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La Costituzione, la magistratura, la mia vita

gazzetta-costituzione-italianadi Beniamino Deidda [*] 

Devo dire subito che io ho avuto un’infanzia molto normale, e, nel mio ricordo, anche felice, e una giovinezza molto simile a quella di tanti altri ragazzi. Mi piaceva molto giocare a pallone, forse anche perché mi riusciva bene. Avrei giocato a qualsiasi ora della giornata, ma c’era da studiare, un impegno su cui i miei genitori erano inflessibili. Studiare mi piaceva meno che giocare al calcio, ma, poiché dovevo farlo, mi applicavo senza molto entusiasmo e con risultati apprezzabili. Poiché non potevo sempre giocare a pallone, nelle lunghe giornate prive di qualsiasi altro svago o distrazione (non c’era televisione, solo la radio, molto austera), mi dedicavo alla lettura. Ho letto di tutto da bambino e da ragazzo: dal Corriere dei Piccoli a Jack London, da Salgari a Conrad. La lettura è stata un vizio in quegli anni, forse anche una sorta di droga, fino a che a 17 anni ho scoperto i romanzieri russi. Da allora la lettura è stata anche un godimento e poi è diventata una necessità.

Per fortuna a scuola non ho mai perduto l’anno. Mi sono diplomato, poi iscritto all’università e mi sono laureato nei quattro anni regolamentari. A 23 anni ho fatto gli scritti del concorso per la magistratura, a 24 ho sostenuto gli orali, a 25 anni ho preso servizio presso la Pretura di Firenze. Quando ho fatto il concorso, per motivi riconducibili alla mia immaturità, pensavo che non avrei saputo e non avrei potuto far altro che il giudice. Ora che sono più maturo, so che non è così. Ma purtroppo ora è tardi. Ho fatto il giudice per 50 anni esatti.

Sono stati 50 anni importanti, non solo per me, ma in generale per la mia generazione, perché io ho avuto la fortuna di cominciare a fare il giudice quando l’Italia, che era stata distrutta dalla guerra, era in piena ricostruzione. Si avvertiva la novità in ogni settore della vita pubblica e perfino nelle famiglie. La magistratura era piena di fermenti, dentro l’Associazione Nazionale Magistrati si erano formate le correnti che riflettevano le diverse posizioni ideali: c’era l’UMI (Unione Magistrati Italiani), la corrente reazionaria che raccoglieva quasi tutti i capi degli uffici, magistrati anziani che avevano fatto carriera sotto il fascismo e per lo più continuavano a pensarla come nel ventennio. C’era Magistratura indipendente, formata anche da molti giovani, attestata su posizioni moderate, anche se lontane dall’ideologia fascista. C’era infine Terzo Potere, una corrente che raccoglieva le menti più aperte, attestate a difesa della democrazia plurale e del progressismo riformista. Ricordo che il mio capo nei primi mesi della Pretura mi portava con sé alle riunioni di Magistratura Indipendente. Ero timido, non intervenivo, ma non mi piacevano. E non per ragioni ideologiche. Ricordo che uno di loro si vantava di scrivere la sentenza mentre l’avvocato dell’imputato parlava. E questo non mi piaceva.

22587337122Finché un giorno mi capitò tra le mani ‘il Mondo’, che era il settimanale di Mario Pannunzio, un liberale radicale, amico di Eugenio Scalfari. All’interno del giornale c’era un articolo di Marco Ramat. In quegli anni a Firenze era più noto suo padre, Raffaello, letterato, professore universitario che aveva fatto la Resistenza. L’articolo di Marco mi piacque molto; c’era aria nuova, aria pulita. Ricordo che pensai: voglio scrivere anch’io di giustizia sul Mondo. Non ci sono mai riuscito. Ma intanto a Firenze sentivo parlar molto bene di Ramat, che allora era Pretore a Borgo San Lorenzo, e io cercavo di avvicinarlo per respirare quell’aria radicale e libertaria che attraversava i suoi scritti. Fino a che nel mese di luglio del 1964, un gruppo di magistrati progressisti, che non si riconosceva nelle correnti esistenti, si riunì nel collegio Irnerio di Bologna: c’erano Bianchi D’Espinosa, Dino Greco, Adolfo Beria d’Argentine, Ottorino Pesce, Gabriele Cerminara, Franco Marrone, Generoso Petrella, Federico Governatori: molti erano giovani, altri erano in piena maturità. Quel giorno a Bologna nacque Magistratura Democratica. Per un curioso gioco del destino, non c’eravamo né io, né Marco Ramat.

31697545524Ma Marco non perse tempo: capì subito che la nuova corrente era quello che ci voleva per svecchiare la magistratura italiana, si iscrisse subito e cominciò a frequentare assiduamente le riunioni. Pochi mesi dopo mi telefonò: “stasera ci vediamo a casa di Michele Corsaro. Vieni anche tu?”. Non so perché mi avesse telefonato, in fondo mi conosceva poco. A casa di Michele ci trovammo in cinque: Michele era il più anziano, aveva 36 anni, io quasi 28. Era l’aprile del 1965 e quella sera, dopo cena, nasceva la sezione toscana di Magistratura Democratica. Una sezione che sarebbe diventata prestigiosa perché in pochi mesi arrivarono Salvatore Senese, Pino Borrè, Gianfranco Viglietta, Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis, Pierluigi Onorato. Sono sicuro che dimentico qualcuno, ma già con questi che ho ricordato si capisce che era un gruppo che non aveva eguali in tutta Italia.

Mi pare di ricordare che dentro MD non ci fosse nessuno che lavorava in Cassazione. E credo che ci sia una spiegazione. Era il tempo in cui in Cassazione c’erano quelli che avevano cominciato la loro carriera sotto il fascismo e che erano arrivati alla Cassazione per concorso, come allora era la regola. Una vera e propria cooptazione da parte degli esaminatori che appartenevano alla stessa Corte. Si trattava perciò di un organo giudiziario fortemente conservatore che si schierava a difesa dei codici fascisti, e rifiutava di interpellare la Consulta, anche quando il contrasto con la Costituzione era evidente. Era il tempo in cui la Corte di Cassazione sosteneva che le norme della Costituzione al più potevano costituire programmi e direttive per il legislatore ordinario, ma non potevano essere immediatamente applicate come precetti cogenti.

ANMEra esattamente il contrario di quello che pensavamo noi di MD. E fu proprio questo nodo che ci spinse ad andare in massa al Congresso di Gardone. E lì scoprimmo che c’erano tanti magistrati che la pensavano come noi. La mozione finale del Congresso segnò una svolta per la Magistratura. I magistrati s’impegnavano ad interpretare le leggi vigenti alla luce della Costituzione e dei suoi valori fino a che il testo letterale lo consentiva; altrimenti si sarebbe sollevata eccezione di costituzionalità.

Fu così che, tornati a casa, ci mettemmo a lavorare con un entusiasmo nuovo, ciascuno secondo le sue inclinazioni e la sua materia.

Fu una piccola, ma straordinaria rivoluzione: avevamo scoperto la politicità della giurisdizione. Avevamo cioè capito che nella nostra democrazia parlamentare i giudici non potevano essere solo la “bocca della legge”, ma che spettava a loro interpretare le norme secondo i valori costituzionali sottratti alla politica, ma nello stesso tempo di grande valore politico. Naturalmente i colleghi più reazionari ci accusarono subito di voler “fare politica”. Ma non era la politica che ci importava. Anzi, ci lasciava indifferenti. Era piuttosto la demistificazione dei concetti di neutralità del giudice e di neutralità del diritto che ci premeva di affermare. Era la valenza politica del giudicare che ci importava di far capire. Era, infine, per noi necessario gridare forte e a tutti quello che i conservatori di ogni risma volevano nascondere, allora come oggi: cioè che chi sta al potere pretende sempre che la giustizia, il processo e gli stessi giudici siano funzionali alle scelte del potere. E allora molti giudici lo erano, pur senza avvedersene. I vecchi magistrati avevano convinto l’opinione pubblica che i giudici dovessero vivere appartati e senza voce, chiusi nella loro torre d’avorio, senza esporsi e senza uscire dal loro ‘naturale riserbo’. Perciò mai partecipare alla vita sociale e, Dio ne scampi, alla vita politica. Sono le stesse cose che il Ministro Nordio va dicendo anche oggi, senza riuscire a capire cosa sia davvero l’imparzialità del giudice.

Noi a metà degli anni ‘60, siamo usciti dalle nostre stanze del Tribunale e siamo andati a mischiarci con la gente: Marco cominciò ad organizzare convegni e a partecipare a quelli organizzati dai sindacati, Pierluigi Onorato si impegnò nel gruppo Testimonianze di padre Balducci, io facevo il doposcuola fino alle 8 di sera con gli ex allievi di don Milani a San Donato di Calenzano. Insomma stavamo in mezzo alla vita civile e sociale del nostro tempo, partecipavamo ai dibattiti, esprimevamo le nostre idee sulla giustizia e sulla società.

Vincenzo Accattis

Vincenzo Accattatis

E la reazione non tardò ad arrivare. Marco ed io fummo denunziati per vilipendio della Magistratura, i procedimenti disciplinari non si contavano più, quasi tutto il nostro gruppo fu inquisito, da Accattatis a Senese, da Onorato a Ramat. Io collezionai cinque procedimenti disciplinari in poco tempo. Ma gli spazi di libertà che conquistammo, di effettiva indipendenza dei giudici, di reale imparzialità nei conflitti, furono conquiste che giovarono a tutti, anche ai magistrati conservatori che le avversavano. E da quel momento non siamo più tornati indietro. Solo ora questi spazi di libertà tornano ad essere messi in discussione ad opera di un Governo che rivela uno spirito francamente reazionario. E lo si vede oggi da molte cose, tutte rivelatrici di una nostalgia per i tempi nei quali i diritti dei più deboli potevano essere calpestati. Oggi si ricomincia dall’attacco ai diritti costituzionali. Prima di tutto il diritto al lavoro, fondamento della nostra Repubblica.

Negli ultimi lustri il lavoro in Italia è stato distrutto: attaccando prima di tutto le sue forme: precario, saltuario, a tempo, con le mille varianti che sappiamo. E poi nel suo valore intrinseco: si può licenziare un uomo o una donna per quattro soldi, anche senza giusta causa. Le leggi che dal governo Renzi in poi si sono succedute hanno ridotto nuovamente il lavoro ad una merce; poco pagata, se è vero che siamo al penultimo posto in Europa per crescita dei salari negli ultimi trent’anni. E poi ancora i ricorrenti tentativi di cambiare gli equilibri della Costituzione. Si dice: la Costituzione è vecchia e va cambiata. Ma le Costituzioni sono scritte per il futuro e contengono princìpi e valori che non sono effimeri o destinati a valere solo per una o due o tre generazioni. Basterebbe citare le Costituzioni francese e americana, ben più antiche della nostra, per capire che sono altre le ragioni che oggi spingono a modificarla. È il desiderio di mutare profondamente gli equilibri istituzionali della nostra democrazia. Anche nel passato recente si è cercato di mutare gli equilibri tra i poteri rafforzando l’esecutivo e indebolendo i poteri di controllo e i contrappesi al potere. Berlusconi soleva dire che ‘con questa Costituzione non si può governare’ e Renzi cercava di spacciare per innovazione il vecchio tentativo di accrescere i poteri del primo ministro. Oggi la Meloni sceglie di introdurre l’elezione diretta del premier.

Exif_JPEG_420E insieme si vuole il regionalismo differenziato, che vuol dire, in sostanza, un regionalismo egoistico in gara con le altre regioni, che si appropria di competenze di rilievo nazionale che la Costituzione ha assegnato allo Stato; insomma modifiche che stravolgerebbero l’attuale equilibrio della Carta. Sulle riforme costituzionali la Presidente Meloni ha detto sostanzialmente: noi cercheremo il dialogo con l’opposizione, ma se non ci sarà l’accordo andremo avanti da soli. Il Governo, cioè, ritiene che le modifiche costituzionali possano essere adottate anche solo dalla maggioranza di governo. Ma questo è l’esatto contrario dello spirito costituente che dovrebbe sostenere ogni modifica della Costituzione. Questo Governo, esattamente come il Governo Berlusconi nel 2006 e il Governo Renzi nel 2016, ritiene di poter proporre autonomamente la riforma della Costituzione. Ma dimentica che le Costituzioni sono scritte da maggioranze e minoranze insieme e che, se non sono condivise, esse falliscono.

La Costituzione italiana non può dirsi compiutamente attuata, non soltanto perché alcune parti non sono state tradotte in istituti che le realizzano, ma anche perché gli obiettivi dell’eguaglianza, della solidarietà, della giustizia fiscale, ecc., propongono traguardi sempre nuovi. Da certe conquiste si rischia anche di tornare indietro. Ad esempio la violazione dei diritti umani degli immigrati è certamente più grave oggi che in passato, le diseguaglianze sociali più ampie, il funzionamento della sanità pubblica più precario e così via. Oggi occorre più che mai battersi per la salvaguardia di alcuni valori fondamentali.

deiddaProprio per quelli che sono i più importanti della nostra Costituzione: l’eguaglianza tra gli uomini, la solidarietà, la libertà, la dignità del lavoro. E soprattutto, la dignità della persona umana che sembra così lontana dagli orizzonti di questo nostro tempo. Si tratta dei valori universali che nel costituzionalismo democratico moderno dovrebbero appartenere a qualsiasi parte politica; destra, sinistra e centro e che costituiscono il cuore del patto di convivenza civile che lega tutti i cittadini. Ma sono, per l’appunto, quei valori di cui la cattiva politica oggi cerca di liberarsi, nell’illusione che la maggioranza possa cambiare le regole fondamentali del patto che ci lega. Ma la Costituzione non appartiene alla maggioranza, anzi le Costituzioni sono storicamente nate come garanzia delle minoranze. Le Costituzioni sono scritte per durare e la nostra, oggi più che mai, è una guida capace di illuminare il futuro. È così avanti rispetto ai nostri politici che si può dire che essi l’hanno completamente persa di vista.

Dunque la Costituzione in questa fase storica può diventare un’arma formidabile nelle mani dei cittadini. I quali possono servirsene per chiedere che i provvedimenti del Governo e del Parlamento siano conformi ai valori costituzionali. E in particolare, ad esempio: per chiedere una politica di accoglimento dei migranti e dei diversi; il riconoscimento dei diritti inviolabili di ogni persona e specialmente dei minori e dei più deboli; che il lavoro sia davvero un diritto della persona e non un traguardo precario e avvilente; e infine i doveri di solidarietà politica e fiscale da parte di tutti i cittadini; il ripudio della guerra, scritto nell’art. 11 a caratteri indelebili.

Sappiamo che le opposizioni in questo Paese sono divise, lontane dai bisogni dei cittadini e compromesse in un passato non lontano anche nella violazione di alcune norme della Costituzione. Non possiamo perdere altro tempo e dobbiamo metterci insieme per dire a gran voce che non smetteremo di batterci per questa Costituzione fino a che tutti i diritti che essa garantisce ai più deboli non saranno pienamente realizzati.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
[*] Il 6 dicembre 2023 all’area verde di Camollia a Siena sono stati presentati due libri di Beniamino Deidda, uno è la sua biografia realizzata da Maria Pagnini, scrittrice, attraverso una lunga intervista, e si chiama Biddanoa. Antropologia di un giudice, EdizioniPIAGGE 2023. Biddanoa è, in sardo, Villagrande, paese di riferimento della prima vita sarda del giudice. Maria Pagnini racconta l’infanzia e poi il lavoro di magistrato di Deidda con una forte attenzione ai sistemi giuridici e morali entro cui vive e opera e ai conflitti che li caratterizzano. L’altro volume è Per non essere sudditi. Dieci lezioni semplici sui principi della Costituzione, EdizioniPIAGGE. Il titolo dice da solo della grande attività di formazione che Deidda ha svolto e svolge ancora dopo la pensione. Quelli che qui pubblichiamo sono gli appunti che il giudice aveva preparato per la presentazione dei due libri, come base di quel che poi ha detto dialogando e senza leggere. Ma ci è sembrato che – dai ricordi di infanzia con cui comincia, all’analisi della situazione attuale con cui termina – contengano in effetti i nodi per cui questi due libri sono di grande interesse. Segnaliamo un altro testo uscito di recente a cura di Beniamino Deidda e di Tomaso Montanari, Disobbedienza profetica, edizioni Gruppo Abele, 2023 che contiene una selezione degli scritti dei grandi testimoni e protagonisti toscani di un vangelo vivente, da Don Milani a La Pira, a Balducci e Turoldo ed altri. Tutti i testi citati hanno una casa editrice un po’ speciale infatti sia EdizioniPIAGGE che Gruppo Abele pubblicano testi a partire da progetti di solidarietà e di militanza sociale.

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Beniamino Deidda, entrato in magistratura nel 1963, ha svolto la sua attività prevalentemente a Firenze dove è stato per molti anni Pretore, poi Giudice per le indagini preliminari e, dal 1993 per sei anni, Procuratore della Repubblica Aggiunto presso la Pretura di Firenze. Nel 1998 è stato nominato Procuratore della Repubblica di Prato, funzione che ha mantenuto fino al 2005, quando è stato nominato Procuratore Generale di Trieste. Dall’inizio del 2009 è stato Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze, fino al 1 novembre 2012, data del suo collocamento a riposo. Dal 1979 si è occupato specificamente dei reati in materia di igiene e sicurezza del lavoro e in special modo di infortuni e malattie professionali e, come Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Trieste, dei numerosi attentati terroristici compiuti da autore finora ignoto nominato ‘Una bomber’. Poco prima della conclusione del suo incarico si è occupato della complessa vicenda di Eluana Englaro. Durante l’attività di Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze, si è occupato delle complesse indagini relative alla strage di Viareggio e al naufragio della nave Costa Concordia. È autore di vari saggi e articoli su vari temi di diritto costituzionale e penale. Le sue ultime pubblicazioni sono: Basta un uomo. Bruno Borghi, una vita senza padroni (ed. Piagge 2021); Per non essere sudditi. Dieci lezioni sui principi della Costituzione (Piagge editore, 2023) e Disobbedienza profetica (ed. Abele, 2023), scritto insieme a T. Montanari.
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