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Segni, sintomi e sentinelle: la reciprocità tra umani e non-umani ai tempi dell’Antropocene

antropocene-1-_1_di Elisabetta Dall’Ò 

Antropocene, “noi umani” e la nostra agency di specie

Da oltre un ventennio è entrato a far parte del lessico comune un termine tecnico-scientifico coniato con l’idea di mettere assieme il tempo dell’umanità con quello della Terra: si tratta dell’“Antropocene”. Correva l’anno 2000 quando il premio Nobel olandese Paul Crutzen, direttore del Max-Planck Institute di Chimica a Magonza, conosciuto per le sue ricerche sulla chimica dell’atmosfera e sul buco dell’ozono, sosteneva che il clima era stato talmente influenzato dalle attività umane, da rendere oramai impossibile parlare di un periodo climatico naturale. Per il chimico olandese, con l’avvento della Rivoluzione Industriale, l’umanità, producendo gas serra e, in particolare, CO2, avrebbe cominciato a trasformare l’atmosfera terrestre in maniera irreversibile, tanto da poter parlare di un’era plasmata interamente dagli esseri umani. Certamente gli umani erano già intervenuti sull’ambiente e sul clima prima della metà del XX secolo, ma solo da quel momento, sostiene il chimico, avrebbero dominato la Terra in tutte le sue componenti: atmosfera e terra, oceani e zone costiere.

81yyavsvxwl-_ac_uf10001000_ql80_Il concetto di Antropocene, che pur non trova consenso unanime tra gli studiosi e i ricercatori che si occupano di questioni ambientali ed ecologico-politiche (Barca 2018; Iovino 2020), ha però dato avvio a un denso dibattito sul nostro “impatto di specie” sul pianeta, e a una serie di interessanti e promettenti critiche. Tra queste, va ricordata la tesi sul Capitalocene di Moore che ha sostenuto come il capitalismo non “avrebbe” un regime ecologico, ma di fatto “sarebbe” un regime ecologico, ovvero un modo specifico di organizzare la natura. La “questione ambientale”, che viene solitamente considerata come una conseguenza del capitalismo, ne sarebbe invece la dimensione costitutiva, nel senso che il capitalismo ha fondamento – anche – sulla subordinazione della natura in senso lato, umana e non-umana, alle necessità della produzione e accumulazione di ricchezza (Moore 2016).

In quello che Moore chiama “Capitalocene”, il capitale è inteso come modo di organizzazione della natura, e non individua un’epoca geologica, ma diventa un riferimento utile per sostenere come quello di “Antropocene” sia un tema che tende anche a oscurare, più che chiarire, la comprensione dei cambiamenti socio-ecologici che sono in corso da alcuni secoli, ben prima che la Rivoluzione industriale facesse la sua comparsa. Tuttavia, come osserva Remotti, la manipolazione violenta della natura e degli ecosistemi, la sottomissione dei fenomeni e dei processi naturali all’intervento umano, sono atteggiamenti che appartengono non solo al capitalismo, ma anche, e più marcatamente, al comunismo. Basti pensare alle forme che questo ha assunto nell’Unione Sovietica e nella Repubblica popolare cinese:

«la costruzione dell’uomo nuovo da parte degli stati del socialismo reale ha comportato una violenza estrema sulla natura e sulla società» (Remotti 2020).

il-mondo-che-avrete-virus-antropocene-rivoluzioneCome ci suggerisce Chakrabarty, definire gli esseri umani come “agenti geologici”, come fanno i climatologi, vuol dire estendere la nostra immaginazione dell’umano. Gli esseri umani sono agenti biologici, sia collettivamente che come individui, e lo sono sempre stati (Chakrabarty 2017). Nella cornice di pensiero dell’Antropocene dunque, l’umanità si è fatta agente di cambiamento, e la sua agency di specie è divenuta fondamentale, alla pari con quella delle grandi forze della natura, nel dare forma – una forma deteriorata, peggiorata – all’ambiente. Una agency che se da un lato, in forma aggregata, di specie, è potente e agisce sul pianeta e sul clima, dall’altro, a livello individuale, si smarrisce facendo i conti con una desolante consapevolezza di impotenza e di inefficacia.

Eppure l’Antropocene, con l’espressione di Haraway, è reale, così come reali sono le sue implicazioni, inclusa l’attuale «immensa, irreversibile distruzione» che si sta compiendo non solo per gli undici miliardi di persone che popoleranno il nostro pianeta entro la fine del XXI secolo, ma anche per tutta una miriade di altre creature. Secondo Ghosh, sarebbero proprio questi eventi, catastrofici, con cui siamo costretti a fare i conti a portarci a riconoscere anche la presenza e la prossimità di interlocutori non-umani, e alla consapevolezza che gli esseri umani non sono mai stati soli, che siamo sempre stati circondati da una molteplicità di creature (Ghosh 2017) con cui ci troviamo a condividere e a fronteggiare un destino comune. 

i__id8317_mw600__1xSentinelle e percezione oltre l’umano

Il termine “sentinella” ha una storia intrigante: viene dal mondo militare e si riferisce alla figura del soldato che presidia il fronte per avvistare l’avanzata del nemico. La sentinella è colei che “sente”, avverte, anticipa, vigila, veglia. Gli antropologi Keck e Lakoff, curatori di “Sentinel Devices”, il terzo numero della rivista americana “Limn”, interamente dedicato al tema dei dispositivi-sentinella, ne parlano mettendola a confronto con due altri termini di paragone, entrambi legati al mondo della percezione: il profeta e l’indovino, «the prophet and the prognosticator» (Keck, Lackoff 2013). Il profeta è la classica figura che interpreta le immagini di un imminente futuro attraverso il ricorso a pratiche divinatorie. Nonostante l’allerta tempestiva, quelli che ricevono la profezia non possono evitare il loro destino. L’indovino, a sua volta, è una figura che possiede un sapere dettagliato sul presente, finalizzato a calcolare e pianificare ciò che sta per compiersi nel prossimo futuro. La sentinella ha invece un ruolo diverso; è una figura caratterizzata da un’attenzione sempre vigile, che può esser d’aiuto in vista di un incerto, ma potenzialmente catastrofico, futuro.

La sentinella è legata a doppio filo sia al problema della percezione del pericolo (ne incorpora i segni), sia alla questione del come la sua identificazione possa evitare una crisi futura (lettura e interpretazione dei segni).

«In the contemporary context of ecological anxiety, the sentinel has taken on an expanded meaning: it has come to describe living beings or technical devices that provide the first signs of an impending catastrophe» (Keck 2013).   

Parlando di cambiamenti ambientali e climatici, alcune piante, animali e insetti sarebbero in grado di anticipare e marcare i segni dei mutamenti in corso, e di allertarci sui potenziali pericoli connessi. Tutto sta nel saper leggere questi segni. Molti dei fenomeni che affliggono il nostro pianeta in conseguenza del global warming sono difficilmente rilevabili, difficilmente percepibili almeno nelle fasi iniziali, dalla sola percezione umana.

Nel campo dei rischi “naturali” e dei cambiamenti climatici siamo soliti parlare di “percezione”, a livello teorico e metodologico, come di una categoria preminentemente umana (propria dell’homo sapiens faber ludens), una caratteristica che orienta pratiche quotidiane, scelte politiche, e differenti strategie d’azione, e che determina e amplifica (o attenua) la vulnerabilità e la capacità di agire di un sistema sociale.

Sul filo delle ricerche etnografiche che ho condotto nelle Alpi per indagare gli impatti del riscaldamento locale sulle comunità di montagna, ho avuto l’occasione, l’opportunità, di notare, l’emergere di alcune figure non-umane che si sono rivelate di centrale importanza non solo nel percepire e “portare” i segni e i sintomi del cambiamento climatico in questi territori, ma anche, in qualche misura, nell’“anticiparli”, come “sentinelle”, e nel segnalarli all’attenzione etnografica. Si tratta di animali selvatici e da allevamento, ma anche di insetti e di piante che hanno da sempre giocato un ruolo importante per le comunità alpine: dai miti di fondazione alle leggende, all’economia di montagna: si pensi alla produzione di carne, di latte e di formaggi, all’apicoltura, alla caccia (Dall’Ò 2022).

Creature che condividono diacronicamente con noi spazi, luoghi e territori e le cui biografie si intrecciano alle nostre. Creature che da sempre fanno parte del quotidiano e dell’immaginario collettivo e che possono a pieno titolo esser parte dei grandi temi dell’antropologia:

«with animals, invasive plants, and microbes on the move, anthropological accounts ramify across places and spaces, entangling bodies, polities, and ecologies» (Descola 2014). 

harrisGli animali, così, non sono più soltanto “buoni da pensare” (Lévi-strauss 1962), o “buoni da mangiare” (Harris 1985), ma, come sottolinea Haraway, entità e agenti con cui vivere (Haraway 2008) e con cui condividere l’Antropocene. Anche gli impatti della crisi climatica sono inscritti nel corpo e nel comportamento degli animali, così come lo sono negli ecosistemi che abitano e che abitiamo.

In ambito veterinario ed epidemiologico, l’“utilizzo” e l’osservazione degli animali come sentinelle per stimare l’entità del rischio di esposizione delle persone a contaminanti ambientali non è nuovo, e oggi grande attenzione è accordata al mondo degli insetti: api e farfalle, ma anche zecche e altre specie che modificano le proprie caratteristiche in base al clima. Per quanto riguarda i cambiamenti climatici e gli insetti-sentinella, è significativo lo studio canadese della Mac Gill University condotto da Ernst e Buddle (2015) sullo scarafaggio dell’Artico. La ricerca[1], pubblicata sulla rivista internazionale Plos One, individua nello scarafaggio artico una “sentinella” ideale dei cambiamenti del clima; questi scarafaggi si differenziano infatti rispetto alle altre specie per le loro abitudini alimentari: cosa ingeriscono varia in relazione alla latitudine alla quale si trovano. Ed è proprio sul suolo, sulle piante e sugli altri insetti – che stanno alla base della loro alimentazione – che si riflettono le variazioni del clima.

Lo studio ha identificato oltre 460 specie diverse di scarafaggi dell’Artico, su un territorio che va dalla foresta dell’Ontario settentrionale in Canada, fino all’estremo Nord dell’isola Ellesmere. Analizzandole si sono potute riscontrare differenze significative nelle loro modalità di nutrizione: con l’aumento o con le variazioni delle temperature nelle regioni settentrionali, si sta avverando la possibilità che le comunità di scarafaggi vengano danneggiate. Questa sensibilità rende gli scarafaggi delle “sentinelle” ideali per il monitoraggio a lungo termine della biodiversità e degli effetti dei cambiamenti climatici in atto.

E gli effetti del riscaldamento globale li possiamo anche rintracciare nelle specie vegetali delle grandi città: a Parigi, il botanico Wilhelm Nylander ha mappato l’inquinamento dell’aria a partire dalla distribuzione dei licheni nei giardini di Lussemburgo. Queste piante sono diventate così uno strumento per valutare la salubrità dell’aria nella capitale francese, delle “sentinelle” efficaci nell’indicare i livelli di inquinamento urbano, ma anche di segnalare la quantità delle precipitazioni, e gli impatti sugli ecosistemi urbani che da queste dipendono.

Il paradigma delle sentinelle chiama in causa dunque non solo la questione dell’intelligibilità, della riconoscibilità del messaggio che veicolano, ma anche la (nostra) capacità di coglierlo, afferrarlo, e riconoscerlo come segnale. Riconoscere un segnale implica però qualcosa di più: la reciprocità delle relazioni tra umano e non-umano. 

harawayUmani non-umani e reciprocità

A proposito del legame tra umani e non-umani, Tim Ingold (2014) prende spunto da una domanda che si è spesso posto – e sentito porre – nel corso della sua carriera da antropologo, e riformula alcune delle categorie che riguardano l’alterità animale. La domanda è formulata in questi termini: perché gli antropologi, tra tutti, dovrebbero prestare più attenzione agli animali piuttosto che agli esseri umani?

La sua esperienza sul campo lo porta a rispondere che “per quelli come lui”, ovvero antropologi con un passato di studio ecologico delle pratiche umane legate alla caccia, alla raccolta, alla pastorizia e all’allevamento, la questione spesso sollevata dai teorici della cultura materiale – ovvero che il “non umano” sia stato emarginato o soppresso nelle scienze sociali – sembra assurda, poiché chiude gli occhi di fronte alla ricchezza degli studi, sia per gli antropologi che per gli archeologi, dei molteplici modi in cui le persone, in diverse parti del mondo e in diverse epoche storiche, hanno condiviso le loro vite con svariati animali e piante (Ingold 2013). Perché – si chiede Ingold, e noi con lui – qualcuno dovrebbe pensare che le relazioni sociali debbano limitarsi agli individui della stessa specie? Perché la renna o il babbuino (o il camoscio, lo stambecco, l’ape) non dovrebbero essere uno di noi, o noi uno di loro? Le vite dei pastori non sono forse intrecciate con quelle degli animali che allevano, e le vite degli scienziati comportamentalisti non sono intrecciate con quelle degli animali che studiano? E questi non sono intrecci tra le specie?

Con l’affermarsi dell’etologia cognitiva, si è dimostrata l’esistenza di forme di apprendimento, comportamenti simbolici, linguaggi e “culture” presenti, in modi e in gradi diversi, anche presso le altre specie viventi. Lo stesso concetto di cultura, nel suo significato generale, è stato ridefinito ed allargato. La definizione di cultura utilizzata dagli etologi indica infatti quell’insieme di comportamenti condivisi dai membri di una comunità e che sono trasmessi da una generazione all’altra attraverso canali non genetici. L’etologia quindi mostra la labilità di un confine: quello che separa esseri umani e animali, estendendo anche ad animali “altri” la capacità di produrre cultura.

singer2La proposta dell’antropologia è di estendere il concetto di cultura (che include le relazioni sociali ed emotive) anche agli animali, e di riconoscere il nostro essere in relazione con loro. Saper riconoscere che il cambiamento climatico è allo stesso tempo «estremamente scientifico» e «completamente culturale» (Bougleux 2017) significa includere il non-umano come parte delle nostre relazioni e del nostro essere nel mondo. Significa attribuire a questo la capacità di percepire, e persino di anticipare, e di mostrarci ciò che sta accadendo. Come ci ricorda Descola, l’origine stessa dell’antropologia è profondamente legata al mondo animale: 

«in many parts of the world under colonial rule people did not seem to make very clear-cut differences between humans and animals, plants and spirits or other presumed life forms present in the environment. Anthropology arguably arose out of the need to unravel this mystery» (Descola 2017). 

7130vnwgghl-_ac_uf10001000_ql80_Anche se nell’ambito antropologico ed etnografico gli animali sono stati presenti fin dagli albori della disciplina, il posto che veniva loro riservato li relegava a figure sullo sfondo, partner, risorse, o strumenti per caratterizzare le culture umane in una prospettiva antropocentrica (Manceron 2016). L’inclusione degli animali come tema di ricerca per le scienze sociali è stata a lungo considerata quasi una sorta di ossimoro poiché, come afferma Descola, l’“ontologia naturalistica” occidentale sembrava aver eretto confini impermeabili tra natura e cultura (Descola 2005). Oggi, secondo il filosofo Peter Singer è anche grazie alla “scienza” se noi possiamo comprendere la nostra storia evolutiva 

«as well as our own nature and the nature of other animals. [...] We have a new view of who we are, of the animals around us, of the limited nature of the differences that separate us from other species, and of the more or less western genesis of the boundaries we have drawn between ‘us’ and ‘them’» (Singer 1986). 

E come aveva sottolineato Viveiros de Castro, la condizione originale comune agli animali e all’umanità non è l’animalità, quanto piuttosto l’umanità (Viveiros De Castro 1998). 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] C. M. Ernst, C. M. Buddle, 2015. Drivers and Patterns of Ground-Dwelling Beetle Biodiversity across Northern Canada, in “PLoS ONE” 10(4): e0122163 https://doi.org/10.1371/journal.pone.0122163 
Riferimenti bibliografici
Barca S., 2018: “L’Antropocene: una narrazione politica”, in IAPh Italia, http://www.iaphitalia.org/stefania-barca-lantropocene-una-narrazione-politica/ 
Bougleux E., 2017: Incertezza e cambiamento climatico nell’era dell’Antropocene. In “EtnoAntropologia”, 5(1): 79-94. doi:http://dx.doi.org/10.1473/233 
Chakrabarty D., 2009: “The Climate of History: Four Theses”, in Critical Inquiry, vol. 35 (2). 
Crutzen P.J., Stoermer E.F., 2000: “The Anthropocene”, in Global Change Newsletter, vol. 41. 
Descola Ph., 2005: Par-delà nature et culture. Paris, Gallimard. 
Ernst C. M., Buddle C. M., 201: “Drivers and Patterns of Ground-Dwelling Beetle Biodiversity across Northern Canada”, in PLoS ONE, vol. 10(4). https://doi.org/10.1371/journal.pone.0122163 
Ghosh A., 2017: La Grande Cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza Editore. 
Haraway D., 2008: When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis.
Haraway D., 2015: “Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, in Environmental Humanities, vol. 6.
Harris M., 1985: Good to Eat: Riddles of Food and Culture, New York, Simon and Schuster.
Ingold T., 2013: “Anthropology beyond humanity”, in Suomen Antropologi. Journal of the Finnish Anthropological Society”, vol. 38 (3). 
Ingold T., 2014: “L’antropologia oltre l’umanità”, in Animal Studies, anno vol. 3 (8).
Iovino S., 2020: Il chewing gum di Primo Levi. Piccola semantica della resistenza al tempo dell’Antropocene, in “MLN”, vol. 135 (1). 
Keck F., 2010: “Une sentinelle sanitaire aux frontières du vivant. Les experts de la grippe aviaire à Hong Kong”, in Terrain, vol. 54. 
Keck F., Lakoff A., 2013: “Sentinel Devices”, in Limn, vol. 3. 
Lévy-Strauss C., 1962: Le Totémisme aujourd’hui. Paris, PUF. 
Moore J.W., 2016: Anthropocene or Capitalocene?: Nature, History, and the Crisis of Capitalism, PM Press, Oakland. 
Remotti F., Favole A., Aime M., 2020: Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione, Utet, Torino. 
Singer P., 1986: All animals are equal in Regan T., Singer P., (eds.), Animal Rights and Human Obligations, Oxford University Press: 215–226. 
Viveiros de Castro V., 1998: “Deixis and Amerindian Perspectivism”, in The Journal of the Royal Anthropological Institute, vol. 4(3).

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Elisabetta Dall’Ò, ha un dottorato di ricerca in Antropologia culturale e sociale, conseguito all’Università di Milano-Bicocca, ed è professoressa a contratto presso il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino. Ha inaugurato nel 2020 il primo Laboratorio universitario di Antropologia dei cambiamenti climatici. Dal 2022 è parte del progetto “Grandi Sfide-Clima” del Politecnico di Torino, e insegna nel Corso “Evidenze, modelli e percezione del cambiamento climatico”. Le sue ricerche si incentrano sugli impatti dei cambiamenti climatici sulle comunità di montagna, sulla percezione del rischio, sulle sentinelle non-umane, e sui processi di transizione ecologica. 

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