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EDITORIALE

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Vico Equense (ph. Giuseppe Carotenuto)

Mentre scriviamo i dati sul contagio tornano lentamente a salire, nell’opinione pubblica crescono paure e rimozioni, nel dibattito politico si agitano speculazioni e retoriche. Nulla sembra essere cambiato alla fine di un’estate anomala e all’incedere di un autunno assai incerto. Il virus invisibile e mobile scavalca trincee e confini ma, a guardar bene, circola dentro di noi, non fuori. È il virus dei nostri ragionevoli sospetti, delle nostre ansie e delle nostre insicurezze. Ma è anche il virus delle fobie primitive e dei rancori lungamente incubati, delle pulsioni individuali incontrollate e degli odi sociali scientificamente alimentati. Più potente del Covid, è il pervasivo e non meno invisibile contagio delle intolleranze culturali, più virale del virus la ricerca nevrotica del capro espiatorio, la gogna plebea del presunto untore. Non esiste vaccino che sia efficace e sicuro antidoto a questa patologia. Nulla è più nefasto e rovinoso del cortocircuito che connette migranti e virus, immigrazione ed epidemia, la presunta “invasione dei clandestini” e la temuta nuova “ondata” di focolai. Un intreccio perverso, una deflagrante commistione di perturbanti suggestioni che risale dalle oscure e orrifiche profondità della storia non meno che dalle ancor più remote prescrizioni religiose che associano contaminazione e colpa.

Nel Paese della Storia della colonna infame «il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni». Nell’Italia che fabbrica irregolari per l’inasprimento della normativa sul diritto d’asilo, l’abolizione della protezione umanitaria e le deficienze strutturali del sistema di accoglienza, il migrante – tanto più profugo confinato in luoghi congestionati – è destinato ad incarnare la figura dello straniero untore, perfetto coagulo delle paranoie collettive e del teppismo politico. Basterà poco perché, contro ogni principio di realtà e a disprezzo di ogni verità, sulla condizione di marginalità sociale si costruisca la tela dell’infamante accusa del contagio, «come que’ ragni, che attaccano i capi del loro filo a qualcosa di solido, e poi lavoran per aria», per usare ancora le parole di Alessandro Manzoni, che conosceva a fondo l’antropologia delle dicerie, le inquietanti dinamiche della macchina giudiziaria, la cecità della giustizia sommaria, quando «la coscienza si confonde, rifugge, vorrebbe dichiararsi incompetente», e mischia verità e menzogna, buon senso e senso comune.

A pensarci bene, c’è da chiedersi che differenza ci sia tra quei giudici della Colonna infame del XVII secolo e chi come il presidente della Regione siciliana ha proclamato pochi giorni fa il divieto di ingresso, transito e sosta nel territorio dell’Isola per ogni migrante che raggiunga le nostre coste.  Un ultimatum che nella comica suggestione delle grida manzoniane ordina il trasferimento immediato fuori della regione di tutti i profughi presenti negli hotspot e nei centri d’accoglienza. Un’intimazione che nella sua demagogia ha tuttavia l’obiettivo politico di esorcizzare le paure del virus indicando nei migranti i colpevoli dei focolai epidemici, gli appestati da allontanare per salvaguardare l’integrità e la salute dei cittadini siciliani. Una strategia che nel legittimare sentimenti e comportamenti xenofobi tende a rassicurare dall’interno le comunità spingendole al disprezzo e alla discriminazione contro chi rappresenta una minaccia esterna, contro gli stranieri che vengono dal mare. Non i croceristi, certo, ma i profughi che sbarcano in Sicilia quando non sono naufragati nel Mediterraneo: secondo quanto denuncia Alarm Phone, quattro stragi in meno di una settimana, più di 100 morti e altre 160 persone sparite dopo aver preso il largo.

Nella guerra che si è aperta tra le regioni e lo Stato, il virus che è banco di prova senza appello non ha il potere di raddrizzare “il legno storto” delle nostre contraddizioni, dei nostri difetti, delle nostre storiche debolezze riguardo alla tenuta sociale e alla coesione nazionale. Per quanto non siano mancati episodi di solidarietà e di condivisione, sembra piuttosto innescare disgregazioni e contrapposizioni nel corpo della collettività già prostrata dalla crisi. Tende a separare il diritto alla libertà individuale e quello alla salute pubblica, le nuove generazioni da quelle più anziane, le popolazioni del nord da quelle del sud del Paese. Fino ad inventare l’assurdo e schizofrenico conflitto tra chi è vittima dell’isteria e del panico di essere contagiato e chi nega pubblicamente e con l’insolenza della provocazione mediatica l’esistenza del rischio. Dalla rimozione alla irrisione il passo – come è noto – è breve e spesso accompagnato dai teoremi sovranisti del complotto che preparerebbe la temuta sostituzione etnica di massa. In mezzo, senza diritti e senza difese, i migranti sono al centro di estenuanti propagande elettorali, monatti di un immaginario lazzaretto, fantasmi plasmati ed agitati dalla psicosi da contagio e dalla più becera speculazione. Nella società chiusa, vecchia e malata investita dalla pandemia non c’è spazio per ripensare la politica dell’immigrazione, per liberarla dalle narrazioni emergenziali, per riscrivere finalmente la legge sulla cittadinanza, per progettare percorsi di integrazione, di inclusione, di ripopolamento demografico, di «soluzione di problemi economici (segnatamente l’invecchiamento della forza lavorativa e la crescente difficoltà a reggere in prospettiva il carico pensionistico) per una strategia che preveda ingressi mirati di forze giovani, come fanno altri Paesi al mondo». Così scrive in questo numero Aldo Aledda, che opportunamente connette il fenomeno dell’immigrazione straniera con quello dell’emigrazione dei nostri giovani, a cui stiamo lasciando «un Paese con un debito pubblico che graverà sulla loro generazione e quelle successive come un macigno».

Dialoghi antivirus raccoglie gli scritti che con approcci diversi descrivono, raccontano, analizzano l’impatto della pandemia su realtà umane e territoriali già vulnerabili, le metamorfosi nelle abitudini e negli atteggiamenti culturali, i riti inventati o rinnovati «che in emergenza ci hanno aiutato ad affrontare l’incertezza» (Gugg), le memorie storiche e letterarie, da «Boccaccio e l’onesta brigata» (Cappozzo) al «flit di Bosa» (Bertinotti). Quanta rilevante funzione abbiano i simboli in contesti di crisi esistenziale è riflessione che non può non chiamare in causa l’antropologia e il suo ruolo. Pietro Vereni si interroga sulla «crescente emarginazione nel dibattito pubblico della disciplina», sulla sua «crisi morale» riconducibile al fatto che «molti di noi non credono più (o, per i più giovani, non hanno mai creduto) alla rilevanza costitutiva del piano simbolico e danno la precedenza (nell’analisi e nella spiegazione) a fattori di ordine politico-economico». Nella difficile e complessa convivenza con il virus all’antropologo si chiede prima di tutto «un serio lavoro di cura» da svolgere nei luoghi dei servizi pubblici, nelle scuole come nelle aziende sanitarie locali, nei centri di salute mentale, nei quartieri come negli oratori per insegnare, ad esempio, che «il distanziamento sociale non è una pedagogia del sospetto ma un esercizio per imparare a prendersi cura dell’altro».

Dalle pagine del libro dell’antropologo Vito Teti, Prevedere l’imprevedibile, che ragiona sugli effetti della pandemia nella decostruzione dei nostri concetti di «casa, paese, città, spazio, tempo, relazioni, corpo», Dario Inglese trae lo spunto per attribuire la rimozione della catastrofe dal novero dei problemi dell’uomo contemporaneo al «frutto dell’ambiguo e incestuoso matrimonio tra antropocentrismo ed etnocentrismo che tende a marginalizzare l’alterità e a far coincidere in maniera sospetta l’anthropos con un determinato tipo di homo occidentalis». In conclusione, nel nuovo mondo post covid Inglese con Teti ipotizza che «l’etica della responsabilità cui saranno chiamati gli esseri umani potrebbe essere il discrimine fra la salvezza e il collasso».

La lettura in chiave antropologica dei contributi proposti nella rassegna “Il centro in periferia” offre altre e non meno interessanti riflessioni sulle esperienze locali che l’epidemia ha comunque attivato, tra resistenze, attardamenti e innovazioni, nelle diverse aree interne del Paese. Nel presentarle e spiegarne le dinamiche, Pietro Clemente assimila il Covid 19 alla «dialettica del negativo nella filosofia tedesca dei tempi di Fichte e di Hegel. L’ostacolo che si oppone allo spirito umano ma attraverso il quale esso realizza il superamento di una vecchia identità e la costruzione di una nuova». Nell’assemblare le diverse e minute vicende – i progetti realizzati e quelli sospesi, le iniziative teatrali di Monticchiello e quelle orticole di Niguarda Milano, le feste estive senza pubblico e pure creative in Sardegna e in Molise, l’operosità dei piccoli musei etnografici, presìdi di memorie e virtù civiche, come quelli piemontesi – lo sguardo dell’antropologo restituisce ancora una volta il quadro screziato ed eterogeneo di un’Italia marginale e fragile ma niente affatto moribonda, «sorprendentemente viva e innovativa», come ha scritto Rossano Pazzagli. Tanto più che la diaspora pandemica che ha favorito le numerose storie di ritorno ai luoghi di origine del Mezzogiorno sembra aver rilanciato il dibattito sulla coesione territoriale attorno a nuovi modelli dell’abitare e del riabitare l’Italia.

Sul tema delle mascherine quanto mai attuale nelle cronache di questi giorni Dialoghi Mediterranei ha messo insieme in questo numero sei fotografi chiamati a scrivere e ad illustrare usi e posture. Non c’è forse oggetto più significativo dello spirito del nostro tempo, simbolo di costrizione e di protezione, feticcio e protesi, schermo di un viso da riparare e dissimulare, di un corpo da sottrarre alla vulnerabilità del contatto fisico. Soffoca il fiato e appanna gli occhiali, distorce la voce e cela la smorfia o il sorriso, cancella le emozioni e ogni segno della micromimica facciale. La mascherina è tuttavia un’icona che proprio nel mistero di ciò che occulta esalta la bellezza degli occhi, il profilo segreto della nostra più intima identità: «è diventata la cornice del nostro sguardo, un pezzo della battaglia per riprenderci le nostre vite» (Di Donato), «ha tutti colori dell’arcobaleno, un’esplosione pirotecnica, un esorcismo dipinto contro l’angoscia» (Giaramidaro), «la creatività nella scelta e nell’impiego ha modificato il nostro modo di vivere la giornata» (Pillitteri).

Le immagini documentano le diverse interpretazioni che i fotografi hanno dato all’oggetto di osservazione nonché le differenti risposte che alla stessa esigenza danno uomini e donne incontrati per strada, al bar o al bus, a New York come a Palermo. Calata, scivolata o appoggiata, inanellata al polso o appesa al lobo dell’orecchio, quando non è sulla bocca e sul naso, la mascherina per alcuni è un accessorio modaiolo, vezzoso o sbarazzino, in abbinamento cromatico con gli orecchini o con gli occhiali da sole, per altri può perfino essere sospesa come portaoggetti allo specchietto retrovisore dell’auto. Nella prossemica che la pandemia ha alterato l’uso di questo dispositivo tecnico di protezione si piega a soluzioni formali ed estetiche, ad espressioni plastiche, a vere e proprie iniziazioni rituali, potremmo forse dire con Lévi Strauss, ovvero a un bricolage polifunzionale, ad un “saper fare” che mette in gioco inventiva, fantasia, stile, arte dell’arrangiarsi. Insomma, la mascherina come resilienza, come sfida culturale alla violenza della limitazione.

«La capacità di riconoscere nel riflesso degli occhi dell’altro l’ombra della nostra stessa figura è la più forte leva per un vigoroso sviluppo della conoscenza». Nell’incipit del suo contributo Valeria Dell’Orzo muove dall’attualità di quanto sta accadendo intorno e in nome del movimento Black Lives Matter per ripensare al valore dei simboli, «all’immagine d’insieme di tante città, al messaggio che nel mutismo della pietra o dell’impressione di un nome lungo una via si continua a diffondere». E sul patrimonio materiale della memoria, «costruito culturalmente attraverso pratiche di governance, leggi, stakeholder pubblici e privati ecc.», Nicola Martellozzo ci invita ad un approfondimento critico che colloca il gesto dell’abbattimento delle statue in un contesto ben più ampio del semplice fenomeno iconoclasta o vandalico e in una più attenta e corretta dimensione storica e antropologica. Fino a concludere provocatoriamente la sua riflessione con la proposta di lasciare le opere danneggiate nelle piazze e nelle strade, senza alcun restauro o trasferimento in ambienti museali, così da «far spiccare questi monumenti, togliendoli dall’anonimato dello sfondo urbano, mantenendo attivo il dibattito pubblico. La dissonanza non viene risolta, ma portata (letteralmente) in superficie sfruttando il carattere ostensivo del monumento; nel contempo la distruzione parziale, come “oltraggio” simbolico, rende più ardue possibili valorizzazioni celebrative».

La dissonanza di cui scrive Martellozzo era una delle cifre identitarie della poetica di Pietro Consagra, artista a cui Dialoghi Mediterranei dedica anche in questo numero, a cento anni dalla nascita, l’attenzione di altri studiosi e storici dell’arte. Nell’equilibrio e nell’armonia tra materie e linguaggi diversi lo scultore si faceva architetto e costruttore di città, progettista e precursore di nuovi modi di produrre segni «disposti in un ordine preciso, ciascuno dei quali rappresenta la componente di un vocabolario formale semplice ma essenziale con il quale trasmettere messaggi», osserva Giuseppe Appella; rivoluzionando l’alfabeto della tridimensionalità, «reinventandone il centro, azzerandone i volumi, riscrivendo il rapporto tra oggetto e soggetto», annota Paola Nicita; inaugurando la “scenascultura” «a conferma della vocazione scenografica del suo progettare, ampiamente riscontrabile in buona parte della sua produzione artistica», puntualizza Giovanni Isgrò, un modo teatrale di interpretare lo spazio urbano cui erano destinate le sue opere. Francesca Corrao ricostruisce infine sul filo delle memorie familiari il profilo umano e intellettuale di Pietro Consagra: un ritratto affettuoso della sua «idea di arte totale», ispirata ad «un umanesimo che mette al centro l’essere umano e la bellezza dell’arte».

A chi voglia leggere di letteratura o di filosofia, di musica o di religione, di cultura popolare orale e materiale Dialoghi Mediterranei offre come sempre un’ampia rassegna di recensioni, di studi e di ricerche. Chi voglia capire qualcosa di più della mafia e della sua antropologia si legga l’intervista ad Attilio Bolzoni a cura di Antonio Ortoleva. Chi ama il cinema può incontrare Michelangelo Antonioni e Franco Rosi nelle originali e rispettive interpretazioni di Clarissa Arvizzigno e Flavia Schiavo. Chi desidera entrare nel tempio di Santa Sofia per scoprirne bellezza e trascendenza si lasci accompagnare da Leo Di Simone nella sua visita a questa basilica di Istanbul densa di stratificazioni storiche e culturali, a cui sarebbe stato più opportuno lasciare «lo statuto di soglia dello spirito». Chi ha voglia di rivedere Ignazio Buttitta, la sua faccia scolpita nel legno, i pugni levati teatralmente ancora in aria nell’atto di declamare i versi, gli occhi innamorati della vita, e su di lui la dolcissima e amorevole carezza della moglie Angelina, guardi le inedite e intense foto di Nino Privitera che commentano il testo dell’incontro nel 1981 di Sebastiano Burgaretta con il poeta nella sua casa di Aspra. Chi infine vuole approfondire il pervasivo fenomeno della corruzione, il delicato ruolo della magistratura e lo stato di salute dei diritti umani nel mondo può trovare documentazione e strumenti di indagine nel saggio di Paola Barbuzzi. Oppure può intraprendere l’originale percorso logico-metodologico tra filosofia e geometria, suggerito da Olimpia Niglio nell’argomentazione del «tema dei diritti umani strettamente connesso a quello delle Politiche Culturali che i singoli Stati membri dell’ONU devono applicare all’interno delle singole nazioni».

Dei tanti diritti calpestati e cancellati, mentre ci accingiamo a mandare in rete questo nuovo numero, la cronaca non cessa di raccontare e di denunciare l’indifferenza e la cecità di istituzioni, poteri e collettività, costretti nella morsa dell’epidemia e ancor più stretti nella soffocante angustia dei sovranismi e dei populismi. Quando il Covid 19 sarà debellato, dovremo incominciare a riconoscere e a combattere il virus che sta in mezzo a noi, dentro di noi. Quello che ci impedisce di rispettare la dimensione solidale della libertà individuale, di imparare la sfida dell’accoglienza e della convivenza in un mondo sempre più interconnesso nella rete dei contatti, delle contaminazioni e degli scambi. Parafrasando l’interrogativo che si poneva l’imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar, potremmo chiederci a che vale l’ordine alle frontiere se non riusciamo a convincere «quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente».

Mentre il presidente della Regione Sicilia è impegnato nella strenua e appassionata protezione dei siciliani dal contagio dei detestati clandestini, un ennesimo appello di aiuto attende di essere raccolto al largo di Lampedusa: è la Louise Michel dell’artista inglese Banksy con a bordo quasi duecento migranti strappati al naufragio. Nulla di nuovo accade nelle acque del Mediterraneo. Nulla sembra essere destinato a cambiare. Nella coazione a ripetere di egoismi nazionali ed inerzie internazionali non resta che la replica di un muto e  drammatico fermo immagine.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
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