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Suad Amiry e la casa della memoria

suad amiry, golda ha dormito qui di    Annamaria Clemente

 Ogni mio sogno è su di te / E ogni mio incubo ha origine in te / La mia felicità ha a che fare con te /

E la mia tristezza è provocata da te / Ogni mia aspettativa riguarda te / E accanto a te le mie delusioni si accumulano.

Pochi versi tratti dalla poesia del libro di Suad Amiry Golda ha dormito qui (Feltrinelli 2013, pp.222, trad.it. Nadotti M.), parole semplici ma contenuti forti, rafforzati retoricamente dalla  iterazione del pronome TE, una dilogia che denuncia Ossessione. A chi si rivolge questa poesia, chi si nasconde dietro questo pronome? Sicuramente un desiderio, un oggetto amato, concupito, sofferto, detestato anche, ancora amato e bramato, non un uomo, non una donna, ma una casa. «Sì, esatto. È un libro che riguarda le buyut, le case e, soprattutto, parla di cosa significa per qualcuno perdere la propria abitazione, quali sono gli effetti psicologici o il trauma di dover lasciare la propria dimora. Il tentativo che sta alla base dell’opera è quello di condurre i lettori verso i veri problemi dei palestinesi, ma non per renderli tristi o per incolpare gli israeliani [...]»1.

Queste le parole della scrittrice rilasciate in un’intervista durante una tra le tante tappe che la vedono coinvolta nella presentazione del libro in Italia. Scrittrice della migrazione nata a Damasco da genitori palestinesi, cresce tra Amman, Beirut e il Cairo. Studia architettura presso l’Università americana di Beirut e si laurea alla Michigan University, conseguendo un dottorato di ricerca presso l’Università di Edimburgo. Dal 1981 vive a Ramallah, in Palestina nella Cisgiordania e qui insegna all’Università Birzeit, fondatrice e direttrice del Riwaq Centre for Architectural Conservation a Ramallah. Una vita segnata da un doppio impegno: quello politico, attuato con la partecipazione alle delegazioni palestinesi per la pace in Medio Oriente, e dalla passione per l’architettura storica palestinese. La vocazione letteraria non sembra essere parte della natura dell’Amiry, ma piuttosto dote acquisita grazie ad un incontro fortuito che si rivela terapeutico. Il primo romanzo, Sharon e mia suocera non nasce come libro, erano mail che la povera e oppressa Suad scambiava con gli amici e le amiche per alleviare i tormenti inflitti dalla suocera e dall’occupazione israelita. Poi il contatto con la Feltrinelli, interessata alla scrittura innovativa dell’autrice che si assume il compito e l’onore di pubblicarla: Sharon e mia suocera (2003), Se questa è vita (2005),  Niente sesso in città (2007), Murad Murad (2009).

Brillante, tagliente, caustica e sempre intelligente Suad Amiry, ma soprattutto ironica, esilarante, una scrittrice che ama ridere e far ridere. Ridere non per minimizzare e sminuire, ma per prendere gli eventi in contropiede e rovesciare gli effetti di situazioni che se assunti nel pieno del loro peso non potrebbero che devastare e mortificare l’individuo. Un riso che, entro il contesto ed il microcosmo dei libri, funziona come meccanismo rigeneratore e,  grazie a quello che un caro autore definiva sentimento del contrario, fa affiorare le meschinità e le debolezze umane. Ogni romanzo viene tenuto insieme da un tessuto connettivo costituito dall’autobiografia, una scelta in pieno accordo con l’attribuzione terapeutica che questa rinvia alla scrittura.

Biografia e finzione si mischiano e invischiano, ma in Golda ha dormito qui accade qualcosa di diverso: la verve ironica è più contenuta, meno tagliente. Un riserbo dovuto all’argomento, alla preoccupazione che il peso della storia continua ad esercitare. È l’occupazione della mente e delle emozioni a spaventarmi di più, alla ferita propria e comune che la Nakba del 1948 ha aperto e i cui effetti attanagliano ancora generazioni di palestinesi. Nakba letteralmente è Disastro, significa Catastrofe,  è il Cataclisma,  ed è in questo modo che gli arabi definiscono l’esodo delle popolazioni arabe, iniziato dalla Dichiarazione Balfour, intensificatosi nel 1948, che colpì i residenti della regione palestinese quando il Regno Unito, donò ad  Israele, secondo il Piano di partizione della Palestina sanzionato dall’ONU nel 1947, il possesso sui luoghi. E mentre per un popolo la diaspora finiva per l’altro cominciava. La nuova nazione veniva ricordata, la vecchia dimenticata. Il popolo di Israele venne risarcito, sommando orrore all’orrore, con il simbolico sacrificio di un altro popolo, il riscatto fu barattato con il dono di un luogo e di case che sono di altri, e la stessa Golda Meir, figura di primo piano del movimento sionista,  politica israeliana, irreprensibile e saggia premier d’Israele,  prima donna a guidare il governo del suo paese,  godette del risarcimento vantandosi di vivere nella casa di Hārūn al-Radish.  E nel tentativo di superare, di disinfettare e tergere, per Amiry bisogna raccontare, mettere in comune la storia per alleviarne il peso. È questo l’intento del libro.

Il libro di Suad Amiry offre la possibilità di riflettere su una pratica la cui naturalità ed evidenza ne tace la pregnanza  rendendolo, spesso, invisibile all’attenzione e al pensiero. L’abitare è una pratica fondamentale per l’uomo, anzi fondante lo statuto umano e il cui valore viene rivelato dal denso contenuto semantico che ne fa un vocabolo polisemico. Dichiarare che  l’abitare  è una pratica fondante vuol essere, non un tentativo di esacerbarne il significato, ma di disvelare pienamente il sostrato simbolico, psicologico e il risvolto pragmatico e cognitivo che ne sta alla base. L’intensità si evince a partire dall’analisi dell’etimo, la radice del verbo è il latino habeo, avere, e che nel senso comune si traduce come continuare ad avere, ma più comunemente come aver consuetudine in un luogo. Abitare ma anche risiedere, dimorare, permanere, stare, vivere, Essere. «Essere e avere sono dunque sintetizzati nell’abitare: per essere ho bisogno di avere un posto nel mondo e questo posto nel mondo lo sintetizzo avendo una porzione di esso, cioè abitando un luogo, metaforizzando uno spazio quale mia proiezione esistenziale»2. Il concetto filogeneticamente correlato all’abitare è quello di casa,  la cui simbologia avviata dal significante è universale e riscontrabile in ogni cultura, tanto che i teorici della psicologia, dell’antropologia simbolica e dell’immaginario ne hanno, incontrastabilmente, assegnato lo statuto di archetipo.

Immagine primordiale, psichica, e contenuto preindividuale, correlato al patrimonio genetico e quindi ereditario, la casa non è solo il luogo fisico costruito e abitato dagli uomini, ma è soprattutto rappresentazione simbolica dell’interiorità umana. Un luogo metaforicamente intermedio, le cui funzioni sono equiparabili a quelle del tessuto epidermico umano, schermo protettivo tra interno ed esterno, non solo a livello psichico e intraindividuale ma anche interindividuale e sociale. I luoghi e le cose quotidiane sono esempi di interfaccia antropologica, mediatori e catalizzatori dell’immagine, più o meno consapevole, che abbiamo del rapporto interno/esterno e che costituisce uno dei nodi teoretici del discorso sull’abitare.3 Come ben ricorda La Cecla, antropologo e architetto, è a partire dai luoghi che nascono i pensieri. La percezione di se stessi avviene in rapporto all’ambiente, ne discende un profondo senso di appartenenza, una coappartenenza tra soggetto e oggetto o meglio tra soggetto e luogo, una conoscenza, una forma mentis, che La Cecla chiama mente locale. È evidente quanto la mente locale sia importante come attività cognitiva umana quando, per esempio e non solo, si analizzano i rapporti tra questa e la memoria. La mente rintraccia i ricordi, planando sul territorio di qualcosa che non è un passato, ma uno spazio passato.4

L’uomo si districa con i concetti di spazio e tempo, ha maggiore familiarità con lo spazio meno con il tempo, ma le due categorie sono intrinsecamente irrelate e correlate e la mente locale ama scambiarne i ruoli giocando con esse: «La mente locale ha le vertigini? O gioca sapendo che è a partire da qui, adesso, che ci si può librare verso altri qui? Questo relativismo quotidiano è ancorato alle categorie di sopra, sotto, destra, sinistra […], davanti, dietro. L’aspetto cognitivo dello stare in un luogo parte dall’impressione di una centratura, la propria rispetto alla quale tutto lo spazio è in tensione a tal punto da far smarrire (una vertigine!) il qui. Una forma di ermeneutica che viene dal rapporto dentro/fuori continuamente ribaltato e continuamente riquotato – l’orientamento come forma di comprensione oltre che di spiegazione, nel senso che orientarsi significa sempre conoscere un contesto relativamente a se stessi posti in quel contesto (ma è dalla certezza della propria centratura che nasce la vertigine del poter essere altrove, contemporaneamente)».5 Perduto il mediatore di ogni rapporto interno/esterno – la casa –  potremmo ipotizzare che la mente subisce una distorsione percettiva, una derealizzazione dei confini, una dissociazione tra il sé e l’esterno che genera una incapacità a trovare un equilibrio e un posto da cui partire. La perdita dell’archetipo genera disforia, che si manifesta con atteggiamenti ossessivi obbligando il soggetto alla compulsione per arginare l’angoscia.

Irrazionale è il sorriso del folle, del posseduto Andoni. L’architetto Andoni Baramki antropomorfizza le proprie creature, un moderno Pigmalione, il cui amore si era tramutato in un’ossessione permanente. Una vita passata a rincorrere l’amata fino a quando, richiesto al tribunale di Israele un’ordinanza per il ritorno alla propria casa, si vede negato il permesso perchè nella condizione di presence/absence. Travolto dal paradosso giuridico che nega, non a caso, l’esistenza stessa dell’individuo, un ghigno folle deturperà per sempre il viso del bell’Andoni. Lo stesso amaro sorriso, vent’anni dopo comparirà su un altro viso, quello del figlio che, recandosi in visita alla casa paterna, trasformata in museo, si vede richiesto da un’ignara bigliettaia, il pagamento per l’ingresso. L’archetipo rubato è perduto, e con esso si perde se stessi, diviene tarlo generazionale, virus che si trasmette attraverso il sangue dai padri ai figli, dai figli ai nipoti, corrode mentre percorre le vene, è pandemia che destruttura e deforma il Dna. Consuma Huda, la Giovanna d’Arco di Palestina, che percependo il peso di quanto subito dal padre, contrae un voto che da allora è diventato un’ ossessione / un’ossessione che si è fatta gravosa come la vita stessa. Ma la mente dell’uomo opera anche in altri modi oscuri e complessi. Per proteggersi da eventi dolorosamente traumatici isola i pensieri edificando barriere, ne addormenta i ricordi, come se il dolore potesse anestetizzarsi nell’oblio onirico. Umm Salim, il sergente suocera di Suad, affronta il dramma nell’ossessiva e impeccabile ripetizione di gesti ed applicando le etichette della buona educazione che si infrangono, in modo buffo, all’impatto con la realtà di una vita in trincea. Abituati agli exploit dell’ingombrante suocera nei romanzi precedenti, qui troviamo la petulante vecchietta reticente ed evasiva alle richieste di narrazioni e di informazioni sollecitate dalla nuora. Suad Amiry percepisce bene il trauma nascosto e chiede ripetutamente la narrazione, una, due, tre volte.

Con il suo stile narrativo asciutto ed esatto, dell’esattezza di cui parlava Calvino, Suad Amiry, nel ribadire implicitamente la funzione eminentemente salvifica della scrittura letteraria, restituisce la testimonianza di un capitolo della storia la cui memoria è dolente e necessario viatico per sperare di chiudere quelle ferite che continuano a tormentare generazioni di uomini e donne palestinesi.

Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
Note

1 Intervista a Suad Amiry: la casa, l’assenza, la presenza e l’ossessione palestinese della perdita nel suo nuovo libro “Golda ha dormito qui” di Annamaria Bianco, http://editoriaraba.wordpress.com/2013/11/05/intervista-a-suad-amiry-la-casa-lassenza-la-presenza-e-lossessione-palestinese-della-perdita-nel-suo-nuovo-libro-golda-ha-dormito-qui/

2 Pesare M. ( 2009), Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, p. 8

3 Ivi, p. 139

4 La Cecla F. (1993), Mente Locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano, p. 52

5 Ivi, p. 54


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