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Sentire camminando: etnografia dei luoghi tramite le “walking interview”

arte-camminare-1900x1080di Giovanni Gugg

Lo spazio, un prodotto sociale

Lo stato in cui si presenta il territorio, lungi dall’essere un dato “naturale”, è sempre il risultato di una interazione dell’ambiente e della cultura, cioè dell’ecosistema e degli esseri umani. L’antropologia dello spazio e del paesaggio, soffermandosi sul nesso uomo-luogo, ha evidenziato che il territorio abitato (frequentato, utilizzato) da una società «non è neutro, l’ambiente non è un puro contenitore, ma è prodotto dall’uomo che lo “umanizza”» (Segaud 2010: 18). In questo senso, spazio è, come afferma Manuel Castells, «un prodotto materiale, relazionato con gli altri elementi materiali, fra cui gli uomini, che entrano in rapporti sociali storicamente determinati, che danno allo spazio una forma, una funzione, un significato sociale». Lo spazio, cioè, diventa «il supporto materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo», ovvero il luogo – che è sempre anche simbolico – in cui vengono a riunirsi simultaneamente nel tempo delle pratiche sociali (Castells 2008: 472).

Nello spazio, dice Paul Ricoeur, possiamo riconoscere «il mezzo di inscrizione delle più lente oscillazioni che la storia conosca» (Ricoeur 2000: 190), da cui discende l’importanza che Anthony Oliver-Smith gli attribuisce «nella costruzione delle identità individuali e collettive, nella codifica e nella contestualizzazione del tempo e della storia, e nelle politiche delle relazioni interpersonali, comunitarie e interculturali» (Oliver-Smith 1996: 308). In questo quadro, individuare il “senso dei luoghi” vuol dire innanzitutto orientarsi, cioè conoscere il territorio e organizzarne le varie sfaccettature in una trama di riferimenti visibili e no. Gli esseri umani sono sempre localizzati e, specularmente, i luoghi della vita umana sono sempre soggettivati (Signorelli 2008: 43-44), ovvero ciascuno di noi condiziona i propri luoghi e, in maniera complementare, ogni luogo è in grado di farci sentire la sua influenza.

7169djc3zclIn altre parole, tra gli esseri umani e il loro ambiente viene ad istituirsi una relazione che apre ad una casistica di emozioni praticamente infinita: nostalgia, rimpianto, fiducia, orgoglio, identificazione, malessere, indifferenza… Si tratta di suggestioni disparate che si formano nella mente dei singoli, ma che si alimentano e sedimentano nella dimensione collettiva. In questo senso, le domande essenziali che ci permettono di districarci all’interno di una tale matassa sono fondamentalmente due, quelle che ci consentono di capire da un lato a che serve un luogo, come viene utilizzato e per quali ragioni, e dall’altro qual è il valore che gli attribuiscono i suoi frequentatori.

Il percorso di ricerca del “senso dei luoghi”, dunque, passa per l’investigazione del punto di vista di chi vive o si reca assiduamente in un determinato luogo; tuttavia, dentro questa dinamica è inserita ed è direttamente coinvolta pure la prospettiva del ricercatore. Anch’egli ha un punto di vista e si rapporta in maniera personale a quegli stessi spazi, anch’egli matura un proprio sentimento dei luoghi, in un cammino che da paesaggistico si fa interiore, che da spaziale diventa temporale, ma soprattutto che da individuale si rivela corale, in un flusso di conoscenza sinergico e relazionale tra intervistato e intervistatore.

Come va facendosi largo nella metodologia etnografica da alcuni anni, alle interviste di tipo tradizionale, a tavolino, si stanno affiancando le walking interview, uno strumento che lascia all’intervistato la possibilità di muoversi nello spazio di cui sta parlando e di condurvi fisicamente l’intervistatore, per meglio sottolineare la relazione tra dimensione spaziale e la propria soggettività. 

9781138244627L’antropologia in cammino

Dagli inizi del Duemila la pratica di compiere delle interviste camminando a piedi è andata diffondendosi come metodo di ricerca esplicitamente spaziale in geografia (Elwood, Martin 2000; Anderson 2004; Wylie 2005; Jones et all. 2008; Evans, Jones 2011), in sociologia (Kusenbach 2003; Moles 2008; Carpiano 2009) e in antropologia (Reed 2002; Lee, Ingold 2006; Sheller, Urry 2006). La letteratura esistente suggerisce che uno dei principali vantaggi dell’intervistare camminando sia la possibilità di accedere agli atteggiamenti delle persone e alla conoscenza che essi hanno dell’ambiente circostante. Il camminare, inteso come atto culturale conscio e non come puro spostamento meccanico sul territorio, è un’azione che coinvolge il corpo, la mente e lo spazio; per mezzo di esso possiamo conoscere in maniera sensoriale sia il mondo che noi stessi. Rebecca Solinit osserva che «camminare è, idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo» (Solnit 2002: 5). Camminando, cioè, facciamo esperienza dell’ambiente attraverso il corpo e, allo stesso tempo, conosciamo il nostro corpo attraverso lo spazio che percorriamo. Emerge, così, ciò che Edward Casey definisce il «sé geografico» («the geographical self»), ovvero un rapporto tra il sé e il luogo, che non è solo di influenza reciproca ma, più profondamente, di «co-ingredience», cioè di vera e propria simbiosi, in cui «ognuno è essenziale per l’esistenza dell’altro. Infatti, non c’è luogo senza sé e non c’è sé senza luogo» (Casey 2001: 684, 686).

Avvicinandoci ad una prospettiva più squisitamente antropologica, Tim Ingold e Jo Lee Vergunst pongono attenzione agli aspetti culturali che sono alla base del rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, e spiegano che «si tratta di processi relativi a esperienze vissute e interiorizzate, nelle quali l’ambiente circostante si insinua e lascia una traccia sul corpo, ma dalle quali – allo stesso tempo – è esso stesso influenzato. La possibilità che queste esperienze avvengano rappresenta per molte persone una delle attrattive del camminare, sebbene ci siano circostanze in cui l’immediatezza del contatto sociale con gli altri sia qualcosa da temere» (Lee, Ingold 2006: 73).

81dokkyf-flCamminare, però, non è un’esperienza esclusivamente individuale, anzi, è eminentemente sociale: «Non solo camminiamo perché siamo esseri sociali, ma siamo esseri sociali proprio perché camminiamo» (Ingold, Lee Vergunst 2008: 2). André Leroi-Gourhan giunge, addirittura, a dire che la specie umana ha “inizio con i piedi” e che sono la posizione eretta e il perfezionamento dell’andatura bipede ad aver favorito il liberarsi della mano e del viso, permettendo così migliaia di movimenti che hanno ampliato moltissimo la capacità di comunicazione dell’uomo e il suo margine di manovra nei confronti del proprio ambiente (Leroi-Gourhan 1977: 27). Nonostante si tratti di un’attività che richiede concentrazione e un certo impegno (dove mettere i piedi, scansare la gente e così via), il camminare insieme agli altri è, dunque, un potente mezzo di socializzazione: le persone guardano le stesse cose e nello stesso tempo, talvolta i loro sguardi si incrociano e la loro stessa postura è una forma di comunicazione: «Fondamentalmente, camminando fianco a fianco, le persone condividono concretamente lo stesso campo visivo. Potremmo dire che procedendo insieme io vedo ciò che tu vedi. In questo senso io sono con te nei miei movimenti, e probabilmente anche nei miei pensieri» (Lee, Ingold 2006: 80).

Gli antropologi hanno saggiato spesso questa esperienza, basti pensare alla celebre fuga di Clifford Geertz dopo il combattimento dei galli a Bali (Geertz 2001) e al rilievo che essa ha assunto nel dibattito contemporaneo interno alla disciplina. Ma al di là dei casi eclatanti, il muoversi è parte integrante del lavoro ordinario degli etnografi: essi prendono parte a processioni, transumanze, marce di protesta, seguono al lavoro i loro informatori, li raggiungono in un determinato luogo e così via (Sheller, Urry 2006: 201) [1]. Più recentemente, nelle scienze sociali sono andate sviluppandosi le cosiddette “etnografie multisituate”, che seguono, con spostamenti fisici dello studioso, i movimenti che i soggetti in esame effettuano o con sistematicità per lavoro e nella vita familiare, o eccezionalmente per questioni politiche e di migrazione. Questa metodologia, definita per la prima volta da George Marcus nel 1995, da un lato sottolinea l’interdipendenza dei territori e dall’altro comporta una riconcettualizzazione del rapporto tra locale e globale:

«La ricerca multisituata è prevista per connessioni, sentieri, fratture, congiunzioni o giustapposizioni di luoghi in cui l’etnografo stabilisce una qualche forma di presenza letterale, fisica, con l’esplicito e logico intento di associare o collegare più siti tra loro, il che rappresenta l’oggetto stesso dell’etnografia» (Marcus 1995: 105).

Camminando insieme, le distanze interpersonali si riducono e lo studioso e il suo informatore tendono ad stabilire un rapporto più vicino e condiviso, per certi versi più paritario; sperimentano un coinvolgimento che non è soltanto tra ciascuno di essi e il territorio (fatica fisica, orme nel fango, attraversamenti stradali…), ma anche e soprattutto tra loro in quanto individui sociali: l’antropologo osserva il testimone nel proprio ambiente e ne ascolta il racconto visualizzando immediatamente ciò di cui parla, fa attenzione ai suoi gesti e al tipo di interazione che intrattiene con i luoghi e con i passanti, ma il ricercatore è anche parte attiva di quanto avviene, sia perché ha costruito quella determinata situazione, sia perché finisce spesso per esserne assorbito (ma in un senso specifico che si chiarirà a breve). Gli effetti simbiotici del camminare insieme, dunque, rappresentano una condizione ideale per condurre una buona indagine etnografica e sono alla base della walking interview, una tecnica etnografica che, semplificando, può essere definita un “ibrido” tra l’osservazione partecipante e l’intervista statica di tipo classico.

9780306440717-itÈ il caso di precisare che, per quanto permetta di far emergere aspetti nascosti dell’interazione uomo/ambiente che difficilmente l’intervista “in luogo protetto” o l’osservazione senza interazione colgono, la walking interview è comunque un artificio perché in condizioni usuali è piuttosto improbabile che gli informatori vadano in giro con i loro conoscenti a discutere di percezione e di interpretazione del loro ambiente fisico e sociale quotidiano. D’altra parte, accade con una certa frequenza che, durante il percorso, incontrando dei conoscenti dell’informatore, il ricercatore sia oggetto di una sorta di “approvazione” per il solo fatto di essere in compagnia di uno dei due amici. Naturalmente, questo può tanto interferire nella conversazione, quanto aprire a nuovi contatti: in ogni caso, però, è la prova che l’intervista strada facendo “cammina sulle sue gambe” e che l’antropologo ora ne è parte integrante.

Le walking interview possono generare una ricca quantità di dati e, dunque, perché questa forma di indagine possa essere usata al meglio, è fondamentale che il ricercatore abbia ben chiaro di che tipo di informazioni necessita. Tali interviste sono particolarmente indicate, ad esempio, per analizzare il rapporto tra l’organizzazione sociale e quella spaziale (Rapoport 2003; Segaud 2010) o per accedere all’attaccamento territoriale (Altman, Low 1992), che generalmente si esprime con gesti minimi e di routine. Inoltre, rappresentano una preziosa opportunità di apertura all’imprevisto e alla sorpresa (alla «serendipità») (Signorelli 2007: 254), cioè ad aspetti che il ricercatore non aveva pianificato e/o immaginato in precedenza e che, forse, potrebbero emergere con più difficoltà nel contesto “asettico” di un’intervista al chiuso. 

51mlemxs4lLe interviste camminando: go-along, bimble e walking interview

I metodi della ricerca “in movimento” possono essere ricondotti sostanzialmente a tre: il «go-along», il «bimble» e la «walking interview» propriamente detta, a loro volta ulteriormente definibili in tipologie più specifiche. Il primo tipo consiste nel seguire l’informatore per lunghi spostamenti durante la giornata, a volte per giorni interi. Si tratta di un «lungo andare» (il termine go-along è stato coniato nel 2003 da Margarethe Kusenbach) che somiglia molto ad un pedinamento per mezzo del quale lo studioso entra nella quotidianità del proprio interlocutore: «è una forma di intervista approfondita del metodo qualitativo che, come suggerisce il nome, è condotta da ricercatori che accompagnano i singoli informatori in giro per i loro ambienti familiari, come un quartiere o un territorio più ampio» (Carpiano 2009: 264). Il go-along può svolgersi in tre modi: camminando («walking-along»), guidando («ride-along») o in una forma mista tra le due precedenti; in ogni caso «il ricercatore è “condotto attraverso” le esperienze vissute della gente del quartiere» (Carpiano 2009: 264). Secondo Kusenbach, il procedimento go-along è ideale per indagare cinque argomenti specifici, tutti particolarmente difficili da scoprire attraverso osservazioni solitarie o interviste al chiuso: la percezione individuale, ovvero la ricostruzione di come l’ambiente sociale e fisico influisca nella vita concreta degli informatori; le pratiche spaziali, vale a dire i vari gradi d’impegno che i soggetti hanno con l’ambiente; le biografie, cioè i legami tra i luoghi e le storie di vita, che non significa solo ricordare episodi del passato, ma anche visioni del futuro attraverso la rievocazione di ambizioni e progetti; l’architettura sociale di determinati ambienti come, ad esempio, i quartieri urbani, e la complessa rete di connessioni tra le persone, le loro relazioni, le reti, le gerarchie e così via che vi si realizzano; gli ambiti sociali, ovvero i prevalenti modelli di interazione in diversi campi della realtà quotidiana (quella particolare forma di “riconoscimento amichevole”, ad esempio, che l’etnografo può ricevere dai conoscenti del suo informatore cui si accennava più sopra) (Kusenbach 2003).

La seconda tipologia di intervista in movimento è quella che Jon Anderson definisce «bimble» o «aimless walk» (Anderson 2004: 257), cioè passeggiata senza meta, vagabondaggio. Proprio questa maggiore libertà di fruizione del territorio (senza il peso degli impegni giornalieri) differenzia tale tipologia da quella precedente: qui, infatti, l’accento è posto proprio sulla possibilità di percorrere i luoghi in maniera rilassata, senza alcuno scopo pratico immediato e concreto. In questo modo si attiva (o riattiva) quella complessa relazione col territorio costituita da un intreccio sinergico di esperienze, saperi e sentimenti, che a sua volta favorisce una sorta di riflessione peripatetica: «questa pratica ha offerto l’opportunità non solo di una pausa dalla monotonia o dallo stress della vita del posto, ma anche di riconnettersi con l’ambiente circostante» (Anderson 2004: 257), osserva Anderson nel suo studio sul rapporto tra un gruppo di ambientalisti e il territorio dell’Inghilterra meridionale che costoro tentavano di difendere per mezzo di cortei e marce ben più rigidamente definite.

Infine, il terzo tipo di ricerca “in movimento” è la «walking interview» che, però, assume caratteristiche differenti a seconda del tragitto in cui si svolge. Come illustrano Jones et all., si può chiedere a tutti gli intervistati di seguire un percorso standard prestabilito dal ricercatore, di modo che costui alla fine possa confrontare una serie di risposte relative ad un unico spazio (come nel caso della pianificazione di alcuni luoghi pubblici nel cuore di Birmingham, città al centro di fitti scambi studenteschi di livello europeo), oppure si può permettere ai partecipanti di scegliere il proprio percorso personale, ma all’interno di determinati confini indicati dallo studioso (è il caso del progetto di riqualificazione del Bristol Harbourside, il quartiere ex-portuale della città inglese) (Jones et all. 2008).

In un caso o nell’altro – ma lo stesso vale per le precedenti tipologie di intervista – in fase di trascrizione delle testimonianze emerge la necessità di contestualizzarne i contenuti. Per questa ragione c’è chi preferisce intervistare con la telecamera (Pink 2003), ma qui il rischio è che la presenza del video possa essere dirompente, soprattutto quando l’intervistatore deve contemporaneamente filmare, camminare e porre le domande. Ma c’è anche chi, invece, insieme alla registrazione audio usa il GPS (Global Positioning System), così poi da ricavare una mappa dei luoghi attraversati che, grazie alla sincronizzazione delle due tecnologie, restituisce la spazialità del colloquio [2]. Conoscere la posizione in cui è stato espresso un determinato commento è indispensabile per comprendere la risposta o l’argomentazione dell’intervistato. Ma lo è anche per completare un dialogo che, camminando, spesso non va oltre formule verbalmente piuttosto scarne (perché in loco gioca un ruolo importante l’evidenza dello sguardo) come «Quello che vedi laggiù è…» o «Qui una volta c’era…». Se queste informazioni non venissero accompagnate da una localizzazione precisa, una volta trascritte risulterebbero estremamente carenti o, addirittura, inutilizzabili. 

71jtqqr-slUn’esperienza etnografica strada facendo

Anni fa, mi sono occupato di una ricerca sull’elaborazione sociale del rischio vulcanico in un paese della zona rossa vesuviana (Gugg 2013): dalla selezione della memoria dell’ultima eruzione (1944), alle dinamiche politiche e urbanistiche della ricostruzione, dall’attuale discussione locale intorno al Piano di Emergenza della Protezione Civile, alle strategie di coping elaborate per far fronte al rischio della “catastrofe annunciata”. Partendo dal presupposto che lo studio del rischio e l’osservazione dello spazio sono imprescindibili l’uno dall’altro (November 2011: 26), nell’ambito del lavoro di campo – durante l’inverno e la primavera 2011 – ho ritenuto opportuno affiancare alle tradizionali interviste “a tavolino” delle interviste “strada facendo” o, appunto, walking interview, effettuate cioè lasciandomi condurre dall’intervistato attraverso i luoghi in esame. Ciò mi ha permesso di indagare il concetto di rischio a partire sia dal rapporto che i soggetti hanno tra loro nei luoghi, sia dalla relazione che essi intraprendono con i luoghi stessi (Signorelli 2008: 43-58).

Seguendo il suggerimento di vari studiosi (Kusenbach 2003; Carpiano 2009), durante la fase etnografica ho preferito variare le tipologie di intervista, sia per adattarmi alle possibilità e alle esigenze di ciascun interlocutore, sia per focalizzare ogni incontro su argomenti specifici (principalmente: la memoria, la fruizione del territorio e la sua amministrazione). È per tale ragione, pertanto, che non solo ho effettuato interviste sedentarie (cioè “classiche”, “a tavolino”) e interviste in movimento, ma ho anche differenziato tra queste ultime. Le registrazioni “strada facendo”, infatti, sono state raccolte in vario modo: innanzitutto a piedi e in auto (quasi sempre, però, con alcune soste in cui si è scesi dalla vettura per avvicinarsi a piedi al sito che l’intervista intendeva descrivere), alcune seguendo dei piccoli gruppi di escursionisti tra i boschi a monte del centro abitato (un bimble, per usare l’espressione di Anderson) e un’altra accompagnando in campagna un informatore che lavora part-time come agricoltore nel suo fondo a poca distanza da una discarica di immondizia (un go-along, per stare alla terminologia di Kusenbach). Dal punto di vista formale, le interviste raccolte non rientrano rigidamente in nessuna delle categorie precedentemente esposte perché ho ritenuto di effettuare delle walking e driving interview non strutturate, in cui non andava posto alcun vincolo (né di locomozione, come si può intuire, né di itinerario), ma che rispondessero innanzitutto ad un tema preciso, per quanto ampio: «Mi presenti la sua cittadina».

In sostanza, si è trattato di chiedere alle persone di fare da guida, da cicerone per le strade del paese, attraverso i suoi luoghi simbolici e quelli meno evidenti, quelli pubblici e quelli privati. Inevitabilmente, ciascun intervistato ha interpretato lo spazio a partire dalla propria visione del mondo e in questo modo ogni testimonianza ha finito per intrecciarsi e sovrapporsi ad un racconto autobiografico del/sul territorio. Il camminare con gli intervistati ha permesso di individuare i loro luoghi significativi, che spesso non hanno una dimensione oggettiva, ma assomigliano a “stati di coscienza”, possiedono una dimensione evocativa e relazionale (Revet 2011: 212): «Prima della lava qui c’erano delle case… prima della ricostruzione là c’era un giardino… Da piccoli giocavamo a nascondino tra i crepacci della lava…».

002Ognuno di noi costruisce nella propria mente una “mappa del mondo” per mezzo di un continuo processo di mediazione interna tra stimoli provenienti dall’ambiente fisico e dal contesto socio-culturale; è una mappa, cioè, che illustra l’insieme dei rapporti che instauriamo coi luoghi, per come li conosciamo (o ce li immaginiamo) e per come li valutiamo: «Ogni soggetto è infatti portatore di una mappa mentale del mondo che gli consente di orientarsi nei rapporti con i luoghi e con gli altri soggetti e, attraverso le rappresentazioni, di essere mentalmente in rapporto con luoghi altri e con soggetti distanti. [Questa mappa] è precisamente l’espressione, la rappresentazione condivisa, di come pensiamo che il mondo sia, ma anche di come pensiamo che dovrebbe essere» (Signorelli 2008: 49).

Ciascuna delle persone con cui ho visitato l’area di studio, pertanto, ha presentato il territorio in maniera esclusiva, ovvero in modo soggettivo. Un giovane attivista ha mostrato il centro urbano nei suoi aspetti dinamici, talvolta oggetto di discussioni interne alla comunità, ma comunque proiettati nel futuro; il sindaco ha messo in rilievo le modalità con cui è stato ricostruito l’abitato dopo l’ultima eruzione, oltre che le difficoltà attuali a mantenere certi standard (o aspettative) che nei decenni scorsi il paese ha saputo imporre nell’immaginario collettivo; un architetto ha scelto un itinerario tra gli edifici storici, in particolare tra le masserie sopravvissute alla colata lavica, alla successiva urbanizzazione e all’abbandono che alcune di esse stanno subendo negli ultimi decenni; lo storico locale si è concentrato sul centro antico, quello intorno alla chiesa principale del comune; un giornalista-ecologista ha scelto delle zone di confine tra l’abitato e l’area naturale protetta che aprissero sia ai sentieri pedonali nella natura del vulcano, sia al panorama su una vecchia e problematica discarica di rifiuti; un volontario della parrocchia – un tecnico in pensione che ha lavorato alla manutenzione delle utenze telefoniche distribuite nelle zone in quota del territorio vesuviano – ha inteso addirittura di andar via dal paese per osservarne il centro cittadino dai tornanti che s’inerpicano sul cratere, oltre che per presentarmi alcuni suoi conoscenti che vivono con le risorse del vulcano: una famiglia che realizza souvenir in pietra lavica, i gestori di un ristorante, il titolare di una ex-cava, alcuni artigiani di fuochi d’artificio.

Ogni intervistato ha esposto in maniera personale l’area oggetto d’indagine, anzi ha espresso la sua appartenenza a quel territorio specifico attraverso la conoscenza e l’esperienza dei luoghi, oltre che per mezzo del legame emotivo ed affettivo che ha lasciato trapelare. Ognuno di essi, inoltre, ha fatto luce su un aspetto dell’organizzazione territoriale del comune, che a sua volta ne riflette l’organizzazione sociale: confini interni ed esterni, nodi, distanze, vicinanze, ostacoli, percorsi, flussi che non sono solo geografici, ma evidentemente anche collettivi.

Attraverso il cammino (che sia avvenuto a piedi o in auto) il paesaggio si è fatto racconto e il pensiero si è trasformato in un movimento nello spazio [3]; ciò ha reso il colloquio più aperto e spontaneo, nel senso che gli intervistati hanno tendenzialmente parlato con meno sollecitazioni da parte del ricercatore rispetto alle interviste “classiche” a tavolino (Evans, Jones 2011: 856). Gli incontri hanno avuto una durata media più lunga rispetto alle interviste “classiche”; le ragioni sono principalmente due: in primo luogo, i ritmi del camminare consentono pause nella conversazione [4] che non bloccano la chiacchierata come sovente accade con le interviste sedentarie; in secondo luogo – sottolineano James Evans e Phil Jones – le interviste strada facendo mettono in contatto più facilmente con la conoscenza che l’interlocutore ha dei luoghi, cioè agevolano una maggiore partecipazione da parte dell’osservatore (Evans, Jones 2011: 855).

9788868337674_0_536_0_75Come dice Rebecca Solnit (2002: 32), «il camminare è un modo per costruire il mondo come anche per vivere in esso» e nel mio caso, attraverso le walking interview, ho posto le basi per costruire l’oggetto della ricerca: sono state interviste che mi hanno permesso di conoscere il territorio da vicino e in maniera approfondita, nonché per stringere rapporti più stretti con alcune persone con cui, infatti, ho mantenuto contatti per tutta la durata del soggiorno in loco (e in qualche caso anche oltre). È da rilevare, infine, che la trascrizione di queste interviste ha richiesto l’aggiunta al testo di una mappa con cui localizzare i singoli elementi della narrazione. Mi sono servito di Google-Maps per indicare sia l’intero percorso effettuato, sia i singoli luoghi oggetto di descrizione da parte dell’intervistato che mi faceva da guida (in corrispondenza dei quali ho poi inserito le prime righe del relativo brano sbobinato). Ne è emerso un vero e proprio memorandum che oltre a permettere di vedere, consente anche di sentire e di andare.

Muovendo, dunque, dal presupposto di Merleau-Ponty (2009: 383) che «lo spazio è esistenziale» e che «l’esistenza è spaziale», ciascuna walking interview è stata un vero e proprio «racconto di viaggio, un’esperienza dello spazio» che ha presentato ogni luogo come «una panoplia di codici» (de Certeau 2001: 174, 173). Il camminare è divenuto un parlare, un riappropriarsi della città e del territorio come fossero trame biografiche e sociali: attraversando una serie di “luoghi della memoria” – individuali e collettivi, materiali e immateriali – sono emersi percorsi plurali e storie dimenticate. Lincontro etnografico realizzato attraverso le walking interview ha attivato un processo al contempo di conoscenza e di introspezione, la cui valenza metodologica assume particolare rilievo in un’antropologia contemporanea in cui il dato etnografico è una consapevole negoziazione di punti di vista fra il ricercatore e i suoi informatori. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] L’idea di studiare la vita in movimento, tuttavia, non è una novità; per limitarci al solo corpo umano come “mezzo di informazione”, si pensi alle tecniche del corpo di Marcel Mauss, alla cinesica di Ray Birdwhistell, alla prossemica di Edward T. Hall o agli studi sulla comunicazione non verbale di Albert Mehrabian.
[2] Un limite a questa pratica viene dal campo etico perché il GPS assomiglia ad un Grande Fratello che non distoglie mai il suo sguardo dal soggetto, sorvegliandolo (almeno durante l’intervista) in un modo che può risultare invadente. Evidentemente, questo rinnova il tema del rapporto di potere tra intervistatore e intervistato.
[3] A proposito della possibilità che non solo il camminare sia una forma di pensiero, ma che lo stesso modo di riflettere possa essere una forma espressiva del corpo, Maxine Sheets-Johnstone parla di “pensiero in movimento” (nel caso dell’improvvisazione nella danza) come di quel «processo in cui il senso diventa movimento e il movimento senso» (Sheets-Johnstone 1981: 403).
[4] Nel caso degli spostamenti in auto le pause nel flusso narrativo sono rappresentate soprattutto dalle periodiche soste nei luoghi indicati dall’interlocutore; come per le passeggiate pedonali, però, anche qui la ripresa del racconto avviene in maniera spontanea col procedere lungo la strada. 
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli, attualmente è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris Nanterre. Un suo progetto di ricerca intitolato “Covid-19 and Viral Violence” è finanziato dalla University of Colorado ed è chércheur associé presso il LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales) dell’Université Côte d’Azur di Nizza. I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie quando si tratta di territori a rischio. In particolare, ha condotto una lunga etnografia nella zona rossa del vulcano Vesuvio e ha studiato le risposte culturali dopo i terremoti nel Centro Italia (2016) e sull’isola d’Ischia (2017); inoltre ha osservato e documentato i mutamenti sociali e urbani della città di Nizza dopo l’attacco terroristico del 14 luglio 2016. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Vies magmatiques autour du Vésuve (2017); The Missing ex-voto. Anthropology and Approach to Devotional Practices during the 1631 Eruption of Vesuvius (2018); Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019); Inquietudini vesuviane. Etnografa del fatalismo (2020).

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