilibrio con il suo ambiente circostante. […] L’armonia interna si raggiunge solo quando si scende in qualche modo a patti con l’ambiente […] Nel processo del vivere il raggiungimento di un periodo di equilibrio è al tempo stesso l’avvio di una nuova relazione con l’ambiente, che porta con sé il potenziale di nuovi adattamenti da realizzare lottando»

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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia online: www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.com, www.corleonedialogos.it.

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