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Accordo e disaccordo: l’antropologia e l’arte della controversia

ph. M. Carlotti

ph. M. Carlotti

 di Marcello Carlotti

Oggi più che mai, forse, fra i compiti dell’antropologia sembrerebbe rientrare quello di interrogarsi sulle controversie, analizzando attraverso questa prospettiva la costruzione posizionata e dialettica del suo sapere e discorrere, ed il «chi, come, quando e perché» gli antropologi, spesso anche a loro insaputa, entrino, in qualità di scienziati, intellettuali e «cittadini del mondo» [1], nelle dispute culturali, identitarie, politiche o, anche solo, del senso comune. Di fatto, interrogarsi su controversie, antropologi, voci, presenze, silenzi ed assenze dovrebbe significare riflettere criticamente sia sui «saperi d’una pratica» che sulle «pratiche di un sapere». Abbastanza conscio, spero, della difficoltà di una simile riflessione critica, mi sforzerò di comprendere e, se possibile, mostrare in che modo il «sapere degli antropologi» e i molteplici prodotti delle loro pratiche innervano, a più livelli, la vita quotidiana e le categorie del pensiero, producendo spesso effetti ed implicazioni che vanno ben oltre le aspettative e l’immaginazione degli stessi ricercatori.

Per raggiungere il mio obiettivo, proverò a seguire due strade: una concettuale e una esemplificativa. Seguendo la direttrice concettuale, mi sforzerò pertanto di articolare la questione delle controversie (accordo-e-disaccordo) scomponendola in una prospettiva di metalivelli. D’altro canto, percorrendo il sentiero esemplificativo,cercherò di illustrare la mia proposta con l’ausilio di quattro casi concreti. Infine, azzarderò una sintesi delle due prospettive, mostrando come la realtà superi sempre la nostra capacità abduttiva, e quindi come gli effetti delle nostre azioni (azioni di cui siamo sempre, in certo qual modo, responsabili) sopravanzino la nostra capacità e/o volontà di prevederne le reali conseguenze.

Devo, tuttavia, chiarire fin d’ora che la mia unica intenzione è contribuire alla conversazione su quest’ampio ventaglio di scottanti  tematiche – ventaglio, che in nessun momento e da nessuno mai, ritengo possa venir chiuso e messo da parte. In un recente lavoro [2], il filosofo, epistemologo ed esperto di controversie Marcelo Dascal ci offre alcuni fondamentali strumenti concettuali utili per riflettere sulle tematiche che, limitatamente all’ambito etno-antropologico, prenderemo qui in esame. Introducendo il suo breve saggio, Dascal scrive:

«Il sapere – in particolare quello scientifico, ma non solamente – si costruisce e cresce grazie ad un lavoro collettivo che si realizza a diversi livelli, che comprendono le équipe di ricerca e i laboratori, le riviste, i convegni ed altri mezzi di contatto tra gli scienziati, il giudizio delle agenzie di finanziamento sui progetti di ricerca, la divulgazione pubblica della ricerca, ecc. Di solito si enfatizza il carattere cooperativo della costruzione collettiva del sapere, ma non meno importante che la cooperazione – anzi, forse proprio la condizione necessaria della sua possibilità – è il confronto critico tra approcci, progetti, metodologie, obiettivi, discipline, teorie, e tra i singoli scienziati e gruppi di scienziati. In questo articolo considero la critica e la controversia il motore del progresso del sapere […]. Il sapere scientifico è un sapere “collettivo”. Ma cosa significa “collettivo”?»

Un primo modo per provare a circoscrivere le problematiche sollevate da questo passo, potrebbe essere quello di considerare il rapporto cognitivo con la verità alla stregua di un limite tendente all’infinito; la pratica di produrre sapere per ricercarla un asintoto mai neutro frutto della collaborazione (positiva, competitiva, critica, ecc.) di tutti; e le critiche – forse più quelle positive e simmetriche di chi le pone allo scopo di comprendere e comprendersi meglio, che quelle fini a sé stesse, o quelle paternalistiche di quelli convinti di possedere a priori ragione e verità, bontà e giustizia – delle curve antifragili [3] da cui è bene che la conoscenza di ciascuno esca sempre almeno parzialmente ammaccata.

Essendo animato dalla convinzione che il sapere è un co-prodotto mai neutro dell’attività degli individui in e verso la collettività, e dell’attività della collettività in e sui singoli, rilancio con alcune contro-domande:

a) Il sapere può mai essere esclusivamente individuale?

b) Cosa significa “individuale”?

c) Cosa “sapere”?

d) E quali le attività, le implicazioni e i limiti di un tale “meccanismo”?

Facciamo, ora, un piccolo salto.

«Non è dunque assurdo sostenere che diverse distinzioni, e gli oggetti costruiti in base a esse, nonostante la loro apparente obiettività, esistano in effetti solo finché sono pensate e siano quindi, a rigor di termini, finzioni. Un gruppo di persone insediatesi su alcuni acri di terra stabilisce confini tra quella terra e i territori circostanti, che vengono chiamati «il regno dei barbari». In altre parole, la pratica universale di designare nella nostra mente uno spazio familiare «nostro» in contrapposizione a uno spazio esterno loro è un modo di operare distinzioni geografiche che può essere del tutto arbitrario. Uso qui il termine «arbitrario» perché una geografia immaginaria del tipo «nostra terra/terra barbarica» non necessita che i barbari conoscano e accettino la distinzione. È sufficiente che «noi» costruiamo questa frontiera nelle nostre menti; loro diventano loro di conseguenza, la loro terra e la loro mentalità vengono considerate diverse dalle nostre» [4]
. Ph. M. Carlotti

ph. M. Carlotti

Nel 1975, tre anni prima che Edward W. Said pubblicasse Orientalism [5], e sette prima di Ethnographiesas text [6] di George E. Marcus e Dick E. Cushman (undici rispetto al «maledetto seminario di Santa Fe»di Writing Culture [7], Michel de Certau – interrogandosi, nel suo saggio Ethno-graphie. L’oralité, oul’espace de l’autre: Léry [8], sulla portata della parola istituita, attraverso la scrittura, in luogo di quella orale dell’altro e destinata, sempre per la sua natura di parola scritta da qualcuno in luogo di qualcun altro, ad essere ascoltata altrimenti da come essa parli – centrava quasi per intero uno dei principali aspetti qui in discussione. Tuttavia, all’originaria riflessione dicotomica di de Certau, che contrapponeva società orali (loro) a società dotate di scrittura (noi), siamo oramai tenuti ad aggiungere delle sfumature e delle complicazioni, la più rilevante delle quali è che «anche loro scrivono, leggono, criticano e spesso non sono d’accordo». Quindi, se ancor oggi una contrapposizione noi-loro può essere fruibile, questa bipartizione non può più fondarsi, a mio giudizio, su un «noi scrivente, alfabetizzato e civilizzato» contrapposto ad un «loro orale, analfabeta e selvaggio».

Infatti, se mai, in tempi storici e successivi all’istituzione dell’etno-antropologia accademica, tale netta dicotomia possa aver avuta qualche validità identificativa o qualche funzione di marcatore generale («tutti loro, gli altri, sono analfabeti rispetto ai codici della nostra alfabetizzazione»), negli ultimi decenni, almeno, questa categorizzazione sembra essere entrata letteralmente in crisi, e non perché non ci siano più società orali contrapposte a società alfabetizzate, ma in quanto la categoria dell’altro si è rivelata, a guardarla e cercare di individuarla da Occidente, molto più ampia e variegata di quanto si fosse disposti a concedere. Per altro verso, anche la categoria del proprio si è dimostrata molto più incerta ed osmotica di quanto la si sia pensata nel passato. Quindi è vero che, oggi, «noi» siamo molto più propensi, soprattutto per contingenza storico-politica e riposizionamento egemonico dell’ordine internazionale, a riconoscere ed accettare che «loro» sappiano scrivere e leggere; è vero che «loro» – per un’ampia serie di ragioni che muove dalla fine del vecchio colonialismo e giunge, grazie alla globalizzazione e delocalizzazione di informazioni, uomini e merci, fin dentro le «nostre» accademie – tengono, in qualche modo, a conservarsi, precisandola, entro una propria alterità da noi pur avendo dimostrato, come noi, di saper leggere e scrivere; ma è altrettanto vero che in questa nostra contemporaneità fuzzy – “noi” o “loro” che si sia – nessuno può più definire con altrettanta sicurezza e convinzione chi faccia parte del noi e chi del loro.

Di fatto, le categorie con cui, fino a ieri, s’era creduto di poter pensare e rappresentare il mondo, si stanno rivelando logore e insufficienti, quasi controffattuali.  Così, abbandonata quella del lui sempre ed assolutamente diverso da me e identico a sé e agli altri-da-noi, scopriamo, ogni minuto di più, la necessità di realizzare una transizione concettuale, una revisione dell’immaginario più orientata e attenta ai fatti ed alle realtà del mondo postmoderno e postcoloniale, dove, eccettuate alcune sacche reazionarie e conservatrici, tanto politicamente potenti quanto pericolosamente radicali, siamo sempre più portati a pensarci e considerarci presi fra le sfumature di un me e un te vaghi, imperfetti e confusi, dove il lui è sempre più spesso quel tu, ovvero un altro-io-diverso-da-me, di cui m’impregno ad ogni momento e con cui, confrontandomi e convivendo, ho di che parlamentare.

In questa forma di vita post-globalizzata e vieppiù cosciente del proprio essere mondialmente connessa [9], s’aprono continuamente nuovi scenari sociali e culturali, e complessi spazi di senso e di dis-senso, spazi dove la fusione storica dei vari orizzonti e l’interlocuzione, tanto professionale o comune, quanto politica o ideologica, sembrano riguardare sempre più la capacità di potersi dire qualcosa, intercambiare, contestare e ricontestualizzare, e sempre meno l’accordo previo e convergente sul significato delle cose da dirsi, scambiarsi e mettere in crisi.

Quest’esponenziale di-versione, distinzione e contestazione di senso, rinvigorita dall’accelerata e convergente diffusione dei e nei mezzi (si pensi ai socials ed alla loro controversa funzione narrativa ed autonarrativa, ad esempio, nelle Primavere Arabe), ha decretato e progressivamente approfondito la crisi del paradigma ermeneutico euroccidentale colle sue pretese di esaustività, credibilità e attendibilità narrativa. È in questo contesto, sempre più iper- (politicizzato, ideologico, testuale, veloce, accessibile, ecc.), che dovremmo essere indotti a ripensare funzione ed implicazioni del testo etnografico [10]. In fondo, maggiore il numero delle persone che parlano, cinguettano, postano e scrivono, maggiore il clamore della discussione e la ricchezza delle opinioni da tenere in conto. È sempre in questo contesto, poi, che dobbiamo problematizzare le posizioni di accordo e disaccordo.

Sviluppandosi fra i vari attanti [11] del processo comunicativo, la dialettica di accordo e disaccordo coinvolge sia il discorso dell’autore del testo etnografico (intentio auctoris), sia le possibilità di senso del testo etnografico in sé (intentio operis), sia le interpretazioni dei singoli fruitori (intentio lectoris). Solo tenendo distinta l’intentio auctoris dall’intentio lectoris si può salvaguardare il diritto dei critici ad interpretare e contestare, e quello degli antropologi culturali a continuare a fare il loro proprio mestiere senza incorrere di continuo nelle varie ire dei differenti interlocutori, o scivolare nelle sovrainterpretazioni ciniche e/o ingenue d’ideologi, politici e gente comune.

Ph. M. Carlotti

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Sulla base di ciò, cerco di sostenere che il discorso autorizzato da un testo etnografico può essere considerato una forma assolutamente particolare di opinione – un’opinione fatta discorso, che, come ogni discorso fatto, promuove un ordine ed incarna un potere. Da un lato, esso è, come sappiamo, una forma discorsiva istituzionalizzata e profes- sionalizzata, dotata d’una ricca tradizione di generi, stili e poetiche. Dall’altro, è un tentativo di formalizzare una specifica prassi ermeneutica che, in qualche modo, ha il dovere metadiscorsivo di provare ad esplicitare i mezzi di produzione di senso all’interno di quella che, con Lotman, potremmo definire una nuova semiosfera [12] – una semiosfera originata dall’incontro dei differenti mondi semiotici dei vari interlocutori culturali. Un modo molto speciale di evocare uno sforzo di comprensione dell’esperienza dell’alterità e del senso degli altri (Augé), delle diverse e diversificate forme di costruzione di un mondo (Goodman), e dell’apertura al mondo (Gehlen); ma anche un modo particolarmente efficace di ampliare il senso e la coscienza di sé ridefinendo i propri mezzi di pensiero e capacità di sentire. Un modo, però, che suscita delle reazioni, sia per il fine e il contenuto del proprio messaggio, sia per i mezzi e i canali di diffusione che impiega.

In effetti, nel suo controverso e plurimo ruolo di discorso (incarnare l’opinione di quel qualcuno che lo ha scritto per parlare anche di altri e delle loro opinioni, credenze, pratiche, ecc.) e di metadiscorso (essere una fase del più generale processo di istituzione di nuovi mezzi espressivi e di senso), il testo etnografico può suscitare, e generalmente suscita, delle reazioni; reazioni la cui complessa natura dev’essere, a mio parere, studiata non sulla base delle semplice opposizione bipolare “accordo-disaccordo” ma su quella più strutturata, dialettica e, se non altro a livello basilare, quadripolare di:

a)         “accordo sull’accordo”;

b)         “accordo sul disaccordo”;

c)         “disaccordo sull’accordo”;

d)        “disaccordo sul disaccordo”.

Questo non solo in quanto il detto del testo etnografico può essere spinto da di chi lo fruisce ben oltre le intenzioni di colui che l’ha scritto, ma anche poiché la dialettica tra soggetti si muove ed articola su livelli e metalivelli, facendo ciascuno del detto e dei contenuti del discorso dell’altro uno degli oggetti (livello) del detto e dei contenuti del proprio discorso (metalivello), lungo una spirale virtualmente infinita di opinioni, giudizi, argomentazioni, critiche, ecc. [13].

Questo scenario dovrebbe permetterci di riconoscere un primo, doppio posizionamento di base, per cui a quello dell’etnografo si affianca e/o contrappone il polo della sua etnografia. Sulla falsariga di ciò, dovrebbe esser possibile rendere con maggior chiarezza la complessa interazione tra i vari poli e soggetti discorsivi. Il discorso e il soggetto nativi, il discorso e il soggetto etnografici, le reazioni a quei discorsi, testi e soggetti, e così via, sono infatti tutti elementi che concorrono o, comunque, implicano e sono implicati nel più ampio processo in cui s’inscrive ed agisce la prassi etnografica; prassi eccentrica e che tutti, ormai, sappiamo essere sempre più attiva nel vivere quotidiano, non più confinata nei dipartimenti, nelle aule e negli anditi accademici.

Vorrei provare a combinare in questo quadro le vecchie metafore con cui si sono talvolta indicati il processo e il prodotto del lavoro etno-antropologico. Mi riferisco anzitutto alla metafora che, evidenziando l’aspetto grafico-testuale del lavoro etnografico, tratta l’etnografo alla stregua di una «macchina di scrittura»; e poi a quella che intende il testo scritto una «macchina infinita di senso». In particolare, quest’ultima ci rimanda al concetto heidegger-derridiano di indefinibilità dell’Essere se non in termini di pura differenza, e all’intreccio concettuale di presenza-assenza, voce-scrittura, identità-differenza, egemonia-subordinazione.

Conscio di rischiare un’eccessiva semplificazione, credo tuttavia che l’intreccio di tali concetti e metafore possa sintetizzarsi come segue: «Di contro alla voce, la scrittura permetterebbe ad un testo di trascendere la portata della presenza fenomenica e dell’intenzione del proprio autore storico. Tuttavia, questo “stare in luogo di”, lungi dall’essere neutro, produrrebbe eo ipso differenza. L’intenzione del testo, infatti, non è il testo, né tantomeno l’oggetto di cui o per cui il testo parla, e ogni tentativo, attraverso altri testi, di formalizzare quell’intenzione o rappresentare quell’oggetto ed intenzione originari non può che fallire in virtù della parzialità dei nuovi testi e della loro differenza rispetto all’ineffabilità originaria dell’intenzione e dell’oggetto. D’altro canto, lo “stare in luogo di” consentirebbe, funzionando anche in “assenza” ed operando “al di là del controllo della sua presenza”, di parlare oltre e sopra il discorso originario di quanti originariamente presenti, un parlare al loro posto dietro e a cavallo delle loro spalle, dando luogo, coi nostri schemi, simboli e limiti, alla reincarnazione, travisamento ed alterazione della loro voce».

I critici contemporanei, contestando l’etnografia classica, evidenziano il doppio legame di tale attività coi meccanismi autorinforzanti dell’egemonia politica. Questa, regolando l’accesso-controllo ai canali mediatici mainstream, tenderebbe, infatti, a sancire e riprodurre il potere di poter parlare-scrivere degli e per gli altri in loro assenza e, spesse volte ma sempre meno, a loro insaputa. Tuttavia, sebbene i concetti connessi a queste metafore e le rispettive critiche siano rappresentativi di una parte importante del processo etnografico e dei suoi limiti, nella fattispecie delle asimmetrie e delle sperequazioni di mezzi e potere fra i vari soggetti in gioco, non sono però esaustivi e rappresentativi della complessità dell’intero processo e delle sue possibilità e conseguenti responsabilità.

Ph. M. carlotti

ph. M. Carlotti

Una prima complicazione potrebbe venire dall’integrazione del concetto derridiano di testo come «macchina (virtualmente) infinita di senso» con quello lotmaniano di testo semiotico come «congegno pen- sante» immerso in un più ampio processo di continua semiosi. Una seconda complicazione potrebbe venire dal considerare l’intero campo delle variabili differenziali. Infatti, oltre alla bilocazione reale ed effettiva tra il discorso nativo e il testo etnografico, si pone sempre almeno un’altra bilocazione reale ed effettiva: quella tra i discorsi «in presenza» dell’etnografo che contingenzialmente scrive anche un testo (quel testo, quell’etnografia), e i discorsi, le interpretazioni e le risposte, «in sua assenza», che quel testo (quell’etnografia) suscita di per sé, valicando l’intenzione, il controllo e la presenza del suo autore storico, e contribuendo così a produrre ulteriore differenza. Un’ultima complicazione s’imporrebbe laddove si tenesse conto della necessità di destinare più attenzione alle attività di tutti i soggetti dell’interlocuzione e del processo etnografico, e quindi ai loro giudizi reciproci.

Ho già detto che, osservando con una diversa articolazione la questione, una rappresentazione nei termini di “accordo sull’accordo”, “accordo sul disaccordo”, “disaccordo sull’’accordo” e “disaccordo sul disaccordo”, dovrebbe garantire maggior attinenza alle reali dinamiche della dialettica tra soggetti, mettendo in luce atteggiamenti e giudizi che ogni interlocutore esprime circa il modo in cui altri interpretano, giudicano e reagiscono ai suoi testi o discorsi [14]. Quest’ultima complicazione s’impone in quanto la distinzione differenziale tra la presenza della voce dell’etnografo nell’oralità del suo discorso (intentio auctoris) e la sua assenza nella scrittura del suo testo etnografico (intentio operis) richiama meccanismi similari a quelli cui i critici culturali (cultural, subaltern, postcolonial, ecc. studies), e metaetnografici si riferiscono per evidenziare la differenza fra la presenza ufficiale ed autorevole del discorso dell’etnografo (dotato di sue rispettive intentiones), e l’assenza (sorta di «silenzio-assenso») ufficiosa e subordinata dei discorsi dei nativi o informanti [15] (dotati tutti di peculiari ed originarie presenze e rispettive intentiones).

In effetti, così come la presenza della voce, le intenzioni e le abduzioni metaculturali degli interlocutori sul campo (o informatori, o antropologi nativi, o informanti nativi, ecc.) possono essere considerate in qualche modo assenti nel discorso e nella pagina etnografici, anche la voce e la presenza che “intenzionano” il discorso del singolo etnografo possono essere considerate assenti nelle letture che altri fanno, in altri luoghi e tempi, con altri fini e competenze, del detto o dicibile del suo testo.

Infatti, non solo nessuno possiede il completo controllo su e di quello che gli altri possano intendere di quel che dice o scrive, ma nessuno potrà mai controllare tutto quello che altri dicono ad altri che egli (o ella) abbia inteso dire, pensare, ecc. dicendo-scrivendo quel che ha detto-scritto. Tuttavia, l’esercizio di certe forme di controllo o attrito (anche a livello di autoprotezione ed autogaranzia) è possibile. Così non fosse, non soltanto chiunque, fidando in tale svincolatezza ermeneutica, potrebbe far dire qualunque cosa a chiunque, ma ne risulterebbe addirittura impedita ogni efficace comunicazione tra soggetti.

Posta così, l’intera questione dell’«accordo-disaccordo sulle opinioni» si trova ad assumere un ruolo centrale. Da un punto di vista pratico, infatti, rivela l’importanza, ai fini d’attrito e controllo, delle opzioni che i vari soggetti, sulla base del loro peso politico-mediatico, possono giocare sul tavolo dialettico: a maggior peso egemonico, maggiori presenza e capacità di subordinare e contrarrestare le opinioni dell’altro; a minor peso, minori presenza e capacità mediatiche. In un’ottica più morale si tratta, invece, della distanza, per ciascun soggetto (il cui discorso e le cui intenzioni siano interpretate da altri e rese oggetto di altri discorsi), tra il diritto di replica-controllo e il concreto esercizio del medesimo mediante l’accesso ai media di pubblicazione del sapere, circolazione dell’informazione e produzione del discorso.

In fin dei conti, il diritto ad aver diritto ai mezzi, il diritto ai mezzi ed il reale accesso a fruire di essi sono cose ben differenti. Solo chi fruisce concretamente di questa possibilità può esercitare delle forme di controllo, replica, attrito, esprimendo il suo consenso o dissenso, il suo cambio d’idee e opinioni, garantendosi un ruolo editoriale attivo nel processo di produzione del sapere. Vediamo alcuni esempi.

Un caso di «accordo sull’accordo» è quello del vecchio topos antropologico del ricercatore che, nell’intervistare un anziano nativo americano, si sentiva rispondere, citato a memoria, il contenuto dei testi di Boas. In questo caso, in modo talvolta ingenuo e, forse, talaltra malizioso, gli informatori avrebbero manifestato ai loro interlocutori antropologi un totale accordo con le “opinioni” di Boas, un accordo tale che trascendeva e trascende le aspettative dei ricercatori delle successive generazioni.

Un caso di «disaccordo sull’accordo» è capitato, invece, all’antropologo Giulio Angioni [16] mentre conversava casualmente di certi riti tradizionali che studiava da anni ma sui quali non era mai stato molto sicuro. Oltre a scoprire che quelle erano cose note e risapute, ad Angioni venne consigliato un libro molto chiaro e preciso, che avrebbe dovuto consultare e dal quale sarebbe dovuto partire per le proprie ricerche. Incuriosito, l’antropologo domandò di che libro si trattasse e chi fosse l’autore, tutte notizie che il suo anfitrione non ricordava. Tuttavia, avendone una copia, l’uomo invitò l’antropologo a seguirlo a casa. Col libro in mano e dopo un momento di imbarazzo, Angioni ringraziò, finse di appuntarsi titolo e autore, e andò via senza mai essersi presentato. Il libro dal quale l’ «antropologo nativo» traeva la propria competente autorità era, in realtà, un vecchio lavoro, molto approssimativo, dello stesso Angioni.

Ph. M. Carlotti

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Un caso di «accordo sul disaccordo» è raccontato dall’antropologo Nigel Barley quando, interrogando un indonesiano (poi rivelatosi a sua volta un antropologo) circa il significato e la funzione di certi strani mulini, si sentì rispondere «È strano che mi chieda questo. Ho notato che ogni volta che si interrogano gli anziani su questa cosa, si ottengono risposte diverse. Secondo me servono solo a segnare il tempo durante il raccolto, all’interno di un sistema più ampio che comprende i combattimenti con il bastone e le gare con le trottole. In ogni caso non è impossibile che abbiano una funzione pratica: spaventano gli uccelli» [17].

Un caso di «disaccordo sul disaccordo» è narrato dall’antropologo Paul Willis [18]. In un suo studio sulla società inglese contemporanea volto a mettere in relazione istruzione scolare, percezione dell’istruzione, classi sociali e possibilità di accesso al successo economico e sociale, Willis formulava l’ipotesi che la classe sociale di appartenenza concorreva in modo importante a determinare i valori esistenziali e i modelli comportamentali su cui si costruisce l’immaginario e in base ai quali si orientano la percezione dell’istruzione scolare, il giudizio circa la sua utilità e l’atteggiamento nei suoi confronti. Dopo aver sottolineato che tanto più bassa era, all’interno della gerarchia sociale, la classe di appartenenza dei ragazzi, tanto più negativamente era, da parte dei ragazzi, giudicata l’utilità di possedere un’istruzione, Willis avanzava l’ipotesi che dietro il rifiuto dell’istruzione non si trovava la volontà di eversione politica sostenuta dai ragazzi, bensì un disagio sociale che aveva nei suoi effetti (meno istruzione significa meno possibilità di accesso-successo economico-sociali) la propria causa (appartenere ad una classe marginale e subalterna), e che «imparando a resistere all’ambiente scolastico, i suoi [della classe operaia] ragazzi instaurano atteggiamenti e attività che li incatenano alla loro posizione di classe precludendo loro la possibilità di una mobilità verso l’alto nella gerarchia sociale» [19]. Sottoposta la propria ipotesi ai suoi giovani interlocutori, tutti appartenenti alla classe operaia, Willis prese atto di un rifiuto tanto netto, quanto forte. Gli studenti, infatti, discordavano su tutta la linea, rivendicando una diversa percezione del mondo, interpretazione dei motivi e giustificazione degli atteggiamenti.

Tutti questi casi, pur così eterogenei, mostrano una certa convergenza che, imponendo certe domande, stimola una precisa riflessione. Ad esempio, chi giudica del grado di correttezza assoluta delle interpretazioni delle interpretazioni? È possibile che qualcuno si arroghi un tale ruolo? In base a cosa? Come renderne conto? Sono utili un giudice e un giudizio simili? Infine, i testi, intesi come «cose» che girano il mondo, hanno degli effetti e producono reazioni: come tenere tutto sotto controllo, impedendo non tanto l’esubero ermeneutico, quanto la sua attribuzione all’intentio dell’autore?

Per provare a rispondere a tali quesiti e continuare ad intendere la pratica etno-antropologica come un complesso esercizio di traduzione metaculturale, mi pare utile istituire un parallelo con quella che, nel mondo dei traduttori ed interpreti, è la figura della «rete». Capita, infatti, che «in certe occasioni tanto delicate, in cui si definiscono importanti accordi commerciali, patti di non aggressione, cospirazione contro terzi, dichiarazioni di guerra o armistizi, a volte si cerchi di controllare l’interprete con l’ausilio di un secondo traduttore che non è tenuto a tradurre una seconda volta (creerebbe troppa confusione) ma, questo sì, è tenuto ad ascoltare il primo traduttore e a sorvegliarlo con la massima attenzione, e a controllare la qualità della traduzione […] li chiamano interpreti di sicurezza, o interprete-rete, e si finisce per chiamarli «il rete» o «la rete» […]» [20].

Ma cosa accade quando, per una qualche ragione, l’interprete-rete non funziona? Chi garantisce un simile garante? Su quali basi? Le traduzioni, in effetti, oltre a non essere mai trasposizioni perfette, non sono neppure atti neutri che, una volta performati nel mondo, lasciano le cose come le avevano trovate. Le traduzioni sono infatti processi ermeneutici discorsivamente aperti, la cui difesa – mai assolutamente certa o oggettivamente competente – può, essendo assoggettabile alle strategie dell’argomentazione, giocare anche con le armi e la retorica della persuasione. Ciò è particolarmente evidente in quelle complesse traduzioni metasemiotiche e metaculturali che sono le etnografie, le quali, trattando del sé e dell’altro, hanno a che fare con entità problematiche e sfuggenti quali cultura, memoria, tradizione, identità, pratica, ecc. e i cui referenti sono gruppi, comunità, classi, tribù, società, nazioni, il sistema-mondo, ecc. Dal momento che ogni traduzione, dalla più innocente e semplice alla più densamente complessa e strutturata, produce sempre degli effetti concreti, allora anche quella culturale, essendo di per sé un evento che non lascia le cose del mondo come stavano, ci pone un problema tanto pratico ed etico, quanto teorico e deontologico.

Nel tentativo di risolvere il problema, mi pare utile provare a riproporre la vecchia dicotomia tra «modello di» e «modello per» proposta da Geertz, ponendola però su basi dialettiche e dedicotomizzate. Se, con Geertz, intendiamo che un «modello di» è un modello che, come la teoria, la descrizione o il diagramma, «mette in rilievo la manipolazione delle strutture simboliche in modo da portarle più o meno in parallelo coi sistemi non simbolici prestabiliti» [21], e che un «modello per», come un’istruzione operativa, mette «in rilievo la manipolazione dei sistemi non simbolici nei termini dei rapporti espressi in quelli simbolici» [22]; e se riflettiamo sull’etnografia in quanto pratica, ad un tempo, di descrizione fattuale e rappresentazione culturale, e di traduzione metaculturale e testualizzazione metadiscorsiva, allora essa non può essere ritenuta soltanto un «modello di». Prima o poi, infatti, l’etnografia assume anche ruolo e funzioni di «modello per», in quanto i testi di cui si compone sono, fra l’altro, destinati ad entrare in complessa relazione col mondo e con i soggetti di cui trattano e di cui si vogliono, in qualche modo, rappresentativi.

Ph. M. Carlotti

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Questo doppio destino, legato all’itinerario concreto dei singoli testi nel mondo reale e al loro impatto nella coscienza, nell’immaginario e nella sensibilità di chi li fruisce, prescinde in parte dalle intenzioni di chi li scrive; intenzioni che danno forma (o dovrebbero darne) “soltanto e più modestamente” al tentativo di fornire dei resoconti, ovvero dei «modelli di» certi aspetti di realtà culturali e sociali (realtà di per sé molto più ineffabili e complesse), e delle strategie e sforzi che il ricercatore mette in atto per provare a comprenderle. Ma se questa è la teoria e quelle le intenzioni, almeno a livello ideale, nella pratica finisce che teoria e intenzioni incarnino e generino effetti ben differenti.

Valga su tutti l’effetto rilevato da Said, che, con Orientalism, metteva in luce sia il modo in cui gli stereotipi, i topoi e la tropologia orientalisti hanno contribuito a formare, in Occidente, l’immagine dell’Oriente, sia il modo in cui il serbatoio di figure dell’immaginario orientalista dell’Occidente abbia, proiettato egemonicamente sulle altre culture e sui singoli soggetti, contribuito ad orientalizzare l’Oriente e gli orientali. Questo concetto è particolarmente evidente ad esempio quando Said afferma che «il testo può acquisire una capacità di influire sull’esperienza, un’autorità, persino maggiore della realtà che descrive» [23].

Dovrebbero ormai esser chiare l’improprietà epistemologica e l’improponibilità etica (ma anche l’impossibilità pratica, alla stregua quasi di un desiderio o una mania contro-fattuali) della pretesa che un singolo soggetto possa assumersi autorità e responsabilità necessarie per giudicare del significato assoluto di un testo – inteso nelle accezioni filosoficamente e semioticamente più ampie – esaurendo definitivamente il contesto di senso che ospita tutte le possibili attività ermeneutiche.

Chi mai potrebbe rivendicare tutta quella responsabilità, credersi in possesso di quel potere e sostenere la pretesa di quell’autorità? Chi potrebbe realisticamente pensare di afferrarsi per i capelli e, dopo essersi tratto fuori dai meccanismi del mondo, farsi soggetto cognitivo neutro, laplacianamente svincolato dalla storia e dalle partigianerie di giudizio? Mi pare di poter ritenere che nessun essere umano, in virtù della finitezza storica propria, potrà mai avocare a sé tale concentrazione di poteri, saperi e competenze, né possedere strumenti, tempo ed energia necessari a giustificare e avanzare pretese di giudizio e capacità di validazione assolute.

Cercando di stare coi piedi ben piantati nella realtà e senza presumere di stare inventando o disvelando alcunché di radicalmente nuovo, l’unica forma di giudizio che riesco a suggerire, una forma pur sempre relativa per quanto nel suo complesso meno parziale rispetto a quelle tradizionalmente autoritarie, sia quella di un giudizio disperso e decentrato il cui esito, passando attraverso una deriva liberale di senso e di dissenso, non dovrà essere visto come il trionfo dell’anarchia o, peggio, dell’autarchia, ma come il tentativo di impedire concentrazioni monopolistiche e/o monofoniche – o oligopolistiche e/o oligofoniche – a proposito del senso e delle opinioni.

Per quanto concerne la disciplina etnoantropologica e le sue pratiche, penso infatti ad uno spazio aperto di senso e di costruzione del senso dove l’opzione del disaccordo (specie se critico, positivo e motivato), in tutte le sue forme, non sia un’eresia ma, anzi, un’utile e stimolante necessità. In un tale quadro operativamente aperto, un vero e proprio contesto sociale, culturale, politico e dialettico autocosciente dei propri ruoli e diritti-doveri, l’attività dell’interprete-rete a garanzia dell’eventuale bontà della traduzione dei testi potrebbe essere svolta, in modo soddisfacente, dall’intera rete degli interpreti connessi al corpus dei testi e delle opinioni.

Ciò ovviamente non garantirebbe lo scaricamento politico e ideologico delle singole attività di controllo individuale, obiettivo che personalmente reputo impossibile da raggiungere in quanto il sapere dei singoli uomini è sempre contestuale, intenzionato, parziale e posizionato. Piuttosto favorirebbe un bilanciamento delle singole attività di controllo ed opinione [24].

In un tale spazio, infatti, nessuna contraddizione, contestazione e dissenso verrebbero mai, a priori, preclusi all’immaginario individuale e collettivo. In un tale spazio, poi, risulterebbe più semplice tenere a mente che, così come la credenza nella bontà delle proprie credenze non è di per sé garanzia della loro bontà, allo stesso modo la convinzione nella ragione delle proprie ragioni, su qualunque mondo, testo e argomento, non è di per sé garanzia di ragione, ma solo di convinzione e, forse, di scelta [25].

In ragione della difficoltà del suo compito e dell’incontrollabile scarto tra forza illocutiva e forza perlocutiva, ogni autore di testi etnografici dovrebbe allora mettere in atto tutte le strategie retoriche, narrative e discorsive possibili per liberarsi degli eccessi di responsabilizzazione a cui l’imprevedibilità incontrollabile delle sovrainterpretazioni a posteriori l’espone, il suo fine essendo quello di punto di costante partenza per nuove e continue riflessioni, e non quello di ancoraggio per attivisti esagitati, opportunisti di varia natura e “politici essenzialisti”. Solo riflettendo sul fatto, e sulla responsabilità ad esso congiunta, che molte vite sono (state) interferite a causa e in nome del suo operato, l’etnografia, nelle figure di chi la fa e di chi la critica, può sentirsi continuamente stimolata a mettere in campo le risorse necessarie affinché quello che è soltanto «l’atto di narrazione di un tentativo di comprensione» rimanga tale, e non finisca per trasformarsi nel facile paravento dietro le cui autorevoli pagine si trincera, giustifica e fonda la possibilità, più o meno subliminale, di scusare ben altri tipi d’azione.

.Ph. M. Carlotti

ph. M. Carlotti

Personalmente, mi auguro infatti che l’etnografia – quello specifico modo, fra i tanti altri legittimi e possibili, di rivitalizzare comprensione e immaginari umani, rilanciando analisi, discussioni e interpretazioni – non si presti (più) a fungere da presupposto oggettivo per giustificare l’atto politico, la violenza ideologica e la forzatura fattuale. In conclusione, devo ammetterlo, mi ritrovo con più dubbi per la testa che risposte per le mani, e mi chiedo quanto questo mestiere interferisca col mondo, e quanto il mondo con questo mestiere e le sue teorie, etica e disciplina. Fino a che punto cioè c’impegna questo lavoro, e fino a che punto è lecito che noi impegniamo questa professione? Quali i suoi e nostri limiti? Di che tipo, natura e portata le possibilità e che peso assumono, di conseguenza, le responsabilità di chi lo pratica? Quando e perché la discussione sui termini può giustificare l’atto sulle interpretazioni, e viceversa?

Girando a chi legge queste domande, voglio chiudere ribadendo alcuni concetti. Ad esempio, se lavori come quello di Dascal, o critiche e metacritche come quelle che ho cercato di evocare e sviluppare qui, ammonendoci sull’importanza positiva e costruttiva delle controversie, ci rammentano, rispettivamente, che il sapere, mai assolutamente individuale, è sempre co-prodotto (da attori, individui, istituzioni, occasioni, ecc.), e che, oltre che prodotto, è sempre produttore di effetti quantomeno intellettuali e sociali, allora esso non può, da parte di nessuno e in nessun tempo, essere considerato assoluto (la conversazione chiusa, e la messa in discussione eresia), né svincolato dalle pratiche e dalle intenzioni della sua elaborazione, produzione e diffusione.

Dire ciò significa sostenere, però, che chiunque lo performi e promuova professionalmente è, per il mero fatto di svolgere quella professione e partecipare a quelle pratiche, chiamato ad una più ampia e costante consapevolezza circa le proprie responsabilità e gli effetti (reali e/o potenziali) del suo operato, nonché obbligato, sempre e comunque, ad una dispositio all’ascolto e alla rimessa in discussione critica (ai limiti dell’autoscetticismo) dei suoi assunti, dei presupposti fondanti dei suoi paradigmi, e dei prodotti della sua attività, anche fosse solo per scoprire di poter sostare sulle sue così diversamente motivate e criticamente rinnovate posizioni di partenza.

Per quel che riguarda il significato in genere e il sapere in particolare, essi sembrano muoversi seguendo meccanismi più simili a quelli delle valanghe che non dell’entropia. Una volta attivati, infatti, sia il significato che il sapere, contaminando una bocca via l’altra, e contaminandosi di testa in testa, aumentano ad ogni momento la portata della loro azione, i punti e le occasioni della loro produzione e i loro effetti in genere.

Per colmo di paradosso, poi, anche ogni tentativo di ridurli per riportarli entro i binari certi d’un solo cammino, altro non è che una nuova aggiunta di significato parziale al significato preesistente, di sapere al sapere, voce fra voci e ordine fra gli ordini possibili e reali. Invece di bruciarsi e consumarsi, innescarsi ed esaurirsi, l’uso e la produzione di sapere e significato, accordo e disaccordo, senso e dissenso, ecc. non fanno che aumentare l’orizzonte delle opinioni, dei rimandi e delle possibilità entro cui ci dibattiamo nella nostra ricerca di senso, scoperta di significato e produzione di sapere.

Riecheggiando pretenziosamente Derrida, Peirce e Rorty, potremmo dire che il discorso non arriva mai a destinazione, perché, col suo eternamente differito arrivo, a destinazione vi è già, ma è proprio perché, potendo regredire potenzialmente all’infinito, differisce costantemente il suo arrivo che la conversazione si mantiene sempre viva e aperta. Porvi fine, qualunque fine e in qualunque modo, è solo un’illusione, o un nuovo forma di tenerla in vita.

Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
 
Note
[1] Uso il sintagma “cittadini del mondo” in luogo di “cosmopoliti”, perché, a mio giudizio, mentre tutti gli abitanti del pianeta sono (o dovrebbero essere!), ipso facto, “cittadini del mondo” (o, se preferite, “cittadini del sistema-mondo”), non tutti gli abitanti del pianeta sono, ipso facto, “cosmopoliti”, essendo il cosmopolitismo frutto d’una dotazione culturale ed un atteggiamento critico verso il sé e l’altro-da-sé (una vera e propria coscienza dinamicamente aperta e programmaticamente autoriflessiva) che non maturano dal semplice nascere, vivere e stare nel mondo.
[2] La dialettica nella costruzione collettiva del sapere scientifico, edizione italiana tratta da Anna Carolina Regner and LuizRohden (eds.), A filosofia e a ciência redesenham horizontes, S. Leopoldo, RS, Editora Unisinos, 2005.
[3] Prendo a prestito il concetto di antifragilità da N. Taleb: Antifragile; N. Taleb; 2013; Il Saggiatore; Milano
[4] Orientalismo; E. Said; 2001, Feltrinelli; Milano: 60.
[5] Orientalism; E. Said; 1978; Pantheon Books; New York. Trad. it. Orientalismo; op. cit.
[6] Ethnographies as texts; G. E. Marcus e D. Cushman; 1982; Annual Review of Anthropology; vol. 11: 25-69
[7] Writing Culture; J. Cliffor e G. E. Marcus; 1986; University of California Press; Berkeley &Los Angeles
[8]  Trad. it. Etno-grafia. L’oralità o lo spazio dell’altro: Léry in La scrittura dell’altro; M. de Certau; 2005; Raffaello Cortina; Milano: 29-66.
[9] Il fenomeno della mondializzazione, se non proprio radicalmente nuovo, è oggi esponenzialmente velocizzato nella sua capacità di coinvolgimento globale. Sono sempre di più, infatti, gli individui che, potenzialmente, possono ridislocarsi (anche da fermi davanti ad un monitor), informarsi ed interagire con altri, e che progressivamente dominano un spettro crescente di linguaggi, mezzi e tecniche. Più che al solo «effetto Squanto» di cui parla Clifford (I frutti puri impazziscono; 1999; Bollati Boringhieri; Torino: 29, 41), mi rifaccio anche a considerazioni come quelle di P. Sloterdijk (Dentro il capitale; 2006; Meltemi; Roma) sulla globalizzazione come frutto di dinamiche plurisecolari.
[10] Personalmente reputo i testi etnografici come sforzi, entro un più vasto quadro di strategie politiche e processi discorsivi, di traduzione metalinguistica e metaculturale realizzati da particolari soggetti accademicamente autorizzati, culturalmente professionalizzati e storicamente posizionati.
[11] Ne approfitto per ricordare come, quella degli attanti, sia oggi una categoria florida e in continua crescita alla quale afferiscono le figure più disparate quali: altri etnografi, etnografi nativisti, lettori estemporanei, amatori, critici culturali, politici, folkloristi, tradizionalisti, “gente comune”, ecc.
[12] J. M. Lotman (La semiosfera; 1992; Marsilio; Venezia: 58) definisce una semiosfera  «quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi». Al centro dell’analisi dei processi culturali e semiotici condotta da Lotman si trovano la teoria dell’informazione, il concetto di informazione, e i processi (semiosi) attraverso cui l’informazione si trasmette e produce. È attraverso questi processi, infatti, che Lotman definisce la cultura come una semiosfera, ovvero come processo semiotico aperto (nel senso di né eccessivamente statico, né eccessivamente dinamico), ed illustra la relazione reciproca fra gli individui (intesi sia come organismi specifici, sia come membri di una comunità semiotica formata da una pluralità di personalità semiotiche aperte). «La cultura – scrive Lotman (1992: 84) – come meccanismo dell’intelletto collettivo svolge le seguenti funzioni: a) conservazione e trasmissione dell’informazione (memoria e comunicazione); b) elaborazione di nuove informazioni (funzione creativa dell’intelletto)». In questo senso, si può sostenere che una semiosfera ingloba più individui, più personalità semiotiche e uno o più codici culturali.
[13] Parlando in questo modo di accordo e disaccordo tendo di proposito ad evitare esplicitamente le situazioni in cui uno o più interlocutori, animati da “malafede”, simulino atteggiamenti e credenze di concordanza o discordanza che intimamente ritengono ingannevoli o falsi. Esamino, infatti, solo gli aspetti fenomenici e le dichiarazioni esplicite, e reputo fuorviante, in questo contesto, un’analisi psicologica della fenomenologia delle intenzioni, delle credenze e dei giudizi profondi reali e privati dei differenti interlocutori. Ritengo, infine, che anche questi atteggiamenti e queste situazioni coincidano con uno dei metalivelli potenzialmente implementabili dal modello quadripolare di base qui proposto.
[14] Queste quattro categorie consentono, infatti, di salvaguardare il diritto degli uni a rispondere e contestare (la libertà di parola) e quello degli altri a svolgere la propria professione senza timori (la libertà di parola e professione), riconoscendo ad entrambi le fondamentali libertà di sbagliare e di essere, o non essere, d’accordo circa le ragioni, il tenore e la qualità delle critiche od opinioni altrui.
[15] Cfr. Spivak (Critica della ragione postcoloniale; 2004; Meltemi; Roma).
[16] Comunicazione personale.
[17] L’antropologia non è uno sport pericoloso; N. Barley; EDT; 2002; Torino: 61-65.
[18] Cfr. Learning to Labour: How working class kids get working classing jobs; P. Willis; 1981; Columbia University Press; New York.
[19] Antropologia come critica culturale; op. cit.: 156.
[20] Un cuore così bianco; op. cit.: 63-4.
[21] Interpretazione di culture; op. cit.:118.
[22] Ibidem.
[23] Orientalismo; E. Said; 2001; Feltrinelli; Milano: 98.
[24] Come non pensare, oggi, al caso dell’enciclopedia in rete Wikipedia? Non è forse, quest’esperienza di enciclopedia aperta e comunitaria, un caso concreto di realizzazione di quella perfettibilità che si realizza grazie alla partecipazione, ma anche sotto il controllo costante, di una rete di garanti in cui ciascuno senza nome, fama o volto pubblici da difendere è, contemporaneamente, giudice e giudicato, arbitro e giocatore, pubblico e autore, oggetto e soggetto? Il concetto di rete di garanti, per quel che concerne lo scenario attivato da questa sorta di forum o communitas, mi sembra realmente molto interessante, non foss’altro perché ci obbliga a riflettere, per un verso, su come, un tale codice aperto, riesca, attraverso l’attività, in qualche modo anarchicamente coordinata, delle sue “parti” e performers, a implementare una costante autocorrezione, e, per l’altro, sul fatto che le persone, quando non sentono in pericolo la loro nomea o immagine pubblica (quando non hanno nulla da perdere), e, per converso, non hanno neppure nulla da guadagnare immediatamente per sé da quello che fanno (o non fanno), tendono, in modo inaspettato (forse anche sorprendente), ad essere generosamente oneste, e a correggere celermente i torti (o quello che è avvertito come tale) che alcuni arrecano al «corpo collettivo». Sarà forse che, al riparo della maschera collettiva di una rete che anonimizza quell’immagine pubblica che normalmente i singoli devono difendere, ciascuno tende ad identificare proiettivamente sé stesso con l’intera rete – il membro che si identifica con la classe – e si adopera, conseguentemente, a dare il meglio di sé?
[25] Sono cosciente di una prima obiezione a questo scenario: come fare a districarsi in mezzo ad una simile selva di informazioni, pareri, opinioni, testi, autori, ecc.? Semplicemente agendo e provando, in qualche modo, a districarsi, coscienti che, non solo non se ne verrà mai fuori del tutto, ma che, anzi, ogni ulteriore passo ed azione porta chi li compie sempre più dentro l’intrico.

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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.

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Una risposta a Accordo e disaccordo: l’antropologia e l’arte della controversia

  1. Moreno Pregno scrive:

    Ad oggi rivolgo il mio interessamento a tematiche non procrastinabili dalla coscienza , penso profondamente che l’io delle persone sia soggetto a condizionamenti non solo esterni , ma che sia la sommatoria delle nostre scelte.
    Se dovessi fare una disanima autocrita , direi di essere un ipocrita controverso che ha scelto di migliorarsi avvicinandosi alla forza dei deboli .
    Marcello è una persona con un vissuto sulla pelle tale da capire le problematiche che affliggono questo mondo antropizzato.

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