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Roma, le borgate di ieri, le periferie di oggi

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Roma, Corviale (ph. Pasquale Liguori)

di Maria Immacolata Macioti

Le città odierne, su questo credo esista un accordo che comprende larga parte degli studiosi di scienze sociali oggi, vale a dire sociologi, urbanisti, storici e antropologi, non possono certamente essere più lette e interpretate secondo il vecchio schema meritoriamente delineato a suo tempo da E. Shils, di centro/periferia. Le città, almeno molte città italiane, si sono allargate, hanno consumato territorio, hanno conglobato al proprio interno quelli che un tempo erano piccoli paesi autonomi, che oggi vengono a far parte delle zone più esterne delle città.

Anche se in Italia il modello ‘metropoli’ non si è ancora pienamente affermato e sviluppato, è indubbio che dal dopoguerra ad oggi sono cambiate certamente molte cose, a partire dalla configurazione delle più grandi città italiane. Della stessa città di Roma. Non solo: è cambiata l’immagine stessa della città, che tende ormai ad essere vista, narrata, comunicata sempre più in termini di metropoli, di area metropolitana [1].

Ci siamo lasciati alle spalle la città ben delimitata e circoscritta, racchiusa tra antiche mura; la città in bianco e nero, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, quando il centro storico era abitato da discendenti delle famiglie nobili di un tempo (basti pensare per Roma a Corso Umberto e Corso Vittorio Emanuele, a via Giulia, a via dei Coronari), oltre che dai tanti che per loro e presso di loro lavoravano o che nei pressi dei palazzi storici affittavano locali più o meno insalubri dove cercavano di mettere in piedi piccole imprese, dalla vendita del ferro a quella dei mobili; o locali adibiti al restauro, a modesti trasporti: con pochi mezzi, poiché la povertà era diffusa. Le parrocchie, come ci ha ricordato Mario De Quarto [2], erano luoghi di socializzazione per i bambini, che attraverso il loro tramite potevano magari andare l’estate in colonia con la Pontificia Opera Assistenza, abbandonando finalmente, per qualche giorno, mura impregnate di umidità e vecchiaia, dove si sentiva l’odore dell’urina, dei calcinacci. Dove il gabinetto era, in genere, fuori: e ancora oggi se ne può avere un’idea, in certe stradine del centro storico.

Erano anni in cui si comincia ad allargare l’attività del PCI, che conta ormai vari attivisti, che si impegna contro le ingiustizie sociali. Che cerca di educare le nuove generazioni, con la ben nota scuola aperta a Frattocchie. L’Unità – il quotidiano del PCI – viene diffusa, la gente impara a conoscerla, ad attendere le notizie riportate, a discuterle e commentarle con gli amici. Oggi, come è noto, la situazione è ben diversa.

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Roma, Prenestino, anni 50

Le scuole in genere non aiutano però, neanche allora, l’ascesa di bambini di famiglie povere: che a un certo punto devono smettere di studiare per aiutare in casa o per cercare lavoretti. Magari, aiutando a raccogliere, a vendere stracci o dando una mano a un padre imbianchino. Le femmine dovranno aiutare ad allevare i fratelli più piccoli, oltre che dare una mano a cucinare, spazzare, portare l’acqua dalla fontanella. Questo, per quanto riguarda i più fortunati, quelli cioè che non erano stati portati via dalla fame, dalle malattie.

L’Italia è ancora un Paese prevalentemente agricolo, agli inizi degli anni Sessanta. Certo, qualcosa cambia: arrivano i primi giradischi, i primi registratori. La televisione, un oggetto straordinario, assumerà un ruolo rilevante per le comunicazioni e farà conoscere la lingua italiana nei più lontani paesi, entra nelle case: è meno necessario, ormai, recarsi al bar per vedere una partita di calcio, per seguire un programma amato. I bar, luogo di attrazione e di socialità per maschi, perdono un po’, strada facendo, questa loro connotazione. Arriva, grande novità, la plastica, quella che oggi si cerca invano di evitare, di togliere dai fondali marini e dai luoghi pubblici.

3Arrivano, come Ferrarotti ci ha spiegato [3], immigrati poveri che dal sud emigrano in genere nelle città del nord Italia, ma anche a Roma. Una decisione difficile, uno strappo dalla famiglia, dal paese di origine, dalle consuetudini interiorizzate. Bisogna farlo, d’altronde, se si vuole sopravvivere, trovare un lavoro, sperare in una vita migliore. Vengono, i migranti, soprattutto dalle Puglie, dalla Calabria, dalla Sicilia. Dalla Basilicata. Più raramente da zone depresse del centro-nord. Vi è chi trova alloggio nel centro, ma in generale molti finiscono nelle periferie della grande città, dove ci si costruisce un qualche riparo, un alloggio di fortuna. A Roma, spesso si approfittava delle antiche mura, utilizzate come pareti per baracche prive, come è noto, di acqua e di luce: tipico, in questo senso l’Acquedotto Felice. Un fenomeno che riguarda anche le città del sud, dove si giunge magari da un lontano piccolo paese. Un romanzo di successo che racconta le vicende della famiglia Florio, ad esempio, ci parla di un passaggio di questa famiglia da un piccolo paese calabrese, Bagnara, a Palermo: un fatto questo occorso nell’800 [4]. Traumatico per la sposa di Florio, che subisce questa decisione e non ha voce in capitolo. Né il trend è cambiato poi tanto, negli anni ’60 e ’70. Dal piccolo paese alla città, e poi magari ci si sposterà verso una più promettente città del centro-nord, se non si andrà migranti verso più lontani posti in cerca di un lavoro che in Italia è difficile possa mai esservi.

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Roma, Pasolini in una borgata, primi anni 60

Troppo spesso i bambini però, abituati a parlare in dialetto, finiscono in qualche scuola differenziale: ciò implica che avranno meno possibilità degli altri di continuare gli studi, di avere poi un decente lavoro. Certamente, qualcosa si muove, per i ceti più disagiati, tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900: ci sono espropri, vengono ultimati alloggi popolari nelle periferie delle grandi città. Chiaramente, si tratta in genere di case costruite con pochi mezzi, con materiali scadenti: che mostreranno ben presto i propri limiti. Né ci sono grandi mutamenti, in questo senso, nei decenni successivi. Le case popolari si riveleranno ben presto fonte di esborsi notevoli per chi non aveva mai pagato affitti: oltre al canone vi sono spese legate alle utenze, per non parlare dei necessari, continui restauri, dati i materiali utilizzati dai costruttori per pagare poco. Case inoltre per lo più, lontane dal centro della città, dove è più facile trovare lavoro. Inevitabile il diffondersi di un certo malcontento, inevitabili le manifestazioni legate al disagio.

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Roma, borgata Gordiani, 1959

Certo, questo può essere presente al centro così come nelle periferie, negli anni Sessanta del Novecento e anche nel decennio successivo. Con l’assegnazione delle case popolari in periferia troviamo a Roma e altrove uomini e donne che provengono magari, oltre che da lontano, anche dallo stesso centro storico, dove un tempo abitavano. Certo, in umidi locali, in situazioni di precarietà. Il disagio viene esportato lontano dal centro, in lontane zone periferiche, secondo il consolidato modello mussoliniano. Alcuni si rassegnano, restano nelle nuove, insoddisfacenti abitazioni. Altri cercano invece di tornare indietro: e magari ci riescono. Andare in zone lontane vuol dire infatti perdere i lavoretti che si avevano, rinunciare a entrate più o meno certe, per quanto modeste.

Avere casa popolare in periferia – la gran parte delle abitazioni popolari sono nelle periferie della città, ben presto, a Roma, fuori il grande Raccordo anulare – significa avere un tetto sulla testa, luce, acqua: certamente, un bel passo avanti. Ma vuole anche dire dover pagare un affitto, avere problemi di manutenzione, dover saldare utenze mai sostenute in precedenza, come in molti scopriranno con amarezza: in certi casi, c’è da pagare anche il posto macchina! E il lavoro resta difficile da trovare, da mantenere: non c’è continuità. Lo stesso don Sardelli – il don Sardelli che aveva obbligato a studiare con lui, tutti i giorni, sabato e domenica compresi, i ragazzini figli dei borgatari di Prato Rotondo – che tanto si era adoperato perché la gente potesse vedersi assegnate case popolari, resta profondamente deluso dalla concreta realizzazione del suo sogno, delle abitazioni popolari assegnate loro a Ostia Nuova [5]: una situazione vissuta come una sorta di deportazione.

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Roma, borgate e proteste, anni 60

Anni e anni dopo ancora questo ricordo lo disturba, gli è ben presente, tanto da raccontarmi che aveva seriamente pensato di riportare tutti indietro: eppure la zona da loro vissuta, la stessa studiata da Ferrarotti, era tra le più disastrate, con baracche e allacci abusivi per acqua e luce. L’agognata casa popolare troppo spesso si rivela decisamente deludente. Ci sono troppi costi, i materiali sono fatiscenti [6], e se d’estate si può sperare di trovare lavoro, che fare per sopravvivere durante i lunghi mesi in cui non ci sono bagnanti e turisti? Un problema che al comune nessuno sembra essersi posto. Nelle case popolari è impensabile avere un proprio orto: non si hanno più frutta e verdure fresche; impossibile anche allevare galline e avere quindi uova fresche. E negozi e supermercati sono cari per chi ha lavori saltuari.

Certamente, a Roma e altrove le storie possono essere molteplici: ma comune è, in genere, come si accennava, la volontà di esportazione del disagio da parte delle autorità. Comune l’idea di spendere poco per le case popolari, di risparmiare sui materiali [7]. Anche laddove si hanno sindaci di sinistra, l’idea prevalente è quella del trasferimento della gente verso zone più lontane dal centro, lontane comunque da quelle di residenza dei ceti medio alti. Non viene presa in esame l’idea di una ristrutturazione in loco neanche da chi per definizione dovrebbe preoccuparsi degli operai, per non parlare del ‘sottoproletariato’.

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Roma, san Basilio, anni 60

A Roma, ad esempio, è con il sindaco Petroselli (primi anni ’80) che molti, che fino ad allora erano vissuti forzatamente in baracche, trovano alloggio in case popolari. Felici, inizialmente, di avere un vero tetto sul capo, per la prima volta, quelli che vivevano in una baracca. Scontenti, invece, coloro che avevano casa propria e si ritrovano affittuari, mentre gli esercizi abbandonati sono ormai a chilometri di distanza, non più sorvegliati da vicino e vanno in malora. Il malcontento avanza ad esempio tra gli ex abitanti della Valle dell’Inferno trasferiti più su, nelle case popolari, in una traversa di via Baldo degli Ubaldi – privilegiati, in un certo senso, dalla collocazione a poca distanza dal luogo dove abitavano prima; ma mentre prima avevano interno a sé poche abitazioni, piccole, immerse nel verde, ora sono in un’area sovraffollata, dove non c’è modo di confrontarsi con altri, di scambiare due parole, poiché non esiste un giardino, una piazza che lo consentano – tra  coloro che dall’Acquedotto Felice sono finiti a Ostia Nuova, tra chi è stato trasportato a Corviale [8] o altrove: distanze enormi, queste, rispetto alla precedente collocazione.

Gli alloggi – troppo spesso soggetti a deterioramento rapido, l’habitat di regola inadatto alla socializzazione – sono, passato un primo momento di euforia per l’ottenimento della casa, all’origine di molto scontento. Le difficoltà di socializzazione con gli abitanti che già si trovano, in certi casi, nelle zone dei nuovi insediamenti, abitanti che temono la vicinanza con gli ex borgatari, che paventano il crollo dei prezzi delle proprie case, date queste presenze indesiderate, fanno poi il resto: alla Magliana, ad esempio, gli ex borgatari sono male accolti; saranno ben presto accusati di vari atti di devianza. Solo anni dopo si saprà dell’esistenza della cosiddetta Banda della Magliana, questa sì, in effetti, responsabile di molti crimini e della cattiva nomea dell’area. Non solo: la scuola locale è insufficiente, si fanno più turni e in pratica i ragazzi possono andare a scuola solo quattro giorni a settimana: Gerardo Lutte [9] e i suoi colleghi e amici si preoccupano delle carenze nell’istruzione, cercano di portare avanti richieste di nuove aule, di attenzione alle esigenze educative. Il paragone tra Magliana nuova, zona romana insalubre, costruita sotto al livello del Tevere, con tutte le relative difficoltà, e la vicina zona dell’Eur, di tutt’altro livello, è pesante.

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Roma, Borghetto, anni 50

L’attribuzione immediata della devianza a chi proviene da una borgata, da una estrema periferia, è una costante. Un po’ come quando, nel 2015, si ipotizza che a Tor Sapienza, zona già considerata periferica, gli immigrati residenti (in realtà, pochi ragazzi) siano responsabili di notevoli tensioni sociali, di pesanti atti di devianza: mentre si saprà poi che ben altre sono, in quel momento, le forze in gioco, a partire da Mafia capitale. Eppure avranno partita vinta alcuni residenti, vale a dire quelli che hanno dato alle fiamme i cassonetti, che hanno alzato la voce, minacciato i giovani stranieri: i quali vengono allontanati dal centro di Via Morandi.

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Spinaceto, anni 70

Storia vecchia, oggi, quella delle antiche borgate romane, dove si lottava insieme per la casa, per una vita migliore; storia, storie che solo i più anziani oggi ricordano. Che non sembra avere aiutato la maturazione di un sentire comune: è molto probabile che coloro che hanno imposto l’allontanamento dei giovani immigrati negli anni Duemila fossero stati, una o due generazioni addietro, a loro volta degli emigrati giunti a Roma, costretti a vivere nelle periferie di allora, soggetti a soprusi e minacce. La storia in questo caso non è stata di certo maestra di vita: si teme forse, nella situazione di precarietà e incertezza odierna, di perdere il proprio modesto grado di benessere. Tanto più che mentre i figli di coloro che avevano ricevuto case popolari tra gli anni ’70 e ’80 di regola erano riusciti a studiare, a trovare un lavoro e un reddito, oggi persino queste speranze basilari sono chiamate in forse.  L’intolleranza rischia di accomunare l’intera città, anche se esplode di regola più facilmente nelle periferie urbane per l’oggettivo, profondo, disagio dato da una politica miope che cerca di esportare i problemi sociali ai margini della città, dalla grave e costante incuria, dall’assenza di servizi. E questo, a Roma e altrove.

Non casualmente, ad esempio, i media hanno raccontato di scritte insultanti, di svastiche sovrapposte sui pannelli di una mostra aperta a Torpignattara – altra zona romana un tempo considerata periferica – mostra su “Fotografia, identità e memoria”, che intendeva raccontare la storia del quartiere dal punto di vista della multietnicità [10]. Manca un’attenta, costante opera educativa, quella già svolta in passato dal PCI. Pesa la totale assenza di una politica responsabile, che pensi, ad esempio, ai servizi di base.

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Roma, Torpignattaro (ph. Alfonso Pascale)

Esistono oggi, si è detto, più centri, più periferie. Quelle che erano le periferie degli anni Sessanta hanno cambiato volto, sono ormai quartieri abitati dal ceto medio, a Roma come altrove [11]. Le periferie romane dei nostri giorni, quelle cioè degli anni 2000, sono ormai al di fuori del raccordo anulare, ben più lontane di quelle degli anni Sessanta del Novecento. Esistono varie, distinte zone della città estesa: ma in genere tutte senza adeguati servizi, senza comunicazioni semplici, possibili con le altre parti della città. Aree isolate, un po’ a sé stanti. Al cui interno è più facile adattarsi a vivere, piuttosto che non assoggettarsi a snervanti attese di mezzi che non passano o che passano con orari imprevedibili e capricciosi: un’avventura da tentare solo se c’è una vera necessità.

Tanto più che, se è vero che contano gli stili di vita, forse si può dire che si vive meglio, oggi, in certe zone periferiche che non nel vecchio centro storico, a Roma così come in tante altre città. Anche nelle periferie urbane sono infatti presenti scuole, biblioteche, associazioni a volte attive e importanti. Non intendo dire, con questo, che biblioteche, scuole, associazioni abbiano necessariamente la vita facile. Diciamo che ancora verso i primi dieci anni del 2000 a Roma nelle periferie funzionava però una rete di biblioteche comunali molto impegnate su due fronti: da un lato, la ricostruzione della memoria, la sua conservazione e la sua comunicazione; dall’altro, l’intercultura: da cui molteplici iniziative per far meglio conoscere paesi lontani, culture altre, lingue diverse dall’italiano.

4Per anni ho potuto seguire abbastanza da vicino attività varie in queste direzioni, in cui il territorio era un soggetto attivo. Un esempio tra i tanti possibili: nel 2008, se non sbaglio, sono stata ad Acilia, zona considerata certamente periferica di Roma, su invito della Biblioteca Sandro Onofri. La Cooperativa locale Tersilla Fenoglio aveva fatto raccogliere dagli studenti del Liceo scientifico statale Democrito ricordi di genitori e nonni per cercare di ricostruite la memoria del luogo. Una memoria notoriamente complessa per le tante ‘anime’ di Acilia, in cui erano all’epoca presenti più radici: vi erano persino case donate dal pontefice! In quell’occasione, queste lontane, disperse memorie, hanno potuto rivivere, venire alla luce. I presenti hanno potuto, finalmente, ascoltare, vedere storie di uomini e donne provenienti da tanti diversi luoghi, che si erano trovati a condividere uno spazio comune, inizialmente lontano dalle altre parti della città, disagiato. Ma poi, anche grazie a un impegno condiviso, erano giunti i servizi, a partire dalla possibilità di prendere un treno frequente e relativamente rapido per la stazione Ostiense, da cui poi sarebbero stati facili spostamenti ulteriori. Altri mezzi erano inoltre comparsi.

Non solo: in quegli anni varie persone si spostavano da diverse zone della città per andare ad un ambulatorio ad Acilia: una situazione, evidentemente, attrattiva rispetto ad altre dello stesso contesto urbano. Apprendiamo anche come Acilia sia passata da borgo agreste a zona industriale. Studierà poi questa zona Sonia Masiello, all’epoca una mia collaboratrice: i suoi studi confermeranno l’ipotesi già avanzata da Ferrarotti di Roma come città policentrica. Acilia è ben collegata, ormai, al resto della città. La mobilità è quindi assicurata, più semplice rispetto al passato. Ma Acilia è anche un’area dove si vive, si fruisce di spazi, dove lo scorrere del tempo ha indotto abitudini e memorie condivise. Acilia ha un suo centro, ma ha anche zone più lontane, un po’ decentrate, che ad essa fanno capo. Ha una presenza articolata. Gode fama di un’area relativamente sicura, poiché telecamere montate intorno alla stazione permettono di monitorare un luogo che avrebbe potuto altrimenti, proprio per la sua struttura, alimentare insicurezza.

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Roma, Pigneto

Un’altra zona di Roma lontana dal centro storico, ritenuta un tempo periferica, è il Pigneto. Noto per la presenza di intellettuali e artisti. Irene Ranaldi, studiosa delle periferie romane e di gentrification, ci ricorda che questo fenomeno richiede, tra le altre caratteristiche, il rialzo dei prezzi per la riqualificazione della zona: cosa che a Roma almeno non si è in genere verificata o non è durata a lungo: basti pensare che del Pigneto, si era appunto parlato come di una zona di incontro tra romani e immigrati, tra artisti e scrittori, dove si realizzava una convivenza positiva tra culture. Ma il tutto sembra essere durato poco. La riqualificazione sembra oggi lontana [12].

Ci sono anche, dicevo, affinità, tra il centro e le periferie, oggi. Scarsa illuminazione stradale, aggravata dalla chiusura di molti esercizi. Allarmi per l’esistenza di spacciatori, per il timore di borseggiatori. Sosta selvaggia un po’ ovunque, il che rende difficile la circolazione ai mezzi pubblici, del resto sempre meno frequenti. Scarsa pulizia delle strade, un motivo cui si era già accennato, un motivo che davvero accomuna, oggi, le varie zone di Roma, dalle più centrali a quelle più periferiche. Dalle più borghesi a quelle più legate a presenze popolari, quelli che un tempo si sarebbero detti proletari o sottoproletari. E ancora, un motivo comune è quello della presenza di buche nelle strade, di voragini che si aprono all’improvviso, con conseguenti blocchi di tratti di vie e di marciapiedi, di rallentamenti del traffico, di lunghe code di macchine sempre più in difficoltà. Fatti tutti, questi qui accennati, che riguardano sia il centro che le periferie. A febbraio 2015 sono emerse notizie allarmanti sulla zona di Roma est: sembra che fino a Torpignattara il manto stradale sia quasi inesistente, che l’asfalto sia a volte sospeso nel vuoto. Certo, molto lavoro per i carrozzieri. Molti esborsi per municipi e Comune [13]. Molte difficoltà per gli abitanti.

Ovunque si ha la presenza di venditori abusivi, e soprattutto quella, sempre più diffusa, di mendicanti, di persone che cercano cibo in un cassonetto della spazzatura; che dormono in terra, protette da qualche cartone: una spia evidente dell’avanzare dei problemi sociali, della durezza della crisi economica, crisi da cui la gente non ha assolutamente la percezione di stare uscendo. Ancora, troviamo i divieti di sosta non rispettati, equamente, né in centro né in periferia.

C’è inoltre un altro motivo che accomuna oggi il vecchio centro e le periferie. Il centralissimo Monti, il ben noto Trastevere, già vanto della città, e il lontano Pigneto con l’area tutta della Tuscolana hanno avuto a che fare in anni recenti con la camorra per lo spaccio di droga, per la diffusione di slot machine, per l’usura, per le scommesse clandestine. I beni sequestrati si trovano al centro così come alla periferia di Roma. I luoghi di incontro dei capi clan erano in centro, spesso in un noto bar a Monti. Lì venivano messe a punto strategie di infiltrazione delle aree più lontane di Tor di Nona, della Borghesiana, di Torre Spaccata, dello stesso Quarticciolo, come ci ricorda Fulvio Fiano nel «Corriere della Sera»[14]. Una situazione ben diversa, ben peggiore rispetto a quella studiata qualche anno addietro da Michael Hertzfeld in Evicted from Eternity. The Restructuring of Modern Rome [15].

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Napoli, Scampia (ph. Macioti)

Vi sono d’altronde, certamente, specificità negative delle periferie, nel senso che alle periferie alcune negatività sono state accollate, che le periferie hanno dovuto subirle: è in periferia che si hanno, di regola, le pubbliche discariche; è nelle periferie che si ipotizza di aprirne di nuove: e i media si riempiono delle giuste proteste degli abitanti, che cercano in ogni modo di attirare l’attenzione per evitare che queste ipotesi divengano realtà. È inoltre nelle periferie che vengono costruiti, ancora oggi, campi rom da parte di pubblici amministratori che non ipotizzano né intendono percorrere alcuna via per una integrazione possibile all’interno della città di queste minoranze: fenomeno non certo soltanto romano, come anche l’esempio di Scampia (Napoli) ci dimostra. Non è chiaro il perché, ma a Milano come a Roma e altrove in luogo di serie politiche di inclusione si preferisce ancora oggi rinchiudere i rom all’interno di campi che divengono inevitabilmente luogo di degrado, di esclusione. Non si attuano invece possibili politiche di inclusione, di assegnazione di case popolari. Piccoli nuclei di rom possono trovare ripari provvisori anche in centro, magari sotto le storiche mura, sulle sponde del Tevere. Ma i più finiscono, appunto, in campi che diventano una sorta di prigione all’aperto, troppo spesso soggetti a degrado se non a peggiori calamità naturali, come ci narra Gino Battaglia in un suo bel romanzo, La fortuna di Dragutin [16]. Una situazione in Italia abbastanza frequente e nota: vi è un fiume che straripa. La terra già melmosa per via della pioggia, non sostiene più i ripari. Ed ecco che i rottami affondano nel fango. Il campo si allaga, l’acqua travolge tutto, trascina con sé depositi e abitazioni, macchine. Altri mezzi sono impantanati, rovesciati, trasportati dalla corrente. I bimbi piangono, i cani abbaiano. Chi si salva – non tutti – si ritrova senza più un riparo, né vestiti, né beni.

Certo, si era ipotizzato, si era creduto nelle periferie come una risorsa per la città tutta. Zone sì di esclusione, zone difficili. Ma anche aree di novità e creatività per le arti, per il teatro, per la musica. Sandro Portelli, studioso della memoria, in numerosi suoi studi ha sottolineato anch’egli l’importanza per l’innovazione, per le arti delle periferie. Si è adoperato in questa direzione, promuovendo spettacoli teatrali, recuperando testi di antiche canzoni oltre a memorie in genere. Carlo Cellamare ha scritto, ha promosso studi e riflessioni su aspetti innovativi che sembrano, qua e là, emergere. Ma non ha certo ignorato il fatto che l’intervento pubblico nelle periferie è stato di regola un intervento emergenziale, ché a Roma è mancata e manca una politica della casa [17]. In molti credono ancora oggi che nelle periferie vi sia una forte volontà di uscire da degrado e isolamento, ci siano fermenti culturali e artistici innovativi, interessanti. Il nome di Ascanio Celestini, cantore della periferia romana, è oggi piuttosto noto. A Roma come altrove alcune periferie hanno riscoperto il colore, la street art, hanno oggi immagini attrattive sulle pareti delle abitazioni, a rallegrare aree prive altrimenti di attrattive, di segni particolari. In qualche giro nelle periferie ho potuto sentire alcuni degli abitanti esprimere ad alta voce la speranza che forse le pitture murali avrebbero aiutato una rivalutazione della zona, delle singole abitazioni: uno sbocco che per ora si sta ancora attendendo.

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Roma, Tor Bella Monica

L’ex salumificio Fiorucci sulla via Prenestina, ad esempio, è oggi un museo: il Maam, Museo dell’altro e dell’altrove. Gli immigrati che hanno occupato l’edificio, una volta dismesso il vecchio, ben noto salumificio, con alcuni italiani hanno piazzato opere d’arte un po’ ovunque, compresi corridoi e cucina. Sul Maam, esperimento che risale al 2013, Giuseppe Lepore ha prodotto un film, Figli di Maam, opera diretta da Paolo Consorti. Tra gli attori, alcuni nomi ben noti quali quello di Alessandro Haber, di Franco Nero [18]. Ma questo ha mutato in meglio la vita degli abitanti? Aiuta gli abitanti a uscire dal disagio sociale? Si tratta, mi sembra, di fatti positivi ma non risolutivi. Restano, è inevitabile, una serie di problemi strutturali. La spirale del disagio rimane invariata.

Alla Borgata Finocchio (uno dei luoghi raggiunti dalla famigerata metro C) nel 2014 si è progettato un murales antimafia, su quella che viene chiamata Collina della Pace [19]. Murales disegnato da David Vecchiato, street artist noto come Diavù. Ma dietro a questa iniziativa c’è stato un gruppo di giovani del posto che, riuniti nell’associazione Contaminazione, si sono prodigati per il parco (unica zona verde dell’area tutta) la cui realizzazione affonda nella legge di iniziativa popolare Centonove del 1996 sull’uso sociale dei beni sottratti alla mafia.[20] Mi sembra sia importante, essenziale che le iniziative, anche quelle artistiche, abbiano una forte base locale.

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Roma, il Trullo (ph. Irene Ranaldi)

Il Trullo, a Roma sud, vanta oggi anch’esso strade colorate che attirano curiosi anche dai quartieri attorno: alcuni pittori anonimi, noti per la sigla P.A.T. con cui firmano, sono intervenuti a partire dal 2014 in varie strade, hanno colorato il Trullo, mutandone il volto. Sarebbe davvero difficile, oramai, riconoscervi l’ambientazione presente nel film Uccellacci Uccellini di P.P. Pasolini. Non solo: a Tor Marancia il vecchio lotto 1 è stato trasformato in una sorta di museo all’aperto, grazie al progetto Big City life Tor Marancia [21]. Fatti tutti decisamente interessanti, ma non, in sé, sufficienti a mutare una consolidata diversificazione tra edilizia per ceti medio alti e edilizia di emergenza, da cui derivano problemi persino di carattere igienico e sanitario. La separazione della città da certi nuovi quartieri rimane, si approfondisce. A Roma e altrove. La crescita a dismisura, a bassissima densità, almeno a Roma, non si arresta.

Ci eravamo augurati in molti che i processi di inclusione, di potenziamento di iniziative dal basso condivise, potessero essere incoraggiati, aiutati da una classe dirigente attenta e consapevole, attenta anche alle esigenze strutturali, al lavoro, all’occupazione. Ma nonostante la buona volontà di tanti, la realtà come oggi si presenta non sembra confortante, a riguardo. Non è, ad oggi, accaduto che si avesse una positiva rielaborazione dell’inclusione, dell’accettazione delle diversità, del concetto stesso di cittadinanza. O almeno, tutto ciò non è sembrato avere luogo in una periferia dove sembrano prevalere invece divisioni, localismi, rigetto. Secondo Cellamare, anche i più recenti piani di zona hanno seguito logiche di costituzione di quartieri separati, isolati. Lontani dalla città consolidata. Privi, in conseguenza, di servizi, di attrezzature adeguate. Luoghi, inevitabilmente, creatori di disagio.

Enzo Scandurra, urbanista e ingegnere che ricorre volentieri ad esemplificazioni letterarie per dimostrare il suo assunto, è forse oggi più pessimista di quanto non lo fosse in passato: le periferie, al di là di speranze e retoriche, sono ancora oggi, ci dice, luoghi di disuguaglianze [22]. Lo sono, anzi, più oggi di ieri. Zone abbandonate, ci dice Carlo Cellamare. Zone dove si cerca, certamente, di auto-organizzarsi, di reagire [23]. Ma i tempi non aiutano: sembra scomparso l’intervento pubblico, la sinistra ha smesso da tempo di rappresentare gli ultimi, di impegnarsi per cambiare questa situazione: in questo senso, manca la politica. Anzi, ci dice Paolo Berdini, è come se non ci fosse più la città. La città pubblica. C’è invece, questo sì, molta iniziativa privata, mentre gli organismi pubblici vanno verso una «inarrestabile decadenza».

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Roma, Magliana (ph. Fabio Moscatelli)

Certo, Roma ad esempio si è espansa, ha lambito, circondato, ha superato, inglobandoli, paesi vicini. Senza un piano regolatore, con notevoli abusi edilizi. Col risultato che si hanno oggi, per molti, percorsi di oltre cinquanta chilometri giornalieri per raggiungere i luoghi di lavoro, con circa quattro ore di vita perduta al giorno, come ha denunciato Paolo Berdini. Col risultato di avere un centro storico depauperato, con un forte declino demografico: un fenomeno questo che colpisce la capitale ma anche altre città. Nello stesso tempo, durante ricerche coordinate da Carlo Cellamare, di Ingegneria della Sapienza, io stessa ho potuto rendermi conto di come, da certe zone di Roma, si preferisca ormai portare i bambini a scuola verso zone più esterne invece che in aree più interne della città. Più semplice il percorso, con minore traffico, classi meno sovraffollate, maestri e insegnanti più disponibili a un colloquio, a un confronto.

Come arrestare i trend negativi che riguardano oggi le periferie, a Roma e altrove? Paolo Berdini lo dice esplicitamente: ci vuole più mano pubblica; ci vorrebbero meno interessi privati. La diagnosi ci sarebbe. Ma la volontà di procedere con la cura? Società disorientata, quella dei nostri giorni, scrive Ferrarotti. Abbandonata sì ma con tendenze all’auto-organizzazione, secondo Cellamare. Un altro punto trova unanimi consensi, tra gli studiosi: non bastano, certamente, quelle che vengono definite come ricuciture. Non bastano i ricami. Servirebbe un vero ascolto delle esigenze degli abitanti di Roma, di Palermo, di Trieste, di Napoli, delle tante città italiane piegate dalla speculazione edilizia, mortificate dall’imperare degli interessi privati, se non mafiosi. Ci vorrebbe una più forte presenza del pubblico, politici che fossero al servizio dei cittadini: il che rischia di apparire, oggi, quanto meno utopico. Non solo. Servirebbero competenze non esclusivamente architettoniche, perché il discorso sulle città non può essere, non dovrebbe essere un discorso solo architettonico, calato dall’alto.

Dire città vuol dire chiamare in causa vari aspetti del sociale: lavoro e mancanza di lavoro, interessi economici, linee politiche. L’impressione oggi prevalente tra i più seri studiosi di questi fenomeni è che ci si trovi di fronte a un ritrarsi della politica intesa come servizio ai cittadini, di fronte all’avanzata di interessi privati, se non decisamente mafiosi. Le città non sono, non sono forse mai state, solo mura, strade e piazze, edifici. Mattoni. Le città vivono di equilibri più o meno precari, di sub sistemi in interazione reciproca, che si condizionano a vicenda, spesso senza che sia intervenuto alcun piano razionale, che si sia realizzata alcuna armonia prestabilita. Le città vivono di interessi, di denaro: presente o assente. Di lavori, e di ricerca di lavoro. Hanno, le città, nei loro vari centri e nelle loro zone periferiche, esigenze di visibilità e di comunicazione. Esistono all’interno della città, delle città in espansione, che vorrebbero divenire metropoli, desideri di partecipazione: sono in aumento le liste di utenti del web che si prefiggono di vegliare sui beni pubblici, sul verde, di evitare malversazioni, di recuperare aree abbandonate, di sostenere gruppi, movimenti che hanno occupato edifici per viverci, cinema o teatri per proporre diverse produzioni (nel centro, e forse ancor più in periferia). Ci si propone e si propone sempre più spesso di partecipare a una seduta in Campidoglio, di presidiare piazza Montecitorio, di manifestare comunque in piazza il proprio dissenso. Di fronte a queste istanze, in una città oggi visibilmente impoverita, mortificata dalla crisi, il cui degrado si riscontra nella scarsa illuminazione pubblica, nell’abbandono di certe zone periferiche, nella evidente decadenza del centro, si ergono interessi consolidati sempre più forti e dominanti, su cui si sofferma lo stesso Berdini, autore di un libro dal pessimistico titolo: Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano [24].

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Roma, periferia

Gli immigrati, i richiedenti asilo, i rifugiati che vivono nel centro, dove compaiono poco, demandati come sono alla cura degli anziani e delle case; quelli, molto più visibili, che popolano le periferie, che si muovono per vie e piazze, che partecipano in vario modo alla vita della città, sono oggi presenze importanti, consentono il funzionamento quotidiano di famiglie e imprese. Eppure, ieri come oggi, o meglio oggi più di ieri sono oggetto sempre di fraintendimenti, di misconoscimenti, di rigetto. Di regola, da parte di italiani che vedono chiamato duramente in causa il loro fragile, recente benessere.

In tutto questo, le esortazioni a prendere mezzi pubblici peraltro sempre più obsoleti e rari, l’apertura di eventuali piste ciclabili, i propositi di ‘ricami’ e ‘ricuciture’ suonano come rimedi inadeguati, se non decisamente irritanti. Tanto più che poco si fa oggi, a mio parere, ma anche secondo importanti, consolidati studiosi delle città, per mettere un freno a una realtà, a una cultura sempre più individualistiche. Non parliamo poi dell’effetto che può fare, che fa un libro come quello di Veltroni, che nel 2019, nella situazione di crollo di tante speranze di vita migliore per le città italiane in genere e per Roma in particolare, non trova di meglio da fare che pubblicare un libro auto-gratulatorio, in cui Renzo Piano parla della capacità di ascolto di Veltroni, in cui il bravo Gigi Proietti si interroga su cosa sia successo, per farci passare da uno stato di salute a uno stato di evidente malattia come quello attuale. E ancora, un lungo, elaborato testo introduttivo, molto positivo verso questa ricostruzione è quello di monsignor Matteo Zuppi, oggi vescovo di Bologna: un noto urbanista, un notissimo attore, l’avallo della Chiesa. Cosa si può chiedere di più? Il silenzio, magari? Un pietoso silenzio?

E soprattutto, non si prende atto del mutamento profondo intercorso nella città di Roma o più in genere nella realtà urbana odierna, che avrebbe bisogno non tanto di palliativi, non tanto di piccole migliorìe quanto di una rielaborazione complessiva dei concetti di città e di cittadinanza. Qualche lontana luce in fondo all’oscuro tunnel della attuale situazione? Credo di sì. Esistono luci che vengono da zone di periferia un tempo note in termini negativi, oggi interessanti per più versi per il percorso già realizzato, in loco, a partire dalla area periferica stessa. Per essere riuscite ad esprimere dal basso, in proprio, con tenacia, e anche con capacità, condivisi programmi di miglioramenti possibili. Di porli all’attenzione delle autorità, di ottenerne risposte positive. Penso a Corviale, un tempo ritenuta quadrante senza alcun pregio, oggi zona riconosciuta per lo sport, per le sue strutture in merito. Un po’ il percorso di Scampia, dove nonostante l’oggettiva difficoltà di partenza, l’esistenza di uno star judo club riconosciuto ha indotto mutamenti in meglio almeno dal 1992: anche se certo sarebbe illusorio ipotizzare che tutte le difficoltà di un’area periferica possano risolversi in questo modo.

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Corviale (ph. Pasquale Liguori)

Ma Corviale, dopo anni e anni di battaglie culturali, di tentativi, è riuscita in alcune titaniche imprese: il quarto piano del noto palazzone storico che viene sgomberato, dove si potranno fare lavori, un lunghissimo intero piano che viene recuperato per il pubblico. Il ritorno di fondi già da anni stanziati, dati poi, più volte, per dispersi. Ma, soprattutto, la capacità di stringere legami con realtà italiane e straniere similari. Il ‘coordinamento delle periferie’ è certamente oggi un punto fermo per molti, una speranza di possibili migliori politiche urbanistiche in Italia.  Certo, tra i fatti negativi recentemente occorsi, al di là del quadro politico, vi è, nello specifico, anche la cassazione della Commissione governativa per le periferie: “Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie” che avrebbe potuto e dovuto essere un interlocutore privilegiato. Una Commissione scomparsa: il che la dice lunga circa la volontà governativa di intervenire positivamente nella problematica. Ma anche qui si è subito mosso, si sta muovendo il coordinamento delle periferie, che il 10 maggio 2019 ha promosso una giornata di riflessione in merito, avendo cura di coinvolgere, oltre a studiosi, autorità locali varie. Oggi è sempre più chiaro a chi ha capacità di intendere, mi sembra, che non servono, che sono insufficienti le iniziative che piovono dall’alto. Che vi sono speranze se ci si muove a partire da chi il posto lo vive, lo abita. Dalla gente che abita la periferia urbana, la conosce dall’interno, e tende reti di rapporti costruttivi con realtà che vivono problematiche affini, con le stesse autorità altrimenti lontane e poco interessate. Non basta, non è dirimente la presenza esterna, anche la più innovativa e interessante: i volontari che giungono da fuori resteranno per un certo periodo, faranno magari ottime cose. Ma poi, inevitabilmente, dovranno lasciare, andarsene. E tutto ciò che sembravano aver costruito di solido e duraturo, inevitabilmente tenderà a disfarsi. In questo senso le odierne iniziative, basate su reti locali consolidate, potrebbero essere più durature e positive. Oggi e domani.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note
[1] Non che nelle grandi metropoli statunitensi o dell’America Latina non vi siano, come nel resto del mondo, zone di forte disagio, negli anni ’70 e ’80 del Novecento ben visibili anche nelle ricche città statunitensi, oltre che in America Latina. Però i colleghi dell’Università di San Paolo, che mi avevano accompagnata più volte in aree caratterizzate da grande povertà, aree di regola staccate dal resto della città, sembravano ottimisti a riguardo. Pensavano che la situazione sarebbe cambiata in meglio. In realtà oggi anche nelle metropoli statunitensi la povertà ha invece invaso le zone un tempo estranee, di ceto medio.
[2] Mario De Quarto, Speravamo nei miracoli, Il dopoguerra in un rione di Roma, Marsilio, Venezia, 2014.
[3] F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Laterza 1971. All’epoca Ferrarotti aveva studiato L’Acquedotto Felice, il borghetto Alessandrino, il Quarticciolo.
[4] V. di Stefania Auci, I leoni di Sicilia La saga dei Florio, Casa Editrice Nord, Milano, 2019
[5] V. di Katia Scannavini e Maria Immacolata Macioti, Il valore del sapere. L’esperienza della Scuola 725. Nel libro si ricostruivano le vicende della scuola messa in piedi da don Sardelli in una baracca all’Acquedotto Felice, la assegnazione delle case popolari a Ostia Nuova. Insieme era stato realizzato un DVD di Enzo Pompeo e Luca Ricciardi con interviste a testimoni privilegiati e allo stesso don Sardelli.
[6] Questo è in genere un tratto comune un po’ in tutto il mondo. Penso ad es. al Sudafrica, dove nelle aree dedicate a persone povere, magari immigrate dai paesi limitrofi, vi sono minuscole abitazioni fatte con materiali che non verrebbero mai utilizzati per abitazioni previste altrove, per persone altre.
[7] In un recente soggiorno a Catania, nel maggio 2019, siamo stati condotti ai margini della città per mangiare in una scuola alberghiera. Passando abbiamo potuto vedere brutti caseggiati popolari. Atipici rispetto a quelli a noi ben noti perché le porte, a pianterreno, erano più piccole delle finestre. Scomodo quindi entrare, uscire, far passare eventuali materiali. Perché? Ci informiamo. Per risparmiare, pare, secondo quanto detto dai costruttori.
[8] Corviale nasce come un importante progetto di architettura nei primi anni ’80, vuole essere una sorta di ‘segno dei tempi’. La realizzazione concreta sarà purtroppo di altro segno: il quarto piano verrà immediatamente occupato, laddove nella progettazione avrebbero dovuto collocarsi lì una serie di esercizi: il palazzo, quasi un chilometro di lunghezza, resterà per anni isolato nella campagna, obbligando gli abitanti a ricorrere necessariamente a mezzi privati per qualsiasi necessità, da un pezzo di pane a una medicina. Solo oggi, agli inizi del 2019, si sta risolvendo la situazione, con espropri e assegnazioni di case per chi aveva occupato e aveva lì abitato abusivamente.
[9] Docente di psicologia evolutiva nella facoltà di Magistero della Sapienza, aveva seguito le sorti dei borgatari di Prato Rotondo che, anche con il suo aiuto, avevano ottenuto le case popolari alla Magliana. Lì giunto aveva aperto un Centro di cultura proletaria con cui lavoreranno sociologi e psicologi della Sapienza per vari anni. Tra questi, anche Ferrarotti con Maria Michetti e con me.
[10] Cfr.  «La Repubblica» del 12 marzo 2015: VII, dove Stefano Petrella scrive: Svastiche e insulti a Torpignattara contro la mostra sulla multi etnicità. Le foto dei migranti sfregiate dai vandali. Le scritte razziste: “Bengalesi via da Roma”. Qui Shahzad fu ucciso a calci e pugni. È quindi evidente che, accanto a forze creative e progressiste, esistono in varie aree di Roma gruppi di persone che ritengono gli immigrati responsabili di tutti i problemi che affliggono oggi l’Italia ed esprimono la propria rabbia, sbagliando obiettivo, su persone in difficoltà che cercano anch’esse di trovare lavoro, di vivere in tranquillità: in genere, dietro a fatti del genere vi è Casa Pound. D’altronde tanti anni di attività dei vari governi Berlusconi prima e poi delle forze leghiste hanno certamente influenzato una parte dell’opinione pubblica in direzione razzista e intollerante, complici l’assenza del PD, preso piuttosto da beghe e lacerazioni interne, e la sempre più evidente debolezza dei 5 Stelle. E vi è chi di questi stati d’animo approfitta per i propri interessi.
[11] Cfr. di Franco Ferrarotti e Maria Immacolata Macioti, Periferie da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma, 2009.
[12] Per la gentrification cfr. di Irene Ranaldi, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, Aracne, Roma, 2014. A Roma non si riscontra la compresenza delle caratteristiche, delle dinamiche ipotizzate in merito da Sharon Zukin. In particolare al Pigneto oggi le case non hanno avuto una forte levitazione dei prezzi. Del Pigneto si parla in un agile e interessante romanzo di Francesca Bellino, Sul corno del rinoceronte, uscito in Roma per i tipi de L’asino d’oro srl, nel 2014. Il romanzo chiama in causa Roma (specialmente la zona del Pigneto) e la Tunisia, in particolare Kairouan.
[13] Cfr. di Lorenzo D’Albergo, Il degrado della capitale. Pigneto, slalom tra le buche nelle strade senza più asfalto il record delle mille voragini, «la Repubblica» 13 febbraio 2015.
[14] Cfr. Fulvio Fiano, Pigneto e Monti, le mani della camorra, «la Repubblica» 11.02.2015.
[15] Michael Hertzfeld, Evicted from Eternity. The Restructuring of Modern Rome, The University of Chicago Press, Chicago 2009.
[16] Gino Battaglia, La fortuna di Dragutin, Edizioni e/o, Roma 2014.
[17] Cfr. di C. Cellamare, a cura di, Fuori raccordo Abitare l’altra Roma, Donzelli Editore, Roma 2016. Carlo Cellamare è presente con un importante saggio anche in un numero speciale del trimestrale «La critica sociologica» n.208, Inverno 2018, in cui sono riportati gli interventi avutisi presso la Casa della Memoria e della Storia in via S. Francesco di Sales a Roma il 5 ottobre 2007, sulle cosiddette borgate ufficiali. Il titolo del suo intervento: Identità e dinamiche attuali delle borgate e della periferia romana.
[18] Il film è stato prodotto per Bielle Re, presentato in anteprima al Film Festival di Sofia, è andato in concorso al Rome Independent Film Festival di Roma nel maggio 2015.
[19] Al km. diciotto della via Casilina.
[20] Cfr. Per un approfondimento di questo discorso, S.M.U.R. Self Made Urbanism Rome, Roma città autoprodotta. Ricerca urbana e linguaggi artistici, a cura di Carlo Cellamare, Manifesto libri, Roma, 2014.
[21] Finanziato dalla Fondazione Roma, ideato da 999 contemporary, presenta oggi 20 murales alti 14 metri. Cfr. «la Repubblica», Cronaca di Roma, 10 marzo 2015, dove in prima pagina si ha la foto di un palazzo su cui si erge una colorata scala rossa, blù, verde, su cui un bimbo in punta dei piedi si affaccia sulla parte più alta dell’edificio.
[22] Uno dei suoi più noti libri è Vite periferiche Solitudine e marginalità in dieci quartieri, Ediesse, Roma 2012.
[23] Iniziative interessanti continuano ad emergere, v. la proposta dell’Hortus Urbis: si tratta di un orto didattico romano, proposto nel Parco Regionale dell’Appia Antica, nell’area dell’antico fiume Almone. Cfr. www.hortusurbis.it. Iniziative lodevoli ma certamente non sufficienti. ZAPPATA ROMANA propone, all’inizio del 2019, la creazione di un orto urbano per quartiere, con un interessante richiamo: “Coltiviamo la città”. Una bella iniziativa meritoria, certamente. Ma che dovrebbe inserirsi un ben diverso contesto. Circa i tratti della città recentemente colorati viene in mente una zona di S. Francisco, Mission, che presenta grandi, colorati murales che narrano la storia del Messico, dei messicani. Ma oggi le vie sono piene di messicani e americani che dormono in terra, non più in grado di sostenere i costi delle abitazioni. Diverso il caso di Tirana, città che anni addietro è stata colorata in vario modo (case tutte di un colore o a più colori; a strisce, a volte a pois ecc.) per volontà di Edi Rama, colui che ne era all’epoca il sindaco – che dal 2013 sarà a capo del governo -– che voleva appunto rendere la città più godibile, farne un’attrazione per eventuali turisti: un’iniziativa quindi dall’alto.
[24] Paolo Berdini, Le città fallite, Donzelli, Roma, 2014.

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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica”  e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015), Miti e magie delle erbe (2019).

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