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Regimi alimentari e pratiche religiose

nioladi Mariano Fresta

Come Dio comanda è una locuzione avverbiale che il Dizionario di Italiano di De Mauro così spiega: «nel modo migliore, bene»; aggiungendo come esempi due frasi abbastanza comuni: «fare qualcosa come Dio comanda», «abbiamo mangiato come Dio comanda». Possiamo ancora aggiungere: piove come Dio comanda, costruire una casa come Dio comanda e così via …

Ma qual è il significato vero del titolo del volume di E. Moro e M. Niola, Mangiare come Dio comanda (Einaudi 2023)? Una prima risposta ci è data dal dizionario più sopra citato: mangiare pietanze debitamente cucinate, magari accompagnate da bevande di qualità. Come vedremo, tuttavia, questa non è la sola definizione che viene illustrata nel libro. La frase, infatti, è usata per significare un’altra cosa, cioè mangiare come prescrivono i precetti di una religione e quindi quali sono e come si manifestano le pratiche alimentari presenti nelle ritualità più importanti del nostro pianeta. Questo secondo significato è in parte il tema del primo capitolo dell’opera dove si parla delle discussioni tra i Padri della Chiesa cattolica su cosa e su come il cristiano deve mangiare; poi, lo stesso esame viene svolto, ma in modo più succinto, per le altre religioni più diffuse; infine l’argomentazione si riferisce a quei movimenti religiosi moderni e ai loro fondatori che sfruttano, a scopo di lucro, la moda delle diete, confondendo ad arte alimentazione e religione per avere un maggior numero di seguaci, che, a ben vedere appaiono piuttosto creduloni ed inclini a farsi persuadere da chiacchiere scientificamente ridicole. Si va, insomma, dalle pratiche cerimoniali trasmesse a noi Europei dell’età contemporanea dalle religioni del mondo classico, per arrivare fino alle mode dietetiche che si avvicendano continuamente in una società “globalizzata” in cui predominano le mode passeggere della cultura di massa e l’idea che “più dell’essere – conta il parere”.

In un mondo dilacerato come il nostro, in cui conflitti armati e conflitti religiosi ed ideologici determinano un’atmosfera per niente pacifica, i due Autori nella premessa tessono l’elogio della città di Sarajevo, dove, prima della dissoluzione violenta della Iugoslavia, tra le sue comunità di religione diversa esistevano rapporti di buon vicinato dovuti ad una legge non scritta, ma da tutti osservata, per la quale la convivenza civile veniva prima delle proprie pratiche religiose, tra cui quelle alimentari. Oggi le cose non stanno più così e le differenze religiose marcano maggiormente quelle alimentari, come gli Autori dimostrano nei capitoli successivi.

Il rapporto fra cibo e religione viene individuato nei sacrifici di primizie della terra e di carni di animali allevati che gli antichi uomini offrivano alle divinità: visto, dunque, che nelle pratiche religiose il cibo con il suo consumo comunitario e rituale è stato l’elemento più importante, si può dedurre, si dice nel libro, che esso è non solo «il carburante della storia» ma anche la «materia prima della religione», in quanto le norme relative alla sua cottura e al suo consumo, essendo state sacralizzate, sono diventate leggi morali.

Per le argomentazioni generali di cui tratta, tutto il capitolo primo può essere considerato come introduzione alle pagine successive. In esso, infatti, vengono fissati i punti principali dell’alimentazione antica del bacino del Mediterraneo, dove col nome ormai noto appunto di “dieta mediterranea” continua anche oggi ad essere in auge. Visto che poi si parlerà di altre religioni e di altri continenti, tale introduzione può apparire forse eurocentrica, se non italocentrica.

Secondo Lévi-Strauss, l’addomesticamento del fuoco, con la conseguente produzione di cibi cotti, segna il passaggio dell’uomo dallo stato selvaggio a quello civile, dalla natura alla cultura. Seguendo questa traccia, gli Autori del testo ci informano che questa concezione della storia umana apparteneva già agli antichi Greci: Omero, infatti, tiene a ribadire la differenza tra Ulisse, uomo civile che mangia pane (un alimento elaborato e trasformato dal lievito e infine cotto), e Polifemo che si alimenta di cibi crudi e di carne umana e che rappresenta, per questo, una condizione primitiva, di non civiltà.

9788817165563_0_500_0_75La Grecia di Omero e il bacino del Mediterraneo sono, dunque, il punto di partenza della trattazione del tema “cibo/religione”, essi sono i luoghi in cui si afferma una alimentazione basata sulla triade pane, olio e vino, il consumo dei quali presuppone una serie di racconti mitologici che sono ampiamente illustrati nel libro. Il pane e il vino pongono qualche problema: la farina e l’acqua per diventare pane hanno bisogno del lievito, un elemento estraneo che ha la capacità quasi divina di trasformare l’impasto; il risultato della metamorfosi è del tutto positivo e il suo esempio può essere preso, come simbolo, per le comunità umane in cui l’arrivo di elementi estranei diventa un innesco di cambiamenti positivi. Diverso è, invece, l’esito della fermentazione del mosto che, diventato vino, se consumato in eccesso e senza averlo stemperato, può causare squilibri e caos e può far regredire fino allo stadio della primitività, come dimostra nell’Odissea l’episodio di Polifemo ubriaco.

Senza equilibrio non c’è civiltà, in qualunque campo dell’attività umana, spiega Platone nel Simposio, durante il quale si beve vino che, stemperato con l’acqua, diventa oltre che una bevanda piacevole anche il simbolo dell’equilibrio da ricercare sempre e ovunque.

Con Pitagora si affaccia un tema di grande importanza che avrà ripercussioni perfino nel mondo di oggi. Il filosofo avanza, infatti, l’ipotesi che si può vivere alimentandosi solo di vegetali, senza uccidere altri esseri viventi. La sua non era un’idea del tutto nuova in quanto nei racconti mitologici si parlava di un’Età dell’oro quando gli uomini si erano cibati solo di erbe e cereali e di una successiva Età dell’argento durante la quale sulle mense comparve la carne; ma la proposta di Pitagora aveva un fondamento etico allora del tutto sconosciuto che probabilmente è stato il motivo per cui è arrivata fino a noi, pur percorrendo molto lentamente una strada lunghissima e tortuosa.

Dopo alcuni decenni, l’invito di Pitagora fu fatto proprio da Platone che nella Repubblica, per bocca di Socrate, «enuncia i princìpi di una comunità in pace con sé stessa e con l’ambiente», perché si ciba solo di cereali. Per il momento, tuttavia, si trattava di una enunciazione isolata e troppo anticonformista per un popolo che leggeva le gesta degli eroi omerici, grandi mangiatori di carne.

9788842045441_0_536_0_75Con la diffusione del Cristianesimo, le cose cambiarono notevolmente, specie nella scelta dei cibi da consumare: “I cristiani mangiano di tutto” è infatti il titolo del secondo capitolo in cui si parla delle trasformazioni culturali, etiche e alimentari indotte dalla nuova religione. Questa promosse in effetti la caduta di molti tabu alimentari; se, però, tutto diventava buono da mangiare, non era lecito mangiare troppo e consumare senza che altri ne facessero parte, quindi al posto dei divieti nei confronti di alcuni alimenti subentrarono le norme della sobrietà e della condivisione nel consumo dei cibi.

La novità più importante consistette nella elevazione in sede teologica della triade mediterranea, pane, olio e vino. L’olio diventò il simbolo del crisma, del dono dello Spirito santo e della consacrazione sacerdotale (Cristo significa, come si sa, l’Unto) e il pane e il vino costituirono, realmente e simbolicamente, gli elementi essenziali della comunione, scelti probabilmente perché alimenti comuni la cui condivisione più facilmente e più profondamente poteva tenere uniti i membri della comunità cristiana.

Il tema della sobrietà nell’alimentazione occupa molto spazio del libro perché essa si presenta come fenomeno piuttosto complesso in quanto ingloba non solo la moderazione nel soddisfare i bisogni naturali ma pure gli eccessi, come la golosità e l’obesità, l’astinenza e il digiuno, intesi come peccati le prime due e come discipline spirituali le altre. La prima è tuttavia considerata un peccato veniale, come dimostrano le considerazioni di san Tommaso e i versi di Dante quando ne parla nella Commedia, mentre l’obesità era vista non tanto come peccato in sé, ma come esito del peccato di gola; in quanto tale era stata già condannata nella Bibbia dal profeta Amos.

Se il Cristianesimo in fine dei conti si è mostrato piuttosto tollerante nei confronti del grasso e dell’obeso, tutto cambia con «la rivoluzione industriale, dopo la quale l’obesità non è più un marchio morale, ma un aspetto della persona: l’obesità diventa malattia». E mentre una volta il digiuno si faceva per salvarsi l’anima, da quasi due secoli ormai oggi si fa per “mantenere la linea”, per salvaguardare la salute del corpo.

142107088-3b054ac3-cf75-46a4-8112-47b6417a1476Traendo spunto da alcuni passi biblici da cui si evince che l’obesità nasconde il peccato e che il diavolo ci vuole grassi, nella nostra età, in epoca di grande consumismo, proliferano e si moltiplicano numerose sette religiose le quali, in nome della salvezza eterna, propongono diete particolari. A questi fenomeni sono dedicate diverse pagine, dove, accanto a notizie di una certa serietà, c’è una caterva di dati relativi a pseudo-filosofi, improvvisati profeti fondatori di nuove verità religiose e soprattutto di libri di ricette e di ritrovati alimentari che lasciano il tempo che trovano. Tra questi capi religiosi si trova pure Kellogg, presente con i suoi pacchetti di corn flakes in tutti i supermercati e fautore di teorie pericolose come quella dell’eugenetica.

Dopo averci parlato a lungo di queste imprese poco religiose e molto affaristiche, gli Autori chiosano: «Di fatto, tutte queste “faith diets”, più che dell’insegnamento evangelico, sono le figlie della società dell’immagine e del cortocircuito fra essere e apparire che essa produce». Al che è lecito aggiungere che se si può mettere in discussione o negare che le religioni siano l’oppio dei popoli, come ebbe a dire Feuerbach, ci è abbastanza chiaro che tutti questi ciarlatani, consapevoli o meno, riescono con argomenti fintamente religiosi ad ipnotizzare e a convincere ed ingannare la gente. Magari qualcuno perderà grazie alle diete suggerite qualche chilogrammo, ma è certo che ad ingrassare realmente sono i conti bancari degli inventori di queste furbesche trovate.

Ovviamente nessuno di essi strumentalizza, come avviene per l’obesità, il tema dell’astinenza e quello del digiuno, comportamenti presenti in tutte le religioni esaminate e da esse spesso suggeriti. Perché molte sono le divergenze culturali e teologiche delle varie religioni, ma quasi unico è il rigore che esigono dai loro seguaci. L’esortazione all’astinenza è, dunque, ampiamente predicata e fa il paio con l’invito all’equilibrio che ci viene dalla filosofia greca antica. Ma spesso al posto dell’astinenza si preferisce invitare al digiuno, visto insieme come rimedio corporale e disciplina morale e spirituale. Volendo, ci sono esempi da seguire, magari molto duri da sopportare, perché in genere un vero digiuno deve durare ben quaranta giorni, tanti quanti quelli in cui Pitagora, Mosè e Gesù evitarono di alimentarsi. Quaranta sono anche i giorni della Quaresima cristiana, durante i quali si richiedeva (oggi pare che le prescrizioni si siano notevolmente allentate) ai fedeli se non il digiuno totale almeno l’astinenza dalla carne. Perché questo alimento, già guardato male dagli antichi, sebbene non fosse condannato dalla Chiesa, era ritenuto pericoloso dato che, come ha stabilito «papa Paolo VI, negli anni Sessanta del Novecento, a far problema non è la carne in sé, ma quei cibi e quei comportamenti che … incarnano l’eccesso, lo spreco, la disparità sociale». Quindi, ancora un elogio della sobrietà e un invito a praticarla.

Concilio di Trento

Concilio di Trento

Dopo il Concilio di Trento la carne fu sostituita dal pesce, che fornisce un alimento proteico privo di quei grassi nocivi alla salute del corpo e dell’anima. E così venne eliminato un grosso problema (specie per le classi abbienti che si ammalavano di gotta), perché oltre alla Quaresima c’era il divieto di cibarsi di carne tutti i venerdì e tutti i mercoledì della settimana; il pesce era un alimento alternativo eccezionale ma difficile da trovare nell’entroterra. Fu un cardinale svedese a parlare durante il Concilio di Trento del merluzzo essiccato del suo Paese, che chiamavano stokkfisk (o stockfish): cioè, lo stoccafisso cui si aggiunse il baccalà, ovvero il merluzzo conservato per mezzo della salagione. Accanto al merluzzo essiccato o salato, altri pesci, ma in misura molto minore, opportunamente conservati, costituivano un’alimentazione utile a sostentare la gente nei numerosi periodi che la Chiesa definiva “di magro”: tra i più diffusi le aringhe (anche questo pesce nordico), le acciughe salate (nei territori costieri), gli agoni “en saor” (presso i laghi del Nord Italia), le anguille marinate (nell’entroterra). E così si alleviavano in qualche modo l’astinenza e la penitenza imposte dalla Chiesa nei giorni quaresimali e nei venerdì di ogni settimana.

Una volta esaurite tutte le tematiche proposte dal Cristianesimo, ai due Autori non resta che accennare qualcosa intorno alle altre religioni predominanti nel mondo odierno, evidenziando di esse solo quegli aspetti in parte già conosciuti a livello di cultura di massa.

Sull’Induismo si dice quel poco che può destare curiosità nei lettori come il fatto che, essendoci un numero elevato di divinità che richiedono come forma di purificazione il digiuno tutte le settimane, i credenti che volessero seguire tutte le prescrizioni rischierebbero di non poter mangiare mai. L’altro aspetto trattato non permette simili considerazioni ironiche, perché riguarda l’intolleranza religiosa che spinge gli Indù a linciare e trucidare quei musulmani sorpresi a macellare o consumare carne bovina. 

Per quanto riguarda il mondo ebraico gli Autori, dopo averne parlato qua e là a proposito del Cristianesimo, si limitano a poche considerazioni, tra le quali quella relativa alle norme e ai precetti alimentari: nel mondo ebraico, essi scrivono, dal giorno in cui Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito «dietro ogni ricetta c’è un precetto, un obbligo o un divieto». Queste norme hanno avuto il merito di tenere uniti gli Ebrei malgrado la diaspora, ma per la loro origine antica e la loro immutabilità nel tempo fanno sì che quel popolo viva la quotidianità contemporanea come se si trovasse in un tempo remoto modellato su credenze piuttosto superstiziose.

La tavola degli Ebrei

La tavola degli Ebrei

Gli Ebrei, ovunque risiedano, si affidano a queste norme come se fossero dogmi di fede; chi non ha fede, trova invece in esse dei procedimenti culinari che garantiscono una buona sicurezza sanitaria e una buona qualità del cibo, così che la cucina ebraica koscher sta «conquistando il favore di fasce sempre più estese di persone che soffrono di allergie e di intolleranze», ma anche di vegetariani e di salutisti sparsi nel mondo. Il fatturato di imprese alimentari ebraiche cresce annualmente a vista d’occhio perché commerciano prodotti “come dio comanda”. «Al punto che crediamo più nell’autorità religiosa che nell’authority alimentare».

Sciolto dai molti lacci che imbrigliano l’alimentazione degli Ebrei, il mondo islamico si presenta abbastanza simile nel consumo dei cibi a tutte le popolazioni che hanno abitato per lunghi secoli i territori intorno al mar Mediterraneo. Anche l’Islam presuppone periodi di astinenza e di purificazione del corpo e dell’anima: se i Cristiani hanno la Quaresima, i Musulmani hanno il Ramadan, un mese durante il quale il digiuno totale (di cibo e di qualsiasi bevanda) è prescritto di giorno, dall’alba al tramonto del sole; ma poiché durante la notte si può mangiare e bere a volontà, i credenti musulmani trovano sempre il modo per recuperare nelle ore buie parte dell’alimentazione giornaliera.

Il vegetarianismo buddista è molto più di una «coscienza alimentare in nome dei diritti del vivente. E al tempo stesso è una presa di posizione politica». Nelle pratiche di osservanza di queste ideologie, tuttavia, l’aspetto più evidente è che, non essendoci il concetto di peccato, non si tratta di prescrizioni tassative, ma di consigli. Un esempio notevole di come si può vivere la spiritualità insieme con la necessità di alimentarsi, secondo gli Autori, è il Mahatma Gandhi che non propone dottrine religiose; «la sua idea è che ciascuno debba ascoltare la propria voce interiore, che può essere anche interpretata come la voce di Dio, la coscienza, l’anima».

51av2ptc6ss-_ac_uf10001000_ql80_Nel volumetto le argomentazioni degli Autori appaiono come frutto di un accurato, intelligente assemblaggio di lavori sparsi e pubblicati in tempi e per scopi diversi. Probabilmente il volume raccoglie articoli di giornale e di riviste che sono stati in qualche modo resi omogenei in un’opera coesa e coerente. Quest’impressione nasce dal fatto che solo le parti che riguardano l’antichità classica e il Cristianesimo hanno una trattazione ampia e ben documentata (grazie anche a Frazer, a Detienne e alla Patristica), mentre quelle relative alle altre religioni si basano più su notizie di seconda mano che su un’attenta e diretta documentazione e riguardano maggiormente il lato per così dire “pittoresco” di quelle pratiche di culto.

L’impressione diventa sempre più forte quando si fa attenzione allo stile e al linguaggio con cui si svolgono l’illustrazione e lo svolgimento dei temi: abbandonato, per scelta, il linguaggio scientifico, sono usati termini e concetti che appartengono in genere al giornalismo dei magazine, con l’uso di anglismi di moda come choosy, sequel, selfie («farsi un selfie sul Partenone dove c’era l’ulivo di Atena») o di altri vocaboli esotici come mantra («la partecipazione come mantra della cittadinanza»), veggie e veg, al posto di vegano;oppure inaspettatamente appaiono espressioni del parlato basso come si pappano, del calibro di …, ecc.

In sostanza si tratta di un linguaggio leggero, fin troppo cordiale, declinato in giochi di parole (crudo e copto, i cuochi fatui, la tavola di Mosè), citazioni di slogan pubblicitari (gli Indiani preferiscono cuochi della casta dei brahmani, ritenuti “puri”, perché «solo così hanno la certezza che la loro alimentazione sia altissima, purissima levissima»); oppure in citazioni di romanzi famosi («insostenibile leggerezza dell’essere»), oppure di canzonette di successo («dorme sepolto in un campo di grano»).

Sono tutti ammiccamenti continui ai lettori privi di cognizioni antropologiche, formulati con espressioni di cultura di massa che alla fine risultano non perfettamente coerenti alle molte notizie e considerazioni, contenute nel libretto, alcune alquanto importanti e preziose. La divulgazione finisce dunque col prevalere sugli intenti scientifici e fa diventare lievi i contenuti più complessi.

Dialoghi Mediterranei, n.62, luglio 2023
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. E’ stato appena edito dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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