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Traiettorie e mobilità della migrazione bangladese in Italia

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Brick Lane, Londra

di Francesco Della Puppa

Con il presente contributo si conclude l’approfondimento sulla migrazione bangladese in Italia ospitato negli ultimi tre numeri della rivista. In questa sede, dopo un rapido sguardo sulle “storiche” rotte migratorie percorse dai migranti bangladesi orientati verso l’Europa mediterranea, si approfondiranno due fenomeni relativamente inediti che stanno prendendo forma dentro la diaspora bangladese in Europa, ridisegnando le traiettorie di mobilità degli stessi migranti e, più in generale, lo scenario migratorio europeo.

È possibile individuare due tipologie entro la prima generazione di immigrati bangladesi, giunti in Italia tra gli anni ‘90 e gli anni 2000 e inizialmente stabilitisi a Roma: da un lato giovani celibi, con un buon livello di istruzione, che vedono nel viaggio migratorio la possibilità di elevare il proprio status (anche se in Italia svolgono spesso lavori dequalificati); dall’altro, uomini meno giovani, con famiglie da sostenere in Bangladesh (Della Puppa, 2014; Priori, 2012; Zeytlin, 2006). Dissimili per provenienza geografica ed esperienza migratoria, tuttavia, essi sembrano condividere le modalità di ingresso nel territorio italiano. Sebbene con il tempo molti bangladesi siano riusciti a ottenere il permesso di soggiorno, la maggior parte di essi era entrata in modo non regolare, dopo aver fatto ingresso legalmente in Europa dell’Est. L’Europa orientale, molto spesso terra della prima esperienza migratoria, assieme al Medio Oriente, rappresenta la porta – si potrebbe dire “di servizio” – per quella occidentale, difficilmente raggiungibile via aria (Ibidem).

Un altro elemento degno di nota è quello relativo alle rotte maggiormente percorribili: si delineano, infatti, almeno tre traiettorie migratorie, ognuna delle quali richiede un diverso dispendio di risorse economiche, riproducendo la stratificazione sociale dei probashi: la prima e la più percorsa, come è stato accennato, prevede l’attraversamento della Russia e dell’Europa orientale; una seconda attraversa il nord Africa, la Libia e il Mediterraneo e una terza passa dalla Turchia, dalla Grecia e dai Balcani (Ibidem).

Il primo percorso individuato rappresenterebbe la via meno pericolosa e più dispendiosa dal punto di vista economico: intrapreso dalle componenti più benestanti della migrazione per il suo costo, comporta l’ingresso in Russia e/o nei Paesi dell’Est Europa con visto regolare e successivamente l’accesso “irregolare” nell’Unione Europea. Questa rotta è sensibile all’instabilità politica interna al Bangladesh, all’ampliamento dell’Unione Europea ed è influenzata dalle relazioni politiche e diplomatiche tra il Bangladesh e l’ex Unione Sovietica. La Russia, fino all’’89 fedele alleata del Bangladesh guidato dall’Awami League e successivamente considerata un “porto sicuro” per i rifugiati politici bangladesi che fuggono dal regime di Hershad, raffreddò i suoi rapporti con la giovane repubblica durante gli anni del governo del Bnp; nonostante il recente ritorno al governo dell’Awami League, l’allargamento a Est dell’Unione Europea ha portato a un aumento delle pressioni su Mosca per rendere meno facile l’ottenimento dei visti di ingresso (Priori, 2012).

L’ingresso attraverso la “frontiera sud”, invece, sembra essere il più economico, ma anche il più pericoloso. Molti bangladesi, impossibilitati a viaggiare regolarmente o a percorrere traiettorie più sicure, hanno ricalcato i pre-esistenti modelli migratori e si sono uniti ai migranti di altre nazionalità (soprattutto africane) sfidando la fortuna nel Mediterraneo. È stato lungo questo passaggio che ha avuto luogo quella che in Bangladesh è conosciuta come Mediterranean boat tragedy, il naufragio avvenuto nel dicembre 2004, in cui 26 giovani bangladesi tra i 17 e i 35 anni morirono, durante una traversata che avrebbe dovuto portarli dal Maroccco alla Spagna (Zeitlyn, 2007).

L’ultima rotta sembra acquistare popolarità negli ultimi anni soprattutto in seguito all’ingresso nell’Unione Europea di Malta e Cipro e presuppone l’attraversamento via terra del Pakistan e dell’Iran per giungere in Turchia e, infine, entrare, sempre irregolarmente, in Europa dalla Grecia o dai Paesi di recente ingresso nell’Unione Europea.

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Rotte della migrazione dal Bangladesh all’Italia, negli anni 90 (elab. Della Puppa)

  Un fenomeno “nuovo”?

  I probashi richiedenti protezione  internazionale in Italia

L’approfondimento delle rotte migratorie intraprese dai probashi diretti verso l’Europa, porta a illuminare un fenomeno relativamente nuovo nella cosiddetta diaspora bangladese, quello del crescente numero di arrivi di rifugiati e richiedenti protezione umanitaria bangladesi sulle coste italiane: quasi 9 mila persone nei primi sette mesi del 2017 secondo il Ministero dell’Interno, costitiscono il secondo gruppo nazionale più numeroso sulla rotta del Mediterraneo centrale, dopo i nigeriani.

Si tratta di una sorta di “migrazione secondaria” agita dai bangladesi immigrati in Medio Oriente (Abrar, 2000; 2008; Kibria, 2011; Siddiqui, 2003) come “lavoratori temporaneamente ospiti” che, come è stato già descritto, trovano inserimento lavorativo – spesso in condizioni para-schiavili e di totale esclusione (Gambino, 2003; Longhi, 2012) – in seguito alla stipula di contratti della durata compresa tra tre e i dieci anni, a loro volta frutto di accordi tra le aziende private dei Paesi di reclutamento e il Paese di origine. Veri e propri gastarbeiter, solitamente originari dalle aree rurali dei Paesi del subcontinente indiano, possessori di un modesto capitale economico e culturale di partenza che, attraverso la migrazione per lavoro in un Paese produttore di petrolio, tentano di accumulare risorse sufficienti per ripagare il debito contratto e per acquistare una casa in muratura, dare avvio a piccole attività commerciali nel Bangladesh, etc. La migrazione è gestita da agenzie di reclutamento e dalal che chiedono ai potenziali migranti – i quali si indebitano nel Paese di origine o vendono le proprietà della loro famiglia – una cifra che varia dai 3 mila ai 5 mila euro e forniscono loro il visto di ingresso [1].

Nello specifico, i rifugiati bangladesi in Italia, provengono soprattutto dalla Libia, Paese da cui scappano in seguito all’aggressione militare e al conseguente conflitto che lo ha sconvolto e lo sta sconvolgendo. Le modalità di questa migrazione secondaria sono analoghe a quelle di molti altri migranti e rifugiati originari dall’Africa sub-sahariana, quindi la fuga a piedi o con mezzi di fortuna, spesso nel deserto, e l’attraversamento del Mediterraneo su imbarcazioni altrettanto precarie e insicure.

Prima dell’aggressione militare e della crisi internazionale, la Libia era un Paese d’elezione per i bangladesi. Secondo alcune stime, attualmente vi sono oltre 20 mila lavoratori bangladesi. A tal proposito, va sottolineato che, anche nel corso del conflitto armato e la crisi in atto in Libia (ma anche Siria e Iraq), le agenzie di reclutamento hanno continuato a soddisfare le richieste delle imprese locali, reclutando manodopera dal Bangladesh. Di conseguenza, ampie quote di lavoratori bangladesi, consapevoli dei rischi e dei pericoli relativi alla situazione del contesto di destinazione, hanno intrapreso la migrazione verso la Libia. L’inasprimento e l’allargamento territoriale del conflitto hanno, però, poi spinto gli stessi lavoratori migranti a rifugiarsi oltre il Mediterraneo, intraprendendo una nuova migrazione inizialmente non pianificata (Del Franco 2018).

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Migranti bangladesi in fuga dalla Libia

Questo secondo flusso, inoltre, può essere alimentato da altri fattori. Il vuoto di potere che è venuto a crearsi dopo la caduta di Muammar Gheddafi ha generalizzato una situazione di insicurezza entro la quale organizzazioni criminali che controllano porzioni di territorio – spesso utilizzate dallo stesso governo italiano, ieri come oggi, nel controllo dell’immigrazione verso le coste a nord del Mediterraneo [2] – rapiscono e torturano i migranti bangladesi in cambio di un riscatto che questi ultimi devono pagare ricorrendo all’aiuto delle loro famiglie nel Paese di origine. Ciò, quindi, comporta un ulteriore indebitamento per i migranti e i loro familiari, oltre al debito contratto per finanziare la migrazione. Poichè il sistema bancario libico attualmente non funziona in maniera efficiente, inoltre, chi non viene sequestrato e torturato rischia di essere rapinato dei soldi destinati alle rimesse da inviare a casa, spesso accumulati in mesi o anni di lavoro nel Paese.

In seguito a tali esperienze, per molti lavoratori bangladesi l’unica soluzione è intraprendere una nuova migrazione verso l’Europa: sia perché per chi si è indebitato in Bangladesh per poter giungere in Libia, un rientro nel Paese di origine con un debito economico ulteriormente incrementato non è socialmente, materialmente ed emotivamente sostenibile; sia perché un biglietto aereo per il Bangladesh può costare fino a un anno di lavoro in Libia, mentre rischiare la vita attraverso il Mar Mediterraneo è più economico; sia perché molti, nel corso dei rapimento o delle rapine, perdono il passaporto e i documenti.

Secondo le informazioni raccolte dall’Ong “Medici senza frontiere”, la maggior parte dei bangladesi in fuga dalla Libia ha un’età compresa tra i 16 e i 35 anni e ha vissuto nel Paese nordafricano per diverso tempo. Coerentemente con la “stratificazione sociale della diaspora”, inoltre, se la prima e la seconda generazione di bangladesi, giunti in Italia tra gli anni ‘90 e gli anni 2000, erano costituite da giovani istruiti delle aree urbane, appartenenti alle classi medie (e medio-alte) del Paese di origine, i giovanissimi probashi che fuggono dalla Libia attraverso il Mediterraneo per giungere sulle coste italiane fanno parte della classe lavoratrice delle aree rurali del Bangladesh. Ecco dunque che questi segmenti di quella che, dalla prospettiva dei Paesi di destinazione della diaspora bangladese in Europa, costituiscono l’omogenea “comunità bangladese”, nutrono aspettative, perseguono progettualità e hanno priorità fortemente diverse, condividendo background familiare, capitale culturale e collocazione sociale sensibilmente eterogenei. Analogamente, se per molti richiedenti protezione internazionale siriani o iracheni, professionisti di classe medio-alta, che fuggono dal loro Paese a causa della distruzione del conflitto armato, l’Italia non costituisce una meta appetibile, rispetto ad altri contesti, come quello tedesco o i Paesi scandinavi – anche per la crisi economica che ha colpito e sta colpendo con maggior virulenza l’Europa meridionale –, per i lavoratori salariati bangladesi ai gradini più bassi della stratificazione sociale, giungere in un Paese dell’Europa mediterranea comporta, comunque, un ampliamento delle chance di realizzazione del progetto migratorio, rispetto a quanto avrebbe potuto offrire il contesto libico.

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Assocazione Italo-Bangladese a Londra

Dall’Italia a Londoni

La riattivazione della mobilità migratoria internazionale non è un’esperienza che coinvolge unicamente i giovani probashi che fuggono dalla Libia, ma – con le debite differenze e in maniera certamente meno traumatica – caratterizza le biografie di molti bangladesi giunti in Italia tra gli anni ‘90 e gli anni 2000, appartenenti alle prime generazioni di migranti dal Delta nel sud Europa, che hanno conseguito un’elevata stabilizzazione sociale, lavorativa, abitativa, familiare, amministrativa. Secondo le stime dell’ambasciata bangladese in Italia, negli ultimi cinque anni circa 6 mila nuclei familiari con cittadinanza italiana, ma di origine bangladese, hanno lasciato la penisola per trasferirsi a Londra. Tale cifra costituisce una componente molto contenuta rispetto al numero di italiani nella City – che, secondo il censimento del 2011, si aggirerebbe attorno alle 130 mila unità (Mc Kay, 2015), mentre secondo altre fonti sarebbe addirittura ben superiore alle 200 mila (Scotto, 2015) – ma al contempo una componente molto consistente rispetto ai circa 150 mila bangladesi in Italia (Demaio, 2013).

Gli italo-bangladesi attualmente a Londra appartengono alla prima generazione di bangladesi in Italia, come accennato. All’epoca del loro arrivo, erano giovani celibi, esponenti della classe media bangladese che hanno accettato di subìre un processo di proletarizzazione in Europa pur di migliorare la propria posizione sociale rispetto al contesto di origine (Della Puppa 2014; Priori 2012). Oggi, gli esponenti di questa generazione di bangladesi in Italia, sono facilmente nelle condizioni di acquisire la cittadinanza italiana [3] e, quindi, il passaporto europeo. La cittadinanza formale assume un ruolo centrale per la concretizzazione di un nuovo progetto migratorio, poiché diventando cittadino di un Paese membro si acquisisce la possibilità di spostarsi entro il territorio dell’UE.

Alcuni studi (Della Puppa and King, 2018; Della Puppa e Sredanovic, 2015), mostrano come motivazione delle famiglie italo-bangladesi a Londra sia solo marginalmente riconducibile alla crisi economica. Se, infatti, è vero che la crisi ha colpito e sta colpendo più aspramente gli immigrati (Bonifazi e Marini 2011; Cillo e Perocco, 2014; Fondazione Leone Moressa 2015; Reyneri 2010), è anche vero che gli italo-bangladesi a Londra riferiscono che, quando residenti in Italia, lavoravano stabilmente, con contratto a tempo indeterminato, ribadendo di non aver avuto particolari preoccupazioni relativamente al mantenimento del posto di lavoro. Per questi migranti, infatti, più che l’aspetto strettamente e contingentemente economico della crisi, ciò che ha determinato la loro scelta è stata la presa di coscienza dell’impossibilità di un miglioramento in termini di mobilità sociale ascendente, in quanto immigrati, nel contesto italiano segnato dalla crisi.

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White Chapel, Londra

Una simile “fuga” dall’immobilità socio-economica dello scenario italiano viene rappresentata come un investimento sulle e per le nuove generazioni. Per questi probashi, la migrazione nell’Europa mediterranea ha costituito una strategia di riattivazione della mobilità sociale ascendente e di soddisfacimento di aspettative di realizzazione frustrate dall’instabilità politica (Van Schendel 2009) e dagli aggiustamenti strutturali imposti al Bangladesh dagli organismi finanziari internazionali (Chossudovski 2003; Muhammad 2007), come precedentemente illustrato.

Negli anni ’90, infatti, la società italiana presentava un’economia ancora vagamente in espansione, un mercato del lavoro relativamente includente e politiche migratorie – per quanto oggettivamente discriminatorie – «strumentalmente lassiste» (Della Puppa 2014), costituendo, così, un contesto in cui poter aspirare a un miglioramento sociale. Oggi, invece, quella italiana si configura come una società immobile e asfittica in cui le possibilità di realizzazione delle classi meno abbienti sono pressoché azzerate. Ecco, quindi, che per i padri “primomigranti”, l’unico modo per non vanificare gli sforzi e le sofferenze dell’esperienza migratoria fino ad ora vissuta è ipotecare le conquiste sociali e materiali realizzate in Italia per investire sull’avvenire dei discendenti in un diverso contesto nazionale.

Le famiglie bangladesi protagoniste di tale nuova esperienza migratoria intra-europea perseguono, così facendo, anche una socializzazione e una scolarizzazione in lingua inglese ed entro il sistema formativo britannico per i figli nati in Italia. I “primomigranti” bangladesi, infatti, colgono lucidamente che l’ampliamento delle opportunità di realizzazione socio-economica da loro auspicato per le nuove generazioni non può che avvenire in un mercato del lavoro internazionale e attraverso una mobilità geografica che trascende i confini nazionali e, probabilmente, europei. Un’istruzione universitaria nel contesto britannico, quindi, costituisce una strada privilegiata per offrire alle nuove generazioni migliori chance di inserimento nei segmenti più alti del mercato del lavoro, così da evitare che vengano ripercorse le traiettorie lavorative che caratterizzano le biografie degli immigrati in Italia (Ambrosini, 2005; Ismu et allii, 2010; Perocco, 2012; Zanfrini, 2010).

Londra viene percepita – non senza una certa dose di idealizzazione – come un contesto dinamico e meritocratico che permette anche ai giovani in possesso di elementi che ne “tradiscono” l’origine immigrata, quali il nome e i caratteri somatici, di valorizzare le proprie capacità e i propri risultati. La presunta meritocrazia che caratterizzerebbe la capitale britannica viene messa in relazione alla governance del multiculturalismo britannico: una tradizione che avrebbe contribuito alla costruzione di una società in cui le appartenenze “etnico-razziali”, l’origine nazionale e la fede religiosa non costituirebbero uno stigma discriminante per i giovani di origine extra-europea nel mercato del lavoro. Una simile rappresentazione, però, viene ricondotta anche all’eredità dell’imperialismo britannico e, di conseguenza, alla lunga traduzione migratoria che ha legato il subcontinente indiano alla madrepatria coloniale sin dal XXVII secolo e che ha permesso la creazione della più antica e grande comunità bangladese al di fuori del Bangladesh (Adams, 1987).

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Brick Lane, Londra

Un ulteriore prodotto dell’eredità coloniale è anche il senso di ammirazione e attrazione che i cittadini delle periferie coloniali provano per il centro londinese. Nonostante l’impero britannico abbia impoverito, depauperato, rapinato il subcontinente e le sue popolazioni, gettando le basi per un legame di dipendenza economica e per un’emigrazione di massa, ha anche posto le fondamenta per il sistema amministra- tivo, giuridico, scolastico, politico e sociale, modellando gli orizzonti aspirazionali e gli immaginari di generazioni di bengalesi, per le quali Londra continua a costituire un “sogno migratorio”. Per coloro che circa un ventennio fa sono giunti nell’Europa mediterranea, si tratta di un sogno finalmente “a portata di mano”.

In quanto cittadini europei residenti sul suolo del Regno Unito, dunque, gli italo-bangladesi hanno diritto ai sostegni dello Stato sociale britannico: un ulteriore elemento decisivo alla base della migrazione oltremanica poiché sgraverebbe i lavoratori immigrati dalle stringenti responsabilità di breadwinner, incrementerebbe la loro qualità della vita – in Italia completamente sbilanciata sulla dimensione lavorativa – e costituirebbe una rete di sicurezza su cui poter fare affidamento.

Dagli anni ’90 in poi, quindi, l’Italia è diventata inaspettatamente protagonista di quella che può essere definita una vera e propria diaspora di portata mondiale, quella bangladese. Un segmento di tale migrazione internazionale – storicamente orientata verso Londra – infatti, troverà, nella penisola, un contesto di vita stabile, caratterizzato da un mercato del lavoro relativamente inclusivo, politiche migratorie già definite “strumentalmente lassiste” e opportunità di crescita sociale. Nel giro di un ventennio, però, il panorama europeo inizia a cambiare radicalmente in seguito alla crisi economica globale, i cui effetti si fanno particolarmente intensi nell’area mediterranea. Col volto della società italiana, dunque, cambieranno anche i progetti e le traiettorie degli immigrati – nel frattempo cittadini europei. Da lì a poco, quindi, il rapido processo di radicamento dell’immigrazione bangladese attraverserà una fase inedita, proiettandosi verso più prestigiosi e idealizzati snodi della diaspora in Europa, primo fra tutti Londra che non avrebbe mai perso il fascino attrattivo proprio della sua natura di madrepatria coloniale (Della Puppa, 2014; Della Puppa e Gelati, 2015; Della Puppa and King, 2018).

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East London Mosque, Londra

Le spinte soggettive e oggettive alla base di tale riattivazione della mobilità migratoria permettono di delineare, per contrasto, le rappresentazioni e le percezioni dei migranti relativamente alla società italiana. Emergono, così, i contorni di un Paese profondamente in crisi dal punto di vista economico e sociale, incapace di offrire alle nuove generazioni migliori opportunità di realizzazione rispetto a quelle (relative) di cui hanno goduto le precedenti. Una società asfittica e che ancora non riesce a scindere la cittadinanza formale dall’appartenenza “etnico-nazionale” dei suoi cittadini. Un mercato del lavoro che segrega i lavoratori di origine non italiana e i loro discendenti nei segmenti più bassi, meno retribuiti, più usuranti e pericolosi. Un sistema scolastico e universitario che esclude e marginalizza sistematicamente gli alunni appartenenti alle così dette “seconde generazioni”. Un welfare che, oltre ad attraversare un processo di radicale smantellamento, non sembra fornire una soglia minima di sicurezza per le famiglie lavoratrici.

È possibile, inoltre, avanzare alcune ulteriori riflessioni. Va sottolineato, innanzitutto, che gli europei con background migratorio, come i cittadini italiani di origine bangladese, spesso, attraverso le loro pratiche, strategie, traiettorie, progettualità e attese, danno prova di essere “più europei degli europei” di origine autoctona. Essi, infatti, sviluppano e praticano un orizzonte di opportunità che trascende dai confini nazionali, investendo forme di capitali e aspirazioni che i cittadini autoctoni spesso non posseggono. Infine, va rilevato che questa “nuova migrazione” si inserisce nel continuum di un’unica biografia migratoria: se il significato della migrazione dal Bangladesh all’Italia e delle sofferenze per una vita in un Paese diverso da quello di nascita è rintracciabile nella ricerca di mobilità sociale ascendente, la nuova migrazione dall’Italia a Londra appare l’unica strada percorribile affinché le scelte passate e l’intera esistenza di questi migranti – caratterizzati da una specifica collocazione di classe e da una specifica appartenenza socio-culturale e familiare in Bangladesh – continuino ad avere senso.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018 
Note
[1] Su questo aspetto si veda il documentario di D. Muñoz e S. Rahaman, Tres tristes tigres, Six Oranges, Cambridge, 2010.
[2] A tal proposito rimando ai lavori di Andrea Segre, Mare chiuso, ZaLab, Padova, 2012, e il recente L’ordine delle cose.
[3] Dieci anni di residenza regolare e continuativa sul territorio nazionale e un reddito adeguato.
 Riferimenti bibliografici
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Francesco Della Puppa, ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e membro del Master su Fenomeni Migratori e Trasformazioni Sociali e del Laboratorio di Ricerca Sociale della medesima università. Da anni studia i processi di migrazione dal Bangladesh, i suoi attuali interessi di ricerca sono relativi alla famiglia immigrata e al processo di ricongiungimento familiare, alle onward migration e alla mobilità migratoria intraeuropea, ai giovani di origine immigrata, all’engendering migration, alle migrazioni forzate e ai richiedenti protezione internazionale in Italia.
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