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Le identità dell’identità: mondi speculari e vite parallele

Tina-Modotti-autoritratto

Ilse Bing, autoritratto con Leica,
1931

di Valeria Dell’Orzo

L’individuo, il suo modo di relazionarsi con gli altri e con se stesso, è il risultato di un doppio processo, personale e collettivo, frutto delle relazioni comunitarie entro cui si agisce, degli scambi tra l’io e quell’habitus all’interno del quale, e insieme al quale, si costituiscono e si diramano le azioni che danno vita alla riproduzione sociale, che ogni singolo contribuisce a creare col proprio agire (Bourdieu 1992).

Ma se vogliamo avvicinarci alla comprensione del più recente equilibrio sociale, ciò su cui diventa imprescindibile fissare lo sguardo è il risultato, sull’individuo e dunque sulla società, dell’agire all’interno di un habitus storicamente nuovo come quello intangibile e invasivo delle rete, entro il quale non solo i giovani nativi digitali ma fasce sempre più estese di popolazione – gli immigrati digitali tuffatisi in questo mondo dilagato dopo la loro nascita (Prensky 2001) –  si muovono in un continuo attraversamento dello schermo, ristrutturando le basi della loro identità e socialità coi mattoni di una quotidianità virtu-reale (Matera 2017). Occorre soffermarsi sul processo di genesi continua delle identità del singolo, considerando i volti e le maschere che gli abitanti digitali assumono, entro quello spazio di riproduzione sociale esterno allo schermo che si costruisce con la partecipazione corale e con i riflessi di una realtà parallela e fittizia.

In un quotidiano che preme per fare della massificazione la risposta alla poliedrica varietà degli individui, la diffusione dell’uso della rete, le possibilità offerte dalla sua immediatezza globale e l’attrazione illusoria di annullare le distanze, hanno fatto sì che l’esistenza all’interno dello spazio virtuale divenisse un tratto imprescindibile di quella esterna, e che l’abitudine al mezzo si tramutasse, per questioni pratiche e lavorative o per non essere esclusi dai propri stessi nuclei di riferimento, in una necessità d’uso. La vita costruita sul web si fa corpo estroflesso sulla vita quotidiana.

Occorre quindi includere nell’osservazione dell’uomo contemporaneo i meccanismi e gli effetti relativi all’utilizzo di strumenti, oggetti fisici e concettuali che vengono usati ma che a loro volta creano, originano nuovi soggetti (Canevacci 2007), come le piattaforme digitali che raggiungiamo attraverso i nostri dispositivi e a cui siamo legati in un sistema di interdipendenza, di necessità comunicativa e di espressione ma anche di affermazione di un’esistenza virtuale inscindibile da quella fisica (Miller 2013), non sempre speculare a quest’ultima ma non meno rilevante. Si tratta di riconoscere la realtà dell’esistenza individuale e sociale che parallelamente si sviluppa dentro e fuori lo spazio del social web, per cogliere l’incidenza che questa dicotomia assume nel contesto attuale, di osservare cioè come la centralità dell’individuo si collochi a cavallo della propria duplice e spesso dissonante percezione, o riproduzione, attraverso le realtà incidenti che si muovono lungo i due fronti dello schermo, per avvicinarsi al nocciolo dell’io, individuale e collettivo.

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Woodman, Senza titolo, 1979

Le piattaforme sociali su cui tutti ormai poggiamo il nostro corpo e le nostre pratiche quotidiane producono in seno alla società una realtà binaria, il doppio difforme o conforme tra l’identità che agiamo e agitiamo nel mondo fisico e quella che eleggiamo e assumiamo  nel mondo virtuale. Al mutare del luogo di riproduzione sociale, muta l’immagine dell’identità del singolo. Se prima quest’opera di costruzione era inscindibile dal contesto socio geografico entro il quale si costituiva e agiva, oggi il luogo di creazione si è esteso, si è unificato innaturalmente nello spazio pixellato dei monitor in cui si muovono e interagiscono le virtuali metà dell’io di ciascun utente. E così si è giunti alla creazione di un altro noi che esiste in rete, che comunica e tesse relazioni interpersonali, assume un ruolo socialmente condiviso, un ruolo che non sempre si allinea con quello agito all’esterno delle piattaforme, ma capace di sostituirsi al primo, di esserne vicario, sotto la spinta incessante della visibilità del web.

In modo più o meno attento e volontario tutti noi selezioniamo dei tratti caratterizzanti per presentarci agli altri, sia nelle relazioni dirette e esterne al web sia per rappresentarci nello spazio virtuale, dove l’alterazione e la selezione di ciò che di noi stessi vogliamo comunicare diventa esplicita raffigurazione. Presenza-assenza/attività-passività sono mutate al crescere ed espandersi dell’uso dei social e della rete, la microcontinuità dell’uomo si è adattata e ha adattato il web e l’immagine che filtra e rimanda e costruisce. La persona diventa un’accurata opera di cesello tra immagini e contenuti, pensieri da rendere pubblici e da diffondere come bandiera di un io, di un’emotività che stenta a trasparire in assenza del contatto visivo e che va dunque associata all’utilizzo di emoticon, di come ti senti” e a cosa stai pensando; il nostro volto si fissa nella sequenza di foto accuratamente scelte, ritagliate, modificate, immagini fisse di una maschera come icone statiche dell’io.

La proiezione autocostruita del noi continua a delinearsi attraverso le informazioni che scegliamo di condividere con la platea degli osservatori partecipanti della piattaforma, con i link che mostrano i nostri interessi, o meglio quelli interessi che scegliamo di comunicare per rappresentarci. Ma questa è solo la parte autogestita, sia pure influenzata dalle relazioni interpersonali, della raffigurazione del sé, del gioco delle parti che si sceglie di interpretare in uno spazio che appare irreale e ludico ma che permette di esternare quel taciuto che spesso non si sa o non si può esplicitare nel mondo reale. Vi è poi, non meno gravosa, la maschera che gli altri, l’indistinta e innumerevole massa che forma il web, può decidere di darci e di trascinare fuori dallo schermo: in questo caso la scissione tra le diverse realtà che producono l’unicum dell’individuo si fa spesso insostenibile.

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Francesca Woodman, Self Deceit

Quello della rete è, a tutti gli effetti, un mondo doppio, parallelo e performante, è uno spazio in cui il quotidiano fisico viene sottratto e riprodotto, oggettualizzando e  annullando l’umanità del soggetto di cui sempre più se ne confonde il profilo con una proiezione bidimensionale che congela la capacità di riflettersi nell’altro; l’interlocutore offuscato dietro un monitor diventa meno umano, meno vicino all’idea di un noi; e così umiliarlo, deriderlo, annichilirlo con un’identità parallela, o farne con uguale facilità un feticcio da idolatrare e emulare diventa possibile e irrilevante nella coscienza di chi non ha gli strumenti per riconoscere l’umanità speculare oltre lo schermo.

Ma è un gioco tra proiezioni di individui reali quello che si dirama e si dipana in rete e quindi è una realtà che esiste nel virtuale ma è al tempo stesso una dimensione capace di allungare i propri riflessi nella quotidianità del mondo tangibile, l’agire nello spazio virtuale non mostra immediatamente la sua concretezza, ma inscena acclamazione, berlina pubblica, crea nuovi modi di percepire se stessi che, sia pur svolgendosi nello spazio disumanizzato del display, colpiscono il sentire intimo del singolo, così che il vissuto virtuale si fonde e si confonde con il vissuto quotidiano, alterando la percezione di sé e degli altri. È nella distorsione linguistica dell’ossimoro realtà virtuale che si palesa, in tutta la sua eclatante evidenza, la capacità di compressione che il mondo della rete può esercitare su quello che ne sta al di fuori; la realtà virtuale è realtà empirica, datità fisica in un contesto esistenziale costantemente in bilico tra le due dimensioni sociali.

A ogni ruolo sociale corrisponde uno strutturarsi di identità (Kellner 1983) ma il continuo passaggio tra i ruoli spesso difformi, alternati dentro e fuori il web, ha fatto sì che milioni di persone gestiscano oggi una doppia identità, quella social che di quel mondo segue regole, forme rappresentative e codici condivisi, e quella esterna, materiale, corporea, fattuale. Ma queste due o più identità agite di continuo non sono in obiecto separate come nell’interpretazione di un gioco temporalmente limitato, sono compartecipate e compresenti, potremmo dire consustanziali, in un continuo fluire dello spazio (e del tempo) attraverso lo schermo.

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Francesca Woodman, particolare

Il doppio che prende vita nei social può divenire il fantoccio di ciò che vorremmo essere, può rappresentare l’immagine costruita di ciò che gli altri preferiscono di noi, ma diviene anche la maschera che l’indistinto popolo della rete ci affibbia, o la marionetta da manovrare in un profilo falso e gemello, il palesarsi di una identità altra, priva di memoria e esperienza, nata per mano altrui dentro un mondo speculare.

I fatti di cronaca mostrano spesso gli effetti della relazione che intercorre tra quello che avviene nello spazio dei social e quanto poi si concretizza nella vita fuori dallo schermo. Ne sono un esempio evidente i deliranti giochi basati sul superamento di prove estreme e avulse dal contesto, dal blue whale, che educa gradualmente al suicidio, alle sfide sequenziali come la neknomination o la condom snorting challenge, pericolose quanto slegate dalla cultura esterna al web; ovvero le innumerevoli vittime del cyberbullismo, esteso ben oltre le drammatiche frontiere del bullismo di classe, che nei casi peggiori ricorrono a gesti estremi per interrompere l’assillante sequela di attacchi indirizzati alla loro immagine virtuale, predominante rispetto a quello che si era stati prima, un io extra-rappresentato nello spazio dei pixel che diventa più reale di quello che si muove nella realtà fisica, un’immagine virtuale capace di fagocitare la sua speculare immagine concreta perché più diffusa, più facilmente condivisibile nel gioco sadico della derisione e dell’oltraggio, ben oltre il giro delle proprie conoscenze.

Quella virtuale diventa un’immagine di sé estendibile nel passaparola oltre quei limiti della socialità cui storicamente e fisicamente siamo predisposti, e dunque incontrollabile, imprevedibile e avvilente. Nei fenomeni di cyber bullismo, la creazione esterna, derisoria e violenta, di un’immagine identitaria che prende vita nel tempo accelerato del virtuale e si impone al reale, costringe il singolo a riformulare la struttura del sé e a riadattare la percezione del quotidiano al prorompere oppressivo non solo di un fenomeno esterno, ma di una nuova identità preconfezionata che si sovrappone alla propria, a quella costruita dalle stratificazioni del vivere, così da veicolarne le aspettative e le reazioni. L’io fisico, piegato dal giogo della raffigurazione inarrestabile e dilagante di una propria immagine speculare e conflittualmente volta contro se stesso, diventa il fantoccio del proprio avatar, subisce la vergogna o l’esaltazione che il popolo digitale associa alla sua realtà, perde quella iniziale e attrattiva possibilità di scegliere l’immagine di sé da comunicare agli altri, a una platea vergine e sconosciuta a cui presentarsi secondo i propri desideri, e rimane incollato e condannato a un doppio derisibile.

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Elliott Erwitt, Retrospective

Il sistema autopoietico che ha retto le società umane si è terribilmente spostato nel mondo virtuale, e si è riformulato sulla base di uno spazio relazionale nuovo. Da lì, per la crescente estensione del virtuale nello spazio del reale, si è passati alla riformulazione di un’autopoiesi quotidiana legata ai meccanismi che si rivelano funzionali nello spazio dei social (Di Gregorio 2017). Muta così il senso intimo di rete sociale, si estende, si sfilaccia in rapporti che si limitano alla possibilità reciproca di spiare immagini selezionate, muta il senso della partecipazione, relegata alla pressione su un segui o condividi, muta il modo di comunicare, sempre più dipendente dalle raffigurazioni iconiche delle emoticons, sostituti standardizzati del contatto visivo e sonoro e, nella stretta correlazione tra linguaggio e cultura, quel sistema che parla della società che lo utilizza modificandosi altera le regole sociali del sistema entro cui è condiviso, fino a delinearne un profilo nuovo (Sapir-Whorf 2017), un profilo globalizzato diffuso e appiattito nell’omologazione a un sistema slegato dal contesto locale, pensato e strutturato per la gestione di rapporti umani nel campo virtuale.

Agendo costantemente nello spazio del social web, col filtro di una rappresentazione ipercostruita, cambia, rispetto al mondo fuori dallo schermo, il nostro modo di relazionarci, di raffigurarci e di raffigurare gli altri nel virtuale, a causa dell’assuefazione, socialmente condivisa, alle regole del web.  E così, attraverso l’abitudine a un mondo comunitario parallelo e all’interno del quale non vigono i limiti e le regole di relazione sociale strutturate nel convivere quotidiano, funzionali e specifiche di ogni realtà comunitaria, la capacità di diffusione simbolica del mondo dei social trasforma quegli alter ego virtuali nei volti predominanti dell’io (Dennett 2009).

L’antropologia della contemporaneità deve, dunque, interrogarsi sulla nuova antropopoiesi e  indagare la costruzione e il riformularsi dell’uomo, nel concreto del pensare, del sentire, del vivere, a seguito dello scontro con una nuova identità del sé,  lungo le trame della rete sociale entro cui si muove e che lui stesso tesse. Occorre indagare gli abissi di questo fenomeno sociale e identificare le strategie di resilienza culturalmente connotate e frutto di quella amalgama inscindibile di atti mentali, personali e collettivi, ricordi autobiografici e momenti esperienziali socialmente condivisi che costituiscono la realtà vera (Bruner 2003) da opporre alle derive fuorvianti di una duplicazione costante e parallela dell’io.

Che il web sia un luogo non solo virtuale ma capace di plasmare il quotidiano sociale è una condizione che va compresa nel profondo, per pensare, strutturare e imparare a gestire collettivamente dei percorsi educativi e di comprensione diffusa della realtà virtuale; è necessario ripensare e fare propri, alla velocità scandita dal nostro tempo, nuovi significanti che possano rendere immediato il significato dei nuovi algoritmi dei nascenti fenomeni. Occorre creare nuove strutture personali, e quindi sociali per gestire l’interrelazione tra mondo fisico e mondo web, nella consapevolezza della non scindibilità dei due spazi nell’unica vita possibile.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
 Riferimenti bibliografici
P. Berger, B. Berger, H.Kellner, La pluralizzazione dei mondi della vita, in L. Sciolla (a cura di),  Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg &Sellier, Torino, 1983
J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari, 2003.
P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
M. Canevacci, La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Meltemi, Milano, 2007.
D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, Laterza, Roma-Bari, 2009.
L. Di Gregorio, La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone, Franco Angeli, Milano, 2017.
V. Matera, Antropologia contemporanea: La diversità culturale in un mondo globale, Laterza, Bari, 2017.
D. Miller, Per un’antropologia delle cose, Ledizioni, Milano, 2013.
M. Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in On the Horizon, MCB University press, vol. 9, n. 5, ottobre 2001.
E. Sapir, B. L. Whorf, Linguaggio e relatività, a cura di M. Carassai, E. Crucianelli, Castelvecchi,  Roma, 2017.
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 Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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