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Salvataggio e controllo sul confine di Lampedusa

 

 Migranti sulla nave maltese Phoenix, a Pozzallo (F. Malavolta, ApAnsa)

Migranti sulla nave maltese Phoenix, a Pozzallo (F. Malavolta, ApAnsa)

  di Alberto Mallardo

Vivo da un anno a Lampedusa. Come tutti avevo molto sentito parlare dell’isola e dei fenomeni migratori che la coinvolgono direttamente ormai da più di venti anni. Uno degli avamposti più a sud d’Europa, un’isola italiana ma di fatto geografi- camente appartenente al continente africano. Una terra di confine quindi, un osservatorio privilegiato da dove compren dere i processi di gestione dei fenomeni migratori e di controllo delle frontiere.

Nell’anno trascorso, il 2015, sono transitate per Lampedusa 21.160 delle 153.842 persone migranti giunte in Italia. Il porto di Lampedusa è risultato quindi secondo per numero di arrivi solo ad Augusta che con 22.391 persone è stato l’approdo più utilizzato dalla Marina Italiana, dalla Guardia Costiera e dalle altre forze europee per le operazioni di sbarco dei migranti sulle coste italiane (Osservatorio sulle migrazioni di Repubblica, 2015). Guardando al quadro complessivo, delle 153.842 persone arrivate in Italia fino al 31 ottobre del 2015, il 27% hanno dichiarato di essere eritree, il 13% nigeriane, il 5% siriane e il rimanente 55% provenivano da Paesi dell’Africa subsahariana (Ministero dell’Interno, 2015a).

Differenti e molteplici sono le criticità riscontrabili nell’attuale sistema di controllo della mobilità e ciò nonostante tutte le più importanti questioni sono indagabili proprio sul confine esterno dell’Unione Europea (UE), a Lampedusa. Dopo circa un anno, quest’articolo prova a sviluppare alcune delle considerazioni elaborate in questi mesi, adottando frameworks teorici propri dei Border Studies e degli studi critici sulle migrazioni.

FOTO1 Il frame securitario / umanitario

L’isola di Lampedusa è dunque conosciuta nel mondo per la sua posizione di confine meridionale dell’UE. La sua fama non è però tanto dovuta alla sua posizione geografica quanto al processo politico, mediatico e militare che ha visto l’isola trasformarsi sempre più, nel corso degli ultimi anni, in un palcoscenico (Cuttitta, 2012). Un palcoscenico in cui rappresentare dicotomicamente la realtà. Da un lato, l’isola relegata a svolgere un ruolo epifanico delle molte paure che l’immaginario occidentale ha rimosso e confinato al di là del mare ma anche il simbolo riconosciuto internazionalmente di accoglienza e ospitalità. Il confine, pertanto, come luogo ambivalente dove sperimentare una gestione delle migrazioni che segua, a seconda delle necessità, il frame securitario e quello umanitario.

L’isola si è dimostrata infatti, nel corso degli anni, uno dei laboratori più avanzati e probabilmente il teatro privilegiato per lo sviluppo di questo nuovo framework di gestione della mobilità. È importante evidenziare allora come la gestione della mobilità e la tutela dei diritti umani siano state affidate, non solo ad iniziative istituzionali a carattere nazionale o internazionale, ma anche ad un sempre crescente numero di forze di polizia e di NGOs, ovvero di non-governmental organization (Agamben, 2008). A Lampedusa, come in molte altre zone di confine del mondo, è stato possibile notare lo sviluppo di iniziative a carattere poliziesco-militare che hanno avuto il duplice obiettivo di controllare l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Italia e dell’UE e di permettere il salvataggio dei migranti in mare. In parallelo, un proliferare di organizzazioni umanitarie dallo United Nation High Commisioner for Refugees (UNHCR), a Save the Children, passando per l’International Organisation for Migration (IOM), arrivando fino alla Croce Rossa Italiana, hanno avuto il compito di tutelare i diritti umani, sanciti dalla Convenzione di Ginevra.

Nonostante questa crescente moltiplicazione delle soggettività internazionali e delle loro interdipendenze, nonostante l’affermarsi di una costante deterritorializzazione dei rapporti di potere e il superamento dell’ordine del moderno Stato-nazione, si è fatta al contempo sempre più evidente la necessità per questa nuova rete di poteri, di sfruttare l’apparato burocratico-amministrativo e il potere di coercizione dei singoli Stati nazionali per gestire al meglio i flussi. Come descritto da Campesi (2015: 12):

«L’evoluzione delle politiche in materia di immigrazione ed asilo ha infatti evidenziato negli ultimi trent’anni l’emersione di un regime confinario di scala regionale imperniato su una struttura istituzionale che, pur eccedendo la dimensione geopolitica dello Stato moderno, ha continuato in larga parte a fare leva sulle capacità coercitive e amministrative di quest’ultimo».

Così la dimensione simbolica prodotta dai due approcci è, di volta in volta, servita per giustificare deroghe alle regole ordinarie; deroghe che hanno aperto la strada a strategie ambigue in cui è stato difficile riconoscere il beneficiario delle misure adottate (Campesi, 2011). Non è parso chiaro, infatti, se la retorica e le politiche delle istituzioni italiane ed europee abbiano teso a salvaguardare i diritti delle persone giunte in Europa o se siano state piuttosto rivolte a tutelare la cittadinanza da un’invasione. In definitiva, entrambi gli approcci hanno servito lo stesso fine: quello di governare e gestire la mobilità dei gruppi umani considerati altri-da-noi, non meritevoli di godere della nostra stessa libertà di movimento.

Come evidenziato da Cuttitta (2012), infatti, le autorità preposte al pattugliamento e al controllo dei confini, pur svolgendo operazioni di ricerca e salvataggio in mare che hanno tratto in salvo migliaia di persone, hanno anche avuto come obiettivo quello di limitare e controllare la libertà di movimento degli individui che cercavano di raggiungere l’Italia. Difatti, come ricorda lo stesso Cuttitta, se non vi fossero stati controlli alle frontiere, i migranti avrebbero potuto raggiungere l’Europa comodamente in aereo o in traghetto.  

FOTO2 EUNAVFOR MED

È proprio in quest’ottica che si possono leggere le diverse missioni navali che dagli anni ’90 sino ad oggi si sono succedute nel Canale di Sicilia e in particolare, l’ultima in ordine di tempo, cioè la missione EUNAVFOR MED, denominata anche “Operazione Sofia” per ricordare una bambina somala nata a bordo di una nave militare tedesca (Mazzeo, 2015). EUNAVFOR MED, come del resto anche le precedenti missioni Mare Nostrum e Triton, ha avuto due obiettivi strategici, dichiarati fin dal principio. Il primo, contribuire a neutralizzare le rotte della tratta dei migranti nel Mediterraneo; il secondo, contribuire a ridurre il numero di morti in mare (European Union Naval Force Med Operation SOPHIA, 2016).

Il personale impiegato nell’operazione ha superato le 1300 unità provenienti da 22 differenti Paesi dell’Unione mentre i mezzi impiegati come riportato da Mazzeo (2015: 2) comprendono:

«La portaerei italiana “Cavour” (con a bordo più di 600 militari e uno staff multinazionale di 70 uomini provenienti da Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Romania e Spagna); la fregata tedesca “Schleswig-Holstein”; la fregata britannica “Richmond” con un elicottero Lynx, un drone da sorveglianza ScanEagle e un contingente dei Royal Marines; la rifornitrice tedesca “Werra”; la nave ausiliaria “Enterprise” e un elicottero AW101 MK2 Merlin britannici; un velivolo per la sorveglianza Falcon 50 della Marina francese; un pattugliatore marittimo lussemburghese Seagull Merlin III. Da fine ottobre sono assegnati ad EUNAVFOR Med anche la fregata belga “Leopoldo I”, la fregata spagnola “Canarias”, il pattugliatore sloveno “Triglav” e un aereo per il pattugliamento marittimo P-3C “Orion” spagnolo. Le forze armate italiane contribuiscono alla missione Ue pure con due elicotteri, un sommergibile, due velivoli a pilotaggio remoto “Predator” MQ-1 e MQ-9».

L’operazione, istituita nel maggio 2015 e lanciata dall’UE nel giugno dello stesso anno, si è articolata in tre fasi differenti. La prima fase si è caratterizzata per la raccolta e l’analisi dei dati d’intelligence relativi al traffico di essere umani. Per raggiungere questo obiettivo, le navi coinvolte nella missione EUNAVFOR MED sono state impiegate come basi per operazioni di polizia. I migranti appena soccorsi sono stati oggetto d’interrogatori, al fine di individuare tra essi i presunti scafisti e raccogliere informazioni circa le organizzazioni criminali che pianificano le partenze (EEAS, 2016a). La seconda fase, inaugurata il 7 ottobre 2015, ha autorizzato le unità e i reparti d’élite europei ad effettuare abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare delle imbarcazioni che trasportavano migranti (Mazzeo, 2015). La missione ha operato secondo il principio ‘no boat left behind’. Nessuna imbarcazione coinvolta nelle operazioni di salvataggio è stata infatti abbandonata in condizioni di poter navigare, per evitare che potesse finire nuovamente nelle mani degli scafisti. Infine la terza fase prevedrebbe l’estensione delle operazioni di pattugliamento direttamente all’interno delle acque territoriali libiche.

L’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza europea, Federica Mogherini, in visita sulla portaerei Cavour il 15 aprile 2016, ha spiegato come la missione EUNAVFOR MED sia nata tenendo a mente la drammatica tragedia consumatasi al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013. L’operazione è da considerarsi come una risposta europea alla crisi migratoria in atto, dettata dalla urgenza di salvare vite umane ma anche e soprattutto dalla necessità di arrestare il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. Federica Mogherini, durante il suo intervento, ha anche annunciato la proposta fatta ai Ministri di Esteri e Difesa dell’UE per l’allargamento della missione EUNAVFOR MED all’interno delle acque libiche. Questa nuova fase, denominata 2B – ha proseguito l’Alto Rappresentante per la sicurezza – non dovrebbe essere solo incentrata sulla sicurezza, ma anche, prima di tutto, sull’aspetto umanitario, sulla cosiddetta capacity building, cioè sul sostegno alle istituzioni locali e sul controllo e gestione delle frontiere per evitare che altre perdite di vite umane si ripetano (EEAS, 2016b).

L’ultima fase della missione appare così come probabilmente la più importante per il futuro framework di gestione della mobilità in Europa. La costruzione di relazioni stabili con le autorità libiche, lo sviluppo di corsi di formazioni per la guardia costiera, i finanziamenti per la costruzione di strutture volte a facilitare i compiti della polizia di frontiera e per l’acquisto di attrezzature, si inseriscono in una strategia ben oliata di cooperazione con gli Stati africani. Gli obiettivi della missione EUNAVFOR MED s’innestano infatti perfettamente in una più ampia strategia europea che vede nei rimpatri un elemento chiave del suo funzionamento. L’Italia ha già accelerato le operazioni di rimpatrio e si prevede un ulteriore incremento nel corso 2016. Lo scorso anno (fino al 15 settembre), sono state eseguite 3.731 decisioni di rimpatrio su un totale di 15.686. Inoltre, a 5.535 persone è stato vietato l’ingresso nel territorio nazionale italiano (Ministero dell’Interno, 2015b). È in quest’ottica che l’Unione Europea ha rafforzato la collaborazione con i Paesi africani e con la Turchia in modo da rendere più frequenti operazioni di questo tipo (Commissione Europea, 2015).

A dispetto della retorica umanitaria proposta, rimane quindi evidente la ferma volontà di scoraggiare le persone dal raggiungere l’Italia. La dimensione criminale del fenomeno viene così ripetutamente enfatizzata dalle autorità italiane che regolarmente diffondono informazioni circa il numero dei trafficanti arrestati. Fino al 31 dicembre 2015, erano 46 i sospetti scafisti fermati e 67 le imbarcazioni affondate all’interno dell’operazione EUNAVFOR MED (EEAS, 2016a). Paradossale è rilevare che la maggior parte delle persone arrestate per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina fossero presu- mibilmente esse stesse persone in cerca di una nuova vita in Europa ma povere quel che basta da non potersi permettere di pagare i trafficanti. Come riportato anche dal comandante Credendino (EEAS, 2016a: 7), i migranti viaggiano spesso senza che nessuno dei trafficanti li accompagni. Alcuni di loro sono invece precedentemente istruiti su come condurre l’imbarcazione utilizzando il GPS e su come effettuare una chiamata d’emergenza con il telefono satellitare. Probabilmente questi cosiddetti scafisti, pur di avere uno sconto e raggiungere l’Europa, accettano i rischi connessi dal trovarsi al timone dell’imbarcazione.

Tutte le operazioni d’intelligence e di polizia che hanno caratterizzato le fasi di EUNAVFOR MED (Vassallo, 2016) e la stretta collaborazione con differenti autorità di polizia come EUROJUST, EUROPOL MOU, FRONTEX e la Direzione Nazionale Antimafia ed Anti- terrorismo accentuano dunque il carattere securitario di questa operazione e servono da deterrente contro chi organizza e sfrutta la rotta migratoria del Mediterraneo Centrale. Inoltre, la mancata raccolta di informazioni utili al riconoscimento delle persone morte o disperse durante il viaggio, accentua l’ambiguità circa il presunto carattere umanitario delle missioni navali nel Mediterraneo centrale (Cuttitta, 2015).

Migranti soccorsi da operatori dell' Ordine di Malta

Migranti soccorsi da operatori dell’ Ordine di Malta

 Morti in mare

Spijerboer (2011), sviluppa ulteriormente quest’ultimo aspetto, spostando però l’attenzione sul numero di migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa. Nonostante la scarsità di stati- stiche ufficiali e complete, Spijerboer nota come l’intensificazione dei controlli alle frontiere possa aver spinto i migranti a scegliere rotte sempre più rischiose. Inoltre, come suggerito dai dati pubblicati dal progetto “Missing Migrants”, dell’Organizzazione Mondiale sulle Migrazioni (OIM, 2016), il numero dei morti e dispersi nel Mar Mediterraneo è drammaticamente aumentato nel corso degli ultimi anni, parallelamente al crescere dei flussi ma anche alle missioni militari poste in essere da diversi attori europei ed internazionali. Si è passati, difatti, dalle circa 2.000 vittime nel 2011 (UNITED, 2012), alle 3.279 del 2014, fino a raggiungere i 3.770 morti nel 2015 (OIM, 2016).

Nonostante il dibattito intorno alle eventuali responsabilità delle politiche europee veda alcuni sottolineare come un gran numero di morti sia avvenuto al di fuori delle acque territoriali, e sia stata più volte evidenziata la difficoltà di stabilire un nesso causale tra i decessi in mare e le politiche dell’Europa, è fondamentale ricordare come sia impossibile accertare le responsabilità degli attori coinvolti senza avviare prima delle indagini, delle raccolte sistematiche di informazioni, intorno alle morti avvenute sui confini d’Europa (Spijerboer, 2011). Ad esempio, se un corpo senza vita fosse trovato in una situazione domestica le autorità immediatamente avvierebbero delle indagini per procedere all’identificazione dello stesso. Nel caso delle persone che perdono la vita attraversando i confini nel Mar Mediterraneo, alle stesse autorità appare ovvia l’impossibilità di procedere all’identificazione e spesso non attivano nessun meccanismo per accertare le cause della morte e l’identità delle vittime (Cuttitta, 2015). In questo senso quindi l’attività delle autorità italiane ed europee discriminerebbe su base nazionale le persone che perdono la vita durante l’attraversamento dei confini marittimi nel Mediterraneo.

Inoltre, la mancata raccolta d’informazioni circa le cause che hanno portato alla morte migliaia di persone favorisce il processo di oggettivizzazione delle vittime. Le loro storie personali, i nomi, i loro desideri svaniscono dalla memoria collettiva lasciando spazio a statistiche, per altro incomplete e parziali. Ad esempio, nel cimitero dell’isola di Lampedusa sono sepolte circa 40 persone non identificate, morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Solo tre invece le persone a cui si è riusciti a dare un nome dopo la morte. La prima è Ester Ada (Esat Ekos), diciottenne nigeriana, morta in stato di gravidanza il 16 aprile del 2009, durante le operazioni di salvataggio che videro le autorità maltesi e quelle italiane scontrarsi ed accusarsi a vicenda nel tentativo di abdicare le rispettive responsabilità durante la fase di soccorso dei sopravvissuti ad un naufragio. Il 16 aprile del 2015 invece moriva Welela, ragazza eritrea che ha perso la vita a causa delle terribili ustioni che riportò dopo un incidente avvenuto in Libia. Infine, il 4 settembre 2015, è arrivato senza vita il corpo di Yassin, ragazzo eritreo che stava tentando di raggiungere suo figlio e sua moglie ospitati in un centro d’accoglienza in Svezia. In tutti questi casi una serie di coincidenze ha permesso di ricostruire la storia delle persone coinvolte nei naufragi.

Coincidenze quindi, e non un organico meccanismo che serva a preservare la memoria di queste tragedie, come stabilito dal Programma di Stoccolma, firmato nel 2009, da tutti gli Stati membri dell’UE (Grant, 2009). Attualmente, infatti, non vi è una pratica comune per la raccolta d’informazioni sui decessi dei migranti, sia a livello nazionale, sia a livello interstatale. Le competenze tecniche necessarie per le identificazioni esisterebbero, ma non c’è ancora un quadro comune che stabilisca quali informazioni raccogliere, e come condividerle.

In questo contesto, la mancata raccolta sistematica d’informazioni relative all’identità delle vittime è tanto più grave se paragonata all’apparato d’intelligence messo in campo per ottenere informazioni circa l’identità dei presunti scafisti, degli organizzatori dei viaggi nei Paesi d’imbarco e degli eventuali complici in Italia. La dimensione umanitaria proposta in molteplici occasioni dalle autorità, prende le sembianze di una facciata di comodo o ancor peggio strumentalmente elaborata per giustificare scelte securitarie che tendono ad accrescere la violenza prodotta da politiche della mobilità fortemente selettive.  

Migranti-eritrei-soccorsi-a-sud-di-lampedusa-Moas

Migranti eritrei soccorsi a sud di Lampedusa (Moas)

 Bio-politica del confine

Le morti anonime e continue avvenute negli ultimi decenni, durante gli attra- versamenti dei confini marittimi dell’UE, possono essere lette quindi nell’ottica di una bio-politica del confine, dove le autorità intervenendo (o non interve- nendo) hanno svolto un ruolo regolatore nei confronti delle migliaia di persone che hanno cercato di entrare clandestinamen- te in Europa. Riprendendo Foucault:

«la bio-politica agisce per mezzo di meccanismi globali, in modo da ottenere degli stati complessivi di riequilibrio, di regolarità. In sostanza, il problema diventa quello di prendere in gestione la vita, i processi biologici dell’uomo-specie, e di assicurare su di essi non tanto una disciplina, quanto piuttosto una regolazione»(2009: 213).

I confini della post-modernità possono essere quindi teorizzati come degli spazi porosi, permeabili, che nel favorire la circolazione delle merci, dei capitali e delle informazioni limitano al contempo la libera circolazione degli individui (Campesi, 2012). Di conseguenza i controlli sulla frontiera non tenderebbero alla chiusura totale degli spazi di circolazione bensì ad una gestione selettiva e differenziale della mobilità che consentendo di governare i problemi di sicurezza entro una determinata soglia di tollerabilità, permetterebbe anche una regolazione della forza lavoro necessaria per lo sviluppo delle economie liberiste europee.

Gli strumenti d’intelligence messi in campo dalle autorità italiane ed europee durante le differenti fasi delle operazioni di salvataggio sui confini marittimi dell’UE e durante le successive fasi dell’accoglienza, s’inseriscono perfettamente in questo tipo di approccio che, come prospettato da Bigo (2006), tende a svolgere una sorveglianza mirata e selettiva degli individui considerati socialmente pericolosi. Questa gestione della mobilità avrebbe una duplice funzione: da un lato la funzione deterrente atta a scoraggiare e ostacolare la libertà di movimento; secondariamente servirebbe in un certo senso a monitorare il futuro, a governare la pericolosità sociale a distanza nel tempo e nello spazio (Campesi, 2012). Infatti, la logica che sottende a questo regime di controllo dei confini si propone di regolare e selezionare gli individui, raccogliendo informazioni (profiling), per anticipare il comportamento di individui o gruppi considerati come socialmente pericolosi e orientare le eventuali successive azioni repressive (Bigo, 2006). L’obiettivo non è tanto condannare i singoli individui ma dissuadere le masse, in modo da gestire i flussi in anticipo, analizzando il loro potenziale futuro, al fine di normalizzarli all’interno di un framework di controllo.

Come riportato da Campesi (2012: 25), la pericolosità sociale sarebbe però governata anche nello spazio, in quanto i dispositivi di controllo della mobilità tenderebbero a creare delle zone cuscinetto, dove: «i migranti, seppur fisicamente sul territorio e sottoposti al controllo dell’autorità di polizia, non hanno ancora raggiunto la frontiera dei diritti rappresentata dalla giurisdizione statale». Lampedusa appare quindi come il luogo ideale per la creazione di una sorta di zona di extra-territorialità giuridica che «sarebbe ben lungi dall’essere al di là del diritto, [ma] luogo di saturazione giuridica prodotto dalla sovrapposizione di una fitta rete di normative, accordi internazionali, provvedimenti amministrativi che legittimano i regimi di mobilità differenziali che la polizia della frontiera è chiamata a gestire, esponendo certe categorie di persone ad una sorveglianza particolare ed estendendo i poteri di polizia della frontiera nello spazio» (Campesi 2012:26).

In quest’ottica s’inserisce la moltiplicazione degli status giuridici, favorita anche recentemente dalle decisioni prese dalla Commissione Europea (2015). Ad esempio, l’ultimo approccio adottato dall’Europa ha previsto l’attivazione di 6 hotspot in Italia e 5 in Grecia. Questi luoghi nati per canalizzare gli arrivi in una serie di porti di sbarco sono stati deputati all’identificazione dei migranti e ad una successiva classificazione in tre macro categorie. Come evidenziato nella Road Map (Ministero dell’Interno, 2015b), da un lato troviamo le persone considerate come migranti economici, quindi irregolari e da rimpatriare (identificate ufficialmente come CAT 2). Osserviamo poi i richiedenti asilo (CAT 1), cioè quelle persone che manifestano la volontà di richiedere protezione internazionale in Italia e che, dopo averla formalizzato, verranno inserite nelle strutture ordinarie e straordinarie previste dalla gestione dei servizi di accoglienza in Italia (CARA, CAS, SPRAR). Infine, coloro i quali, in quanto richiedenti asilo e suscettibili di rientrare nella procedura di ricollocamento, saranno inseriti nel meccanismo gestito a livello europeo dalla agenzia EASO.

Migranti soccorsi da MOAS ( Migrant Offshore Aid Station)

Migranti soccorsi da MOAS (Migrant Offshore Aid Station)

La moltiplicazione degli status legali e di cittadinanza, che consentono o im- pediscono, favoriscono o ostacolano l’attraversamento di determinati confini territoriali e di conseguenza l’accesso ai diritti garantiti ai cittadini degli Stati nazionali, genera effetti sugli individui sia immediati sia a lungo termine. Nell’ immediato si assiste ad una selezione degli individui perpetrata in maniera sommaria e superficiale, che da un lato riconosce ad alcuni il diritto di accedere ai servizi di accoglienza, dall’altro genera esclusi, irregolari, clandestini (Biondo, 2016). I processi di categorizzazione influenzano però non solo l’immediato futuro delle persone ma anche la loro percezione del “sè”. Come dichiarato nel cosiddetto teorema di Thomas, essi si sedimentano infatti attraverso processi di interiorizzazione, plasmando e modellando l’identità nel presente, nel futuro e persino nel passato, in alcuni casi permettendo una sorta di riscrittura delle storie biografiche individuali. È infatti appurato che le classificazioni hanno la particolare caratteristica di influenzare le persone prese in oggetto.

«Un minerale non cambia atteggiamento per il fatto di essere classificato come ferro o come diamante (pur se ciò potrebbe cambiare il suo destino), è indifferente alla classificazione. Le persone invece sono autocoscienti, sono cioè capaci di conoscere sé stesse, sono potenziali agenti morali» (Molteni, 2010: 76 ).

Attribuendo quindi una posizione di marginalità all’interno delle nostre società a degli individui si creano le condizioni perché quelle stesse persone rileggano la loro storia personale per giustificare la loro situazione attuale. Questi processi producono effetti sia a livello individuale che collettivo. La società, attribuendo delle specifiche caratteristiche a degli individui, elabora anche delle specifiche aspettative rispetto ai loro comportamenti futuri.  La persona, in quanto immigrata clandestinamente potrà quindi essere percepita come illegale, fuori-legge, pericolosa. Analizzando le bio-politiche di controllo si assume quindi il corpo come elemento centrale dell’azione regolativa del potere. Il corpo che, parafrasando Kroker e Cook (1986) e Geertz (1998), può essere visto come una griglia di significati, marchiato sulla pelle dall’abuso del potere e vittima di meccanismi di regolazione e disciplinamento:

«Anche se non si richiamano a castighi violenti o sanguinosi, anche quando utilizzano metodi “dolci” che rinchiudono o correggono, è pur sempre del corpo e delle sue forze, della loro utilità e docilità, della loro ripartizione e sottomissione» (Lesce, 2010: 210).

Conclusioni

In un mondo narrato sempre più da forze che propongono una retorica umanitaria nell’approccio alla gestione e regolazione della mobilità, si possono identificare pratiche securitarie che tendono a regolare i confini marittimi dell’Italia e dell’Europa. Il confine, con le sue caratteristiche di spazio di quasi extra-territorialità giuridica, vede il sovrapporsi di differenti autorità che saturando il panorama normativo legittimano pratiche a volte illegittime a volte discutibili. Gli apparati militari e polizieschi oltre a soccorrere le imbarcazioni in difficoltà, svolgono una funzione deterrente nei confronti di chi volesse tentare di attraversare il Mediterraneo. La moltiplicazione di status permette una gestione differenziale dei flussi e garantisce un filtro che possa identificare ed escludere gli individui sulla base di differenti provvedimenti giuridici. In questo contesto lo spazio d’azione garantito ai singoli individui si riduce sensibilmente.

Allora la resistenza si può forse ancora esercitare nelle interzone della vita dove ci si scontra con l’autorità. Lungo le crepe in cui i corpi confliggono con un potere che mira a regolare e classificare. Da questo punto di vista, le migrazioni possono essere considerate non come meri spostamenti di massa, ma come rivendicazioni che, nell’interrogare l’Europa circa le sue molteplici identità, contestano al contempo la gestione differenziale dei viventi. I concetti di cittadinanza e di diritto umano tornano quindi ad essere, al di là di ogni auto-celebrazione, paradigmi che si spostano con gli uomini e si posizionano in spazi di conflitto ancora non del tutto esplorati.

Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016 
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Alberto Mallardo, lavora come operatore di comunità presso Mediterranean Hope, l’Osservatorio sulle migrazioni mediterranee che ha sede a Lampedusa. Da sempre attivo nel sociale, si è laureato alla London Metropolitan University in “Gestione e Pianificazione dei Servizi Sociali e Sanitari”, dopo aver completato il percorso triennale in “Antropologia Culturale” alla Sapienza di Roma. Ha lavorato nella scolarizzazione dei ragazzi e le ragazze Roma che vivono l’estrema periferia romana e con minori richiedenti asilo in UK.

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