Simone Gulì, palermitano, capitano del transatlantico Principessa Mafalda, valoroso della grande guerra, comandò alla banda di suonare la marcia reale, gridò viva l’Italia, e si inabissò con l’orgogliosa nave insieme a 305 passeggeri e altri 8 marinai. Il 25 ottobre del 1927. Proprio davanti alla costa brasiliana di Bahia. Erano scoppiate le caldaie.
Sembra la scena finale di un film di Hollywood prima delle gesta di Humphrey Bogart, ma è l’incipit avanzato del terzo volume di Mario Genco, giornalista e scrittore, sulla Gente di Mare, edito da Torri del Vento. Marinai, barche e barchette, avventure e disastri, coraggio fortunato e destini implacabili scorrono sul sottocoperta sociale, civile ed economico dall’ultimo Settecento sino ad arrivare al Secolo Breve, stremati: da centinaia e centinaia fino a contarsi, nella seconda metà del ‘900, sulle dita delle mani.
Un mondo che fu, custodito con nomi e cognomi, nelle carte di istituzioni marittime, archivi storici e dalle lapidi dei cimiteri; c’è pure qualche strada che reca nomi oramai ignoti, come la via Comandante Simone Gulì, all’Acquasanta, quartiere marinaro di Palermo. Oppure, nei paraggi, via Enrico Fileti, altro marittimo d’ardimento, che la notte del 29 giugno 1912, con mare mossissimo, a Derna, in Cirenaica, riuscì ad imbarcare sul piroscafo requisito Favignana molti feriti dell’“Impresa di Libia” senza una piega e riportarseli a casa. L’equipaggio non volle soldi per lo straordinario e non gli diedero nessuna medaglia.
Un epos “liquido” che Genco evoca violando la polvere della memoria scritta, soprattutto degli archivi, con una lingua pieghevole che sempre aderisce al racconto, venata da una sottomarina simpatia e senza distrazioni su documenti, cronache e brandelli di storia.
Guerre e pace, con ciurme e capitani che navigavano per i sette mari più tutti gli oceani, doppiavano il Capo di Buona Speranza, il tempestoso Capo Horn e, molto spesso, beccheggiando in direzione ostinata e contraria ammainavano le vele in lontanissimi dovunque. Scaricavano e caricavano, non di rado facendo i conti con truffaldini e truffaldoni; ogni tanto qualcuno di loro, per una tragica litote, «sbarcava in mare» oppure «non risultava fra gli scampati».
Pagine dense di avvenimenti, tutti che sanno di avventura pure se sulle rotte delle spezie, dei commerci che una volta Palermo sosteneva, del va e vieni per le Americhe con le stive stracolme di rinfuse del Made in Sicily, oppure con i ponti affollati di poveri che avevano ancora un sogno verso ovest. Genco si sofferma, descrive, narra anche con nomi e cognomi, ripesca storie che in pochi decenni si sono inabissate.
Un film, di quelli in bianco e nero, saga di Josef von Sternberg, con Peter Lorre o Charles Laughton, la vicenda del bastimento Clementina che a Sumatra doveva riempire le stive di prezioso piper nigrum, esclusivo dell’Isola. Un imbroglio durante il carico scatenò l’arrembaggio di malesi diventati pirati, che uccisero il capitano e altri marinai, devastarono e depredarono, mentre due «fucili con carica semplice» affidati a un marinaio, come negli incubi più malvagi fecero cilecca.
Ecco, nel libro sembra siano abbandonati acconti di romanzi, prime righe di racconti alla Mutis, Conrad, del sedentario Salgari; a tratti pare di vedere Maqroll il gabbiere attraversare tolde palermitane, e nei reali personaggi stanati dall’oblio tanti probabili Abdul Bashur, sognatore di navi, con l’ombra di Corto Maltese ritta a prua.
Chissà se la maggior parte dei naviganti palermitani e siciliani vide mai i delfini danzare sull’onda di prua. Erano fuochisti, manodopera alle macchine, carbonai, cambusieri, cuochi: tutta gente da sottocoperta, dove più intenso giunge il tanfo della sentina che lo spumoso odore dell’aria sospinto da venti puliti o attorcigliati. Ma si intuisce, sino ad immaginare come andavano le cose di mare nell’Ottocento e nel primo Novecento pullulati di armatori – piccoli e grandi – spedizionieri, grossi commercianti che, prima o poi, per non pagare più i noli compravano un bastimento.
Non era solo Palermo a sostenere un traffico marittimo che incideva notevolmente sulla sua economia, ma anche Trapani, Siracusa, le altre grandi città siciliane e alcuni “caricatori” – attracchi dove si caricavano merci, specie lo zolfo e il sale – che diventavano porto. Perciò venivano istituite e ammodernate illustri scuole nautiche dove si formavano ufficiali e grandi navigatori sensibili alle sirene dell’Oriente e dell’Occidente più agitati e lontani. Il resto degli equipaggi erano pescatori stanchi di traccheggiare con pozzali, palamiti e tartaroni.
Dinastie di capitani, nomi che si accavallano nei decenni sempre gli stessi, esperti comandanti anche prima dei trent’anni, bambini da quinta elementare a ruolo come mozzi, non di rado “sbarcati in mare” nella sventura di fortunali, bufere e tifoni. Come Leonardo Davì, classe 1866, mozzo a dodici anni, cancellato dai ruoli nel ‘79 a causa di «scomparizione in mare». Insomma, gente lesta ad annodare la gassa d’amante e che sapeva innaffiare i gelsomini.
La penna di Genco continua a intingersi nel blu mediterraneo, dei mari del sud e in quello scuro degli oceani per raccontare lungo un’esile rotta storia e storie ruzzolate al di sotto della linea di galleggiamento della memoria, ma che chiaramente sostengono le ragioni della Sicilia di mare, dimenticata più facilmente di quella di terra, dei feudi e della fame patita sulle zolle.
Apprendiamo che Palermo e la Sicilia erano affollate da giornali, a volte pubblicati ogni tre giorni, settimanali, quindicinali, mensili. Il Vapore, L’Oreteo, L’Imparziale, Il Raccoglitore, Il Caffè e tanti altri e, quasi tutti, offrivano un figurino di moda o carte di musica e si premuravano di ricordare di essere «istruttivi e dilettevoli». Protoinserti laconici ma attesi da drappelli di elegantoni, sartorie e loggioni. E rendevano conto di venture e sventure sul mare, di carichi andati a male, di fortunati commerci e delle intraprese mai tentate prima per sconoscenza o ritardo di coraggio, con i brigantini a palo e i piroscafi che salpavano fra lo sventolìo di fazzoletti. C’erano martingane pinchi tartane, sciabecchi e bombarde, polacche trabaccoli e golette. E i barchi.
Un mio vicino di banco, che mi raccontava della sua casa con le stanze tutte di colore diverso, scrisse barco un volta sul quaderno di bella. E venne punito con un pignateddu da un insegnante sprezzante e orchigno. Ma il ragazzino aveva una sua ragione clandestina, appresa fra quelle stanze colorate dalle parlate familiari, dai nonni a piedi nudi e i pantaloni rimboccati che andavano in giro con l’avugghia della sarcitura dimenticata sull’orecchio.
Continuando a leggere, si può essere pervasi dalla sensazione di contemporaneità con quella vita marittima alacre, profumata di spezie e merci siciliane ed esotiche; quotidianità popolata da una miriade di marinai giovanissimi e vecchi sino ai settant’anni – mi appaiono canuti e rugosi, con una pipa alla Sherlock – fra i quali incrociano ardimentosi sopravvissuti, discendenti di eroi silenziosi con o senza «barba nascente» e lobi bucati o «marcati artificialmente sulle braccia». Anche personaggi con insondabili lati oscuri, come quel William Carson, disertore inglese, diseredato dalla famiglia persino di una pipa, o i numerosi che sbarcavano non in mare, fugacemente riapparivano e riscomparivano fra i “due mondi”.
È difficile immaginare, oggi, un comandante con la divisa provata dalla battaglia, che attende ritto e immobile sulla plancia l’ultimo sciabordìo prima di affondare. Francesco Paolo Rallo sul suo piroscafo Adria, silurato al largo di Capo Bon nel luglio del 1918, non si mise in salvo. Giuseppe Di Bartolo, tenente di vascello dell’omonima “dinastia”, comandava una flottiglia di dragaggio: sulla rotta da Tripoli venne attaccato e ingaggiò battaglia impari per attirare l’attenzione nemica sul suo dragamine per consentire al resto del convoglio di mettersi in salvo. Non ci riuscì e si inabissò con tutto l’equipaggio. Medaglia d’oro alla memoria.
Eroi, uomini di coscienza, giovani e ragazzini distribuiti in mare nel corso di tutte le guerre e guerrette che l’Italia non si è risparmiata. A migliaia, apprendiamo, i palermitani e siciliani di Marina morti e dispersi. Solo a bordo della corazzata Regina Margherita, saltata sulle mine austriache nel campo minato italiano davanti a Valona, almeno 130 erano siciliani – e c’era un Giuseppe Di Giorgi mazarese, senza nemmeno un cortile che lo ricordi. La nave colò a picco in pochi minuti, con il comandante Giovan Battista Bozzo Gravina, capitano di vascello palermitano, e circa 680 marinai.
Nomi attribuiti a superbe navi mercantili e da guerra che presagivano grandi imprese non furono sufficienti a scongiurare la peggiore sorte. Nei cantieri di Palermo c’era un incrociatore leggero per i lavori di finitura. Era stato varato il 30 novembre del ’42, il 3 gennaio del ’43 venne affondato dalle mine di incursori inglesi. Si chiamava Ulpio Traiano, cioè l’imperatore cui si deve la massima estensione dell’impero romano.
Il Conte Verde, transatlantico invidiabile, arredato con mobilio e stile Ducrot, la grande fabbrica palermitana che ha reso elegante Montecitorio, fu sorpreso dalla dichiarazione di guerra del ’40 nei mari del sud e sfuggendo alla pronta caccia del naviglio alleato i primi di giugno attraccò a Shangai, dove sbarcarono 583 passeggeri, tra i quali 263 ebrei fuggiaschi dalla minacciosa Europa e 210 marò del Battaglione San Marco destinati ai presidi italiani di Shangai e Tientsin. Dopo l’8 settembre ’43 il comandante decise l’autoaffondamento. I giapponesi lo riportarono a galla, ma il Conte Verde non ritornò mai più in patria.
L’epilogo del libro sottolinea come dopo il secondo conflitto mondiale la marina palermitana e siciliana non abbia più trovato la linea dell’orizzonte futuro. Era precipitata nei fondali della storia la rigogliosa epoca marinara. Il grande storico Fernand Braudel elaborò il principio di “lunga durata”: avvenimenti le cui conseguenze si protraggono sino ai nostri giorni. Un “mare lungo” che i venti di terra, in Sicilia, hanno ridotto a bonaccia fradicia.
Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio, 2019
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