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Ricevi il mio sembiante. Cento foto di giovani in divisa militare

 copertinadi Mariano Fresta

A volte l’esplorazione degli archivi meno frequentati, anche se casuale come quella che si effettua durante una banale pulizia delle scaffalature e delle filze e dei brogliacci in esse contenuti, riserva ritrovamenti che, pur non contenendo elementi tali da modificare le nostre conoscenze storiche, sono comunque sorprendenti. Ciò è successo, poco tempo fa, in un archivio parrocchiale di Abbadia, una frazione del comune di Montepulciano (SI), che per lunghi anni era stato trascurato e abbandonato alla polvere. L’arrivo del nuovo parroco lo ha riportato alla luce, ahimè depauperato di molti registri (battesimi, morti, matrimoni), andati dispersi.

In una busta grande, non sigillata, sono state trovate un centinaio di foto, quasi tutte di giovani in divisa militare, in massima parte foto tessere, altre a tutta figura, spesso in posa come si usava una volta negli studi fotografici. Tutte le foto risalgono al periodo 1936-1944 [1], come ci dicono le date apposte nel retro delle foto, e quindi negli anni immediatamente precedenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale e durante il corso della guerra.

Che ci facessero queste foto nell’archivio parrocchiale è difficile saperlo; possiamo solo fare delle ipotesi considerando gli anni in cui le foto furono scattate e il clima storico di quegli anni e soprattutto il genere di fotografia.

Normalmente, in quegli anni e in quelli successivi fino quasi alla fine del 1900 l’opera del fotografo professionista serviva per avere il ricordo di un’occasione speciale, come un matrimonio, una cresima, un compleanno, ecc. Tra queste occasioni c’era anche quella del servizio militare, che a quei tempi si svolgeva sempre molto lontano da casa: la foto, quindi, era un mezzo per tenere un contatto virtuale con la famiglia; così scrive un giovane militare: Carissimi genitori e sorella, vi mando la foto vestito a militare. Vostro aff.mo figlio Dino G. Ricordo di Torre del Greco.

1Se poi consideriamo che, negli anni in cui risalgono le foto, il servizio di leva era propedeutico all’invio dei giovani soldati ai vari fronti di guerra, queste fotografie-ricordo acquistano un valore sentimentale e culturale notevole e rappresentano una testimonianza che ribadisce la grande funzione simbolica che un’immagine ricordo poteva avere in quei frangenti.

Se è abbastanza facile collocare le foto in quel preciso periodo, non è possibile, senza l’appiglio di una testimonianza pur minima, stabilire il motivo per cui esse sono andate a finire nell’archivio parrocchiale. Le congetture che si possono avanzare non poggiano su elementi plausibili, come sono le date apposte nel retro delle foto, tuttavia è lecito pensare che esse siano state usate per una forma di ritualità apotropaica, a metà tra il gesto scaramantico e la fede religiosa. Forse, portando in chiesa le foto e depositandole sull’altare, le mamme, le mogli o chiunque l’abbia fatto, pensavano di mettere sotto protezione divina i loro cari.

A rafforzare tale ipotesi ci viene in soccorso Walter Benjamin; il quale, studiando l’uso e la funzione della fotografia nella società moderna, ha affacciato l’ipotesi che i ritratti odierni possono essere paragonati ai graffiti che molte popolazioni cosiddette primitive ci hanno lasciato. Queste comunità umane sopravvivevano grazie alla predazione a ciò che riuscivano a cacciare. Nelle pareti delle caverne dove abitavano erano solite disegnare, con brevi e rozzi schizzi, scene in cui i cacciatori catturavano cervi e buoi selvatici. Questi disegni, secondo le ipotesi degli studiosi che li hanno esaminati, dovevano facilitare la cattura di quegli animali, la cui carne costituiva se non l’unico certamente il principale alimento. Il disegno per loro era, dunque, un fatto rituale, magico; da noi, che non abbiamo più la necessità di andare a caccia per procurarci il cibo, questi graffiti non sono visti come disegni rituali, ma come le prime testimonianze di un intento artistico.

Anche la fotografia, sin dalla sua nascita, è stata considerata come una espressione artistica. Ma, dice Benjamin, un po’ di quell’elemento ritualistico e magico che era proprio dei disegni preistorici, è rimasto nel ritratto fotografico che, magicamente ci consente di avere sempre accanto a noi le persone care [2]. Da parte sua, Giulio Bollati aggiunge: «Una carica magica, per quanto fievole, resiste in queste immagini umane più che in altre» [3].

2Tra le dediche che si trovano nel retro delle foto, sono espressi concetti che in qualche modo avvalorano le tesi di Benjamin e di Bollati; come per esempio, i seguenti: Con tutta la sincerità del mio cuore offro a Te perché mi ricordi più spesso; Offro con affetto alla mia cara madre perché quando a bisogno di vedermi mi possa vedere; Ricevi il mio sembiante per Ricordo Alla mia Cara Famiglia; Quando essa giunge – vorrei sostituire il suo posto non potento – gradite con tanto affetto [4].

Chi ha portato le foto in chiesa, quindi, non solo rispondeva al suo bisogno di esternare la propria fede religiosa, ma, senza averne coscienza, ripeteva un rito magico antichissimo, il solo forse, per una mentalità popolare, che in quei drammatici momenti storici potesse garantire il ritorno del figlio o del marito ritratto nella foto.

Questa ipotesi, però, apre un’altra domanda: le donne, o chi per esse, sono andate a portare le foto in chiesa alla spicciolata o c’è stato un progetto collettivo? Probabilmente l’iniziativa è stata presa da qualcuno/a; poi, grazie al passaparola, le foto si sono accumulate sull’altare della chiesa forse fino a quando il fronte della guerra si fu spostato più a Nord nell’estate del 1944, ultimo anno documentato nel retro delle foto [5]. A quel punto, probabilmente, o poco più tardi, il parroco di allora, invece di restituirle ai proprietari, mise le foto in una busta che collocò tra i documenti dell’archivio. Probabilmente l’idea sua fu quella di considerare le foto come fossero particolari ex voto.

Torrione-della-fattoria-granducale-di-Abbadia

Torrione della fattoria granducale di Abbadia

Le foto complessivamente rappresentano centoventi persone, quasi tutte giovani e giovanissime, di cui solo meno di dieci rimangono sconosciute [6]. Nel retro della maggior parte di esse i fotografati hanno scritto delle dediche firmate oppure hanno apposto solo la firma; ma, prima di archiviarle, chi ha conservato le foto nella busta si è preoccupato di scrivere in un angolo del recto di ogni foto, con grafia chiara ed elegante, nome e cognome della persona. È stato certamente il parroco di allora a compiere questa operazione e quindi si può pensare che le poche foto rimaste senza indicazione anagrafica siano dovute ad una dimenticanza e non perché quei giovani gli fossero sconosciuti.

Il territorio di Abbadia, da cui le foto provengono, è stato fino alla metà del secolo scorso caratterizzato dalla mezzadria, che in Toscana ha avuto una vita lunga e ha opposto una forte resistenza all’ingresso del capitalismo nelle campagne. Negli anni di cui ci stiamo occupando, il territorio di Abbadia e quelli circostanti, dopo i primi grandi lavori della bonifica della val di Chiana, tra Settecento e Ottocento, erano diventati la roccaforte di questo sistema di conduzione agraria, avuto in eredità dai secoli precedenti e rafforzato nel corso del diciannovesimo secolo. Il modello esemplare era rappresentato dalle grandi fattorie che erano state istituite dai granduchi toscani e che con l’Unità italiana erano passati a grandi proprietari come il Ricasoli, capo del governo monarchico, e come la famiglia dei Bastogi, grandi commercianti e finanzieri livornesi che qui impiegarono i loro capitali, oltre che nelle ferrovie meridionali.

La Fattoria di Abbadia, in mano prima al Ricasoli e poi ai Bastogi, nel periodo che ci interessa era di proprietà di Varo Ciuffi, ex fattore dei Bastogi; in essa vivevano ben settecento persone distribuite in circa trenta poderi. La fattoria era nata dopo la bonifica della Val di Chiana [7], così come le altre, più o meno confinanti o vicine: Acquaviva a Sud, le Chianacce e Bettolle a Nord, e Valiano ad Est. Ma oltre alle fattorie, altre piccole e medie aziende agrarie punteggiavano con poderi isolati tutto il territorio, che aveva, quindi, un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura e i cui abitanti, tranne quei pochi che esercitavano mestieri di artigianato nei borghi e nei piccoli paesi, erano impiegati come coltivatori secondo i contratti di mezzadria.

Le fotografie danno in qualche modo un’immagine di questo mondo contadino: molti dei giovani appaiono goffi, infagottati in panni molto ampi e non adatti; ma anche quando la divisa è perfettamente stirata e in ordine i giovani mostrano timidezza e impaccio, si vede che si sono appena allontanati dalla famiglia e dal loro mondo abituale. Sembrano anche spauriti per l’incertezza del loro futuro. I fotografi, quelli che hanno scattato le fotografie in posa nei loro studi, hanno fatto di tutto per dare solennità al ritratto, facendo appoggiare i giovani ad un mobiletto, adornando la scena con tendaggi e sedie e vasi di fiori, mettendo loro in una mano i guanti e nell’altra una sigaretta infilata tra le dita. Ma l’aria del giovane contadino sradicato non sono riusciti a toglierla. Solo pochi mostrano di essere maturi e consapevoli. Qualcun altro, addirittura, si mostra spavaldo e dopo la dedica alla madre, scrive: Vinceremo – Prestissimo. La data apposta nel retro della foto è il 1942: chissà se dopo qualche anno di guerra l’avrebbe scritto ancora.

Tredici foto presentano soggetti in abito borghese, forse perché, non avendo i giovani inviato testimonianze della loro vita militare, le famiglie hanno portato in chiesa i ritratti che si trovavano in casa. In uno si vede un giovane che lavora al desco di ciabattino: forse aveva imparato il mestiere di calzolaio mentre svolgeva il servizio militare, come fa sembrare la dedica rivolta “ai cari genitori”.

4Anche se non abbiamo notizie sicure per tutti i fotografati, senza dubbio la maggior parte di loro proveniva da famiglie mezzadrili. In qualche dedica ci sono degli indizi che ce lo fanno capire. Nella dedica, infatti, che Lucio F. scrive nel retro dell’immagine, si può leggere la mentalità tradizionale che prescriveva precise gerarchie in seno alla famiglia contadina:

Con tanto affetto e amore offro il mio caro ricordo con tanto bene alla mia cara e affettuosa Famiglia Mamma Moglie e Figlia. Sempre vostro aff.mo Figlio, Marito, Padre. Lucio F.

Il saluto va rivolto innanzitutto al membro più importante della famiglia; in questo caso, in assenza del padre, forse morto, la prima persona ad essere citata è la Mamma; viene poi la Moglie ed infine la Figlia. Le iniziali maiuscole evidenziano il valore che si dava ai componenti della Famiglia (termine anch’esso con iniziale maiuscola). Nella firma si ripercorre lo stesso ordine gerarchico, ma visto dalla parte dello scrivente: Figlio, Marito e Padre.

Qualcuno pensa di rassicurare i familiari informandoli di stare bene e scherzando sull’immagine fotografica diversa da altre che forse ha già inviato a casa: Sono un po serio ma non credete che sia in pensiero e solamente perché in foto vengo sempre a bocca aperta e così sto con la bocca chiusa de resto non so venuto male (Nerino B.).

Le famiglie mezzadrili vivevano in una situazione di sopravvivenza; a parte quelle che lavoravano nella Fattoria di Abbadia, che avevano una vita leggermente più comoda abitando in case fornite di acqua corrente e luce elettrica e i cui terreni a loro assegnati fruttavano di più, molte vivevano in grande povertà, materiale e culturale. Ne abbiamo una testimonianza nella dedica che Egizio M. scrive nel verso della sua foto:

Pisa 1.4. 1942 XX. Questa sarà l’ unica e la prima [foto] [8] che esiste della famiglia M. Saluti cari …

5Si deve dedurre che un’esistenza molto povera impediva ai componenti della famiglia M. di avere la possibilità di farsi fotografare. Egizio nel dirlo forse era compiaciuto, certamente era meravigliato per essere l’unico a poter fare una cosa non consentita ai parenti.

Sul retro di alcune foto, oltre alle firme autografe, sono riportate le date dello scatto, qualche volta si trova l’indicazione dello studio fotografico nel quale sono state eseguite (spesso in città lontane da Abbadia: Verona, Cagliari, Pordenone, Ferrara, Piacenza, Augusta, Desenzano, Torino), in alcune possono leggersi le dediche e in una anche una testimonianza sulla facoltà che avevano le famiglie di chiedere, se tre figli si trovavano al fronte contemporaneamente, un congedo straordinario per uno di essi che potesse aiutarli nei lavori più importanti, come la mietitura e la trebbiatura:

Ogi oscrito la lettera e stasera oricevuto anche la cartolina dove mi dici che il mio fratello e facile che viene accasa. Allora io sono contento almeno uno che vi dia aiuto ma almeno se mi manda la domanda che ho chiesto che qui ce lordine che mandano di (?) 3 fratelli. Saluti (Federico S.).

6Nel saggio La camera chiara Roland Barthes [9] fa alcune osservazioni sulle funzioni e sull’uso della fotografia che forse vale la pena di rivedere mettendole in relazione alle foto dei giovani abbadiani.

È in questi giovani militari la profonda convinzione che la fotografia possa sostituirsi alla persona reale (perché quando ha bisogno di vedermi mi possa vedere); una convinzione che non è solo di quei giovani: oggi la moda del “selfie” ha tutt’altro significato e diversa funzione di quella che alla foto attribuivamo fino a qualche decennio addietro, quando sui nostri comò o nelle vetrine delle credenze mettevamo i ritratti dei genitori, dei nonni o dei figli in tenera età, suscitando in noi quasi un culto idolatrico, come dice Bollati [10].

Gli stessi ritocchi a matita che i fotografi di una volta facevano sulle foto, oppure la colorazione del bianco e nero non riguardavano solo la ricerca di un abbellimento estetico (che pure c’era), manifestavano soprattutto la volontà di rendere quanto più vicina alla realtà un’immagine che con il reale ha solo in comune l’apparenza. C’è quasi una contraddizione interna nella foto: da una parte rispecchia il reale, dall’altra si sa che non è realtà. Dice Barthes che essa «è falsa a livello di percezione, vera a livello del tempo» (:115); si capisce subito che l’immagine ritratta non può essere la persona nella sua realtà, nello stesso tempo, tuttavia, essa è la testimonianza del trascorrere del tempo; l’immagine rimanda alla persona com’era quando fu fotografata e non com’è nella realtà, lontana dal momento dello scatto fotografico. E poi, continua ancora Barthes, «la fotografia riproduce all’infinito ciò che ha avuto luogo una sola volta, per questo chi è stato fotografato non si modifica, rimane sempre identico, non invecchia, è una realtà fissa» (ibidem). Che la foto possa rappresentare il reale, che è dinamico e non statico, è solo un’opinione, dunque, forse un’illusione.

7Per maggiore aderenza alla realtà, in genere si mette nel retro della foto la data di quando fu scattata; anche molti dei militari fotografati l’hanno messa. L’indicazione temporale, secondo Roland Barthes, riveste una grande importanza perché fa parte della foto e ci avverte che solo in quel giorno l’immagine fotografica corrisponde all’immagine reale. Non solo: la data «ci induce a far mente locale, a considerare la vita, la morte, l’inesorabile estinguersi delle generazioni» (: 84) e quindi ci dice che la foto non è la realtà. Questa annotazione del semiologo francese mi fa venire in mente alcune informazioni che riguardano Giuseppe B., uno dei giovani militari abbadiani; a sentire quelli che di lui si ricordano, egli era soprannominato “pallino” e che prima di partire, come riferisce la nipote Fiorella, pare avesse detto: «Se vivo fo’ signora la mi’ mamma». Magari i suoi parenti guardavano la foto considerandolo ancora vivo, mentre nella realtà il giovane era morto nell’affondamento del sottomarino su cui prestava servizio.

Noi guardiamo le foto di questi giovani abbadiani, ma fatichiamo a riconoscerli, non riusciamo a collocarli in un contesto sociale: che lavoro facevano? Erano sposati, fidanzati? Quale futuro si prefiggevano, cosa pensavano del mondo? E, dopo, tornati dalla guerra (purtroppo non tutti), in cosa erano cambiati, cosa avevano imparato dall’esperienza terribile del conflitto? Inutilmente guardiamo le foto, esse non rispondono alle nostre domande. Qualcosa ci hanno detto i loro discendenti e gli amici che li hanno conosciuti e che sono ancora vivi.

8Questa immobilità del fotografato è l’unica realtà che abbiamo di lui: il giovane militare è quello che si vede in foto, ma soltanto quello che si vede, non altro. Magritte dopo aver dipinto una pipa sulla tela poteva scriverci sopra “questa non è una pipa”, perché in effetti non si tratta di una “pipa in sé” ma della sua riproduzione pittorica. Guardando la foto di un immaginario Giuseppe noi invece diciamo: «questo è Giuseppe», pur sapendo che il vero Giuseppe ha una sua corporeità, parla, ha sentimenti, ha pensieri, non è un’immagine muta e ad una sola dimensione. Nella foto Giuseppe ci appare vivo e vicino, nonostante sappiamo che il vero Giuseppe è partito tanti anni fa e che di lui non abbiamo notizie da molto tempo, non sappiamo dove esattamente si trovi, forse non è più vivo. Ma guardando la foto, affidandoci all’apparenza, diciamo: «questo è Giuseppe». Lui, come tutti gli altri centoventi delle foto, non può dirci nulla: chissà quante storie di vita avremmo potuto raccogliere se li avessimo intervistati quando erano ancora vivi! Con cento persone a raccontare avremmo ricostruito la storia di cento anni della vita comunitaria di Abbadia.

Come dice Bollati, è possibile che nella foto ci sia qualcosa che si ricolleghi ad una sorta di ritualità. I credenti cattolici tutte le domeniche vanno a messa per assistere ad un rito religioso, sempre quello per tutte le domeniche e per tutti gli anni. Ma non è il “fatto” originale, accaduto tanti secoli fa, quello a cui assistono, è solo una sua rappresentazione rituale, come la foto è la riproduzione di una persona o di un oggetto o di un paesaggio reale. Forse l’esporre le foto dei parenti più prossimi sui comò, nelle vetrine delle credenze fa parte di una ritualità familiare, che si sostituisce, nell’illusione di una vittoria sulla lontananza o addirittura sulla morte, alle persone reali che non sono temporaneamente a noi vicine o che se ne sono andate per sempre.

9La stessa illusione si ricrea quando la fotografia è usata per altre occasioni, come quelle delle gite e dei viaggi turistici: adesso, quando ci troviamo in una città o un Paese diverso dal nostro, con le camere digitali scattiamo centinaia di fotografie convinti di esserci appropriati dei paesaggi, dei monumenti, della gente che fuggevolmente abbiamo vista e incontrata. Ma questo atteggiamento, già studiato dalla Sontag quaranta anni fa [11], somiglia, essendone proprio l’inverso, a quello che molte popolazioni delle Americhe e dell’Africa, lontane dalla cultura europea, avevano quando si rifiutavano di farsi fotografare perché pensavano che si rubasse loro l’anima o una parte della loro persona. Ma l’una e l’altra convinzione non sono che “credenze”, sono superstizioni.

La rappresentazione fotografica possiede proprio questa ambiguità: da una parte essa fissa su un rettangolo di carta un oggetto vero, una persona viva, un fatto realmente accaduto, tanto da essere usata come prova testimoniale nei processi; e ci restituisce alcuni momenti della nostra vita, ce li fa tornare alla memoria e ci fa rivivere vicende ed emozioni che avevamo dimenticato; dall’altra parte quel pezzo di carta su cui è avvenuto un processo chimico è più aleatorio della nostra memoria: basta un fiammifero, basta un po’ di disattenzione perché vada a finire nel cestino della carta straccia, perché scompaia nel nulla.

Si può dire che la foto rappresenta la realtà? Se dobbiamo dar credito a chi toglie il malocchio e a chi pratica un po’ di magia nera usando la foto, al posto della ciocca dei capelli o di qualche altra cosa di personale, dovremmo dire di sì. Anche se questi presunti maghe e stregoni avessero ragione, non si può essere sicuri che la fotografia renda la realtà. Forse lo sapevano anche Verga e Capuana che con l’intento di fare del “verismo”, temendo di non esserne capaci con la scrittura, lasciarono la penna per la macchina fotografica. La fisica e la chimica funzionanti nella camera oscura e nelle operazioni di sviluppo e stampa non garantiscono nessuna “verità” e nessuna “realtà”. Ce lo spiega ancora Barthes quando parla delle nostre personali fotografie. Qualche volta siamo stati fotografati senza essercene accorti; in questo caso anche noi proviamo qualche difficoltà a riconoscerci, perché non ricordiamo l’occasione, il giorno, in cui siamo stati ripresi; forse il contesto può venirci in soccorso, se il fotografo l’ha voluto illustrare. Quando poi siamo coscienti che l’obbiettivo è puntato su di noi, facciamo di tutto per diventare diversi da quello che appariamo: «Non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di “posa”, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo» (:15); cosicché non è l’immagine che non coincide con me, «sono io che non coincido con la mia immagine» (:13).

10Se non possiamo riconoscerci in una foto che ci ritrae e se ogni foto non è altro che un’appropriazione di qualcosa che non ci appartiene (come nel caso di una foto ad un monumento, ad un paesaggio), di chi è la foto? Appartiene al soggetto ritratto, oppure al fotografo, oppure ad altri? [12] Scrive Barthes: «Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei che io sia, quello che il fotografo crede io sia e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte» [13]. Se le cose stanno così, è difficile individuare il proprietario della foto, forse, secondo il diritto privato, la foto è di chi l’ha commissionata e ha sborsato il denaro per pagare il fotografo.

E difatti, il giovane militare Vibrante B., sicuro di poterlo fare, scrive sul retro della foto, rivolgendosi probabilmente al padre: «Questa la dai allo zio Zelindo». Da parte sua, Giovanni C., in posa in uno studio fotografico, in atteggiamento timido e insieme non privo di affettazione, con sullo sfondo la Cupola di san Pietro e Castel Sant’Angelo, tutti colorati come tinti di rosso sono le mostrine della divisa ben stirata e il mazzo di fiori sul tavolinetto accanto, può ingiungere alla famiglia: «Non ladate a Nessuno».

11Le centoventisei fotografie costituiscono un piccolo cosmo, sono l’immagine di quello che doveva essere il borgo contadino di Abbadia a quasi metà del XX secolo: ci sono i volti timidi ed impacciati di giovani contadini, quelli di paesani con i capelli lucidi di brillantina che vogliono imitare i divi visti al cinematografo, ci sono gli impiegati delle aziende che appaiono sicuri di sé, quelli che si mostrano spavaldi e si fanno ritrarre accanto ai cavalli o dietro le mitragliatrici.

12Ci sono quelli che si firmano con grandi svolazzi mostrandosi pienamente in possesso della scrittura, altri che stentano a fare la firma e che scrivono frasi sintatticamente traballanti o usano la maiuscola quando affrontano termini come Padre, Moglie, Figlia, Militare, ecc. Soprattutto ci sono persone che forse per la prima volta si trovavano in uno studio fotografico e cercavano quindi di apparire nella veste più solenne possibile per mandare la propria immagine ai familiari che, ovviamente, l’avrebbero mostrata ad altri parenti e agli amici.

In queste immagini a mezzobusto o a figura intera, infine, traspaiono tutti quegli elementi di ambiguità della fotografia (la sua presunta rappresentazione del reale, la sua forza magica, la sua funzione nel rito familiare e sociale, la sua capacità di suscitare e rimettere in circolazione memorie, sentimenti ed emozioni, ecc.). È come se, oltre a mostrarci i corpi di queste persone, la foto ci facesse intravedere ciò che sta dietro e dentro di essi: la condizione sociale, la cultura, le aspirazioni, il timore di affrontare la vita in una situazione storica drammatica in cui il futuro è solo un tunnel di cui non si vede la fine.

Dialoghi Mediterranei, n.35, gennaio 2019
Note
[1] Le foto datate prima del 1941 sono poche, meno di una decina.
[2] W. Benjamin ne parla in Piccola storia della fotografia, pubblicata in Italia insieme con L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 e 1991; la sua tesi è stata ripresa e fatta propria da Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Storia d’Italia, Annali, Einaudi 1979: 5 sgg).
[3] Bollati, cit.: 8.
[4] Da Roland Barthes arriva un’altra suggestione: il semiologo francese, (in La camera chiara, Einaudi, Torino 1980 e 2003: 81-82) fa notare che la foto è il risultato di un’impressione sugli alogenuri d’argento delle radiazioni luminose emesse da un oggetto. Solo pochi conoscono che la fotografia deriva da questo processo chimico, ma tutti ci meravigliamo di come la nostra immagine possa, “magicamente”, depositarsi e fissarsi su un foglio di carta.
[5] Dopo la stesura di questo testo, casualmente sono venuto a sapere che negli anni ‘80 del secolo scorso a Valiano, altra frazione del Comune di Montepulciano, il parroco di allora organizzò una mostra sulla Ia guerra mondiale esponendo molte foto di giovani in divisa militare pronti per andare a combattere. Non ho potuto verificare la notizia, ma se essa risponde ad un fatto realmente accaduto, allora dobbiamo presumere che il deposito di foto sugli altari delle chiese fu un fenomeno che non riguarda solo Abbadia, ma ebbe forse una diffusione più ampia.
[6] Un gruppo di persone dell’Abbadia, su invito del parroco, ha proceduto al riconoscimento dei fotografati mediante ricerche archivistiche e intervistando alcuni anziani del paese.
[7] La bonifica fu cominciata già alla fine del 1400, ma i lavori più efficaci furono quelli promossi dal granduca Leopoldo, a partire dal 1788, che si servì di due grandi ingegneri, il Fossombroni e il Manetti. La bonifica si protrasse ancora per molti anni, fino al 1944 quando si decise di non prosciugare le ultime paludi che hanno dato vita agli odierni laghi di Montepulciano e di Chiusi. Si veda a tal proposito G. F. Di Pietro, Atlante della Val di Chiana. Cronologia della bonifica, Regione Toscana, 2005.
[8] I due aggettivi unica e prima non sono seguiti dal sostantivo, ma l’integrazione della parola “foto” non sembra fuori luogo.
[9] Barthes Roland., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003 (1980).
[10] Bollati, Note … cit. : 8.
[11] Sontag Susan, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1992 (1978).
[12] Barthes si chiede: «Lo stesso paesaggio non è forse una specie di prestito avuto dal proprietario del terreno?», (La camera .. cit: 14).
[13] Ibidem: 14.
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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è interessato ai temi della identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Più recentemente si è occupato dei paesi e dei borghi abbandonati. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org
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