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Quando i giornali scrivevano in italiano

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di Antonio Ortoleva

Tra gli alieni insediati stabilmente nel Mediterraneo c’è il pesce leone, il più pericoloso, il più vorace. Proveniente dal mar Rosso, inattaccabile per via di antenne dorsali velenose al contatto, ha già fatto sparire diverse specie ittiche e vegetali, perché è onnivoro e si ciba anche di coralli, partecipando a squilibrare l’ecosistema marino già compromesso da inquinamenti terrestri e navali, nonché dalle perforazioni alla ricerca rapace di idrocarburi.

Un processo analogo è in corso da tempo nell’ecosistema della lingua italiana attaccata da parole straniere ormai stanziali nel lessico parlato e scritto. La specie aliena che predomina nei mari della nostra lingua è, naturalmente, l’inglese. Se un tempo era di tipo militare e in seguito economica, la supremazia glottologica del Millenium deriva dal sistema digitale che regola le nostre vite, la cui lingua madre è appunto anglosassone. Neppure il Miur, che è poi l’acronimo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, riesce a sottrarsi all’anglo-dipendenza con uno slalom filologico negli atti ufficiali: tutor, full immersion, brainstorming, termini consueti indirizzati al corpo docente e alle scuole. Anche il giornalismo ha già ceduto alla tendenza del momento storico e forse irreversibile, aprendo con disinvoltura le proprie pagine a una moltitudine di termini inglesi, un tempo vietati con estremo rigore. A questo punto può essere utile riferire di una vicenda personale.

Il mio primo apprendistato da giornalista è avvenuto nella redazione sportiva del quotidiano La Sicilia a Catania al tempo di Candido Cannavò. Il futuro e celebre direttore storico della “rosea”, ovvero la Gazzetta dello Sport, soleva passare i pezzi dei collaboratori, redatti su cartelle a righe millimetrate e segnate a sinistra dal numero del rigo, con il giovanotto di vent’anni e poco più in piedi accanto alla sua scrivania, segnando, da buon maestro, passaggi zoppi, ineleganti o non del tutto chiari, ingenuità descrittive, impostazioni errate. Insomma, faceva ciò che un tempo si chiamava scuola. Non dimenticherò mai quel pomeriggio quando si imbatté nella parola “corner”, per gli estranei al calcio è la regola che impone di rimettere la palla con i piedi dall’estremo angolo della linea che delimita il campo nella parte avversaria. Candido dettò una pausa al pennino della sua lucente stilografica che seguiva il rigo del dattiloscritto come un pericoloso periscopio pronto a individuare il nemico, spostò lo sguardo lentamente verso l’alto a destra e quindi verso di me fulminandomi, e disse: “Noi scriviamo in italiano”. Quella frase non ammetteva deroghe. E forgiò il mio stile di giornalista per sempre. Prima la chiarezza, santo cielo.

Eravamo nella metà degli anni Settanta quando i giornali scrivevano solo in italiano e molto bene mentre stavano conoscendo la massima espansione delle tirature. C’erano le grandi firme, il firmamento, è il caso di dirlo, di una storia irripetibile del giornalismo. C’era la Cederna, che con un’inchiesta da manuale fece dimettere un Presidente della Repubblica, c’erano Bocca, Montanelli, la Fallaci, Brera, Terzani. E c’erano gli scrittori e i poeti contesi dalle grandi testate, Moravia, Montale, Pasolini, Buzzati, Sciascia, Consolo.

Strumento d’informazione tradizionalmente d’élite, quando nelle case dell’alta borghesia si parlava solo in lingua straniera, la stampa quotidiana già nel dopoguerra impresse una svolta proletaria con i quotidiani del pomeriggio, oggi del tutto scomparsi, proponendo un’informazione semplice e a titoli bodoni, alla portata della quinta elementare, spesso con due edizioni, la prima in edicola intorno a mezzogiorno, chiamata “Ultima”, la seconda nel primo pomeriggio con ribattute, l’”Ultimissima”. Solo a Milano, capitale della carta stampata, erano quattro, apparvero per primi il Corriere lombardo e Milano Sera che non ebbero lunga vita, ma soprattutto il Corriere d’Informazione – pomeridiano del Corsera – e La Notte, testate dirette da due geni del giornalismo come Gino Palumbo e Nino Nutrizio sino alla comparsa e quindi al boom delle tv private e delle radio libere che sconvolsero l’industria editoriale con notizie rilanciate a tutte le ore.

24eeafe11ea3722d631fdecaee29db01In campo radiofonico, esemplare e sempre a Milano fu l’espansione della migliore di tutte e in tutta Italia, parliamo di Radio Popolare, emittente legata alla nuova sinistra meneghina che allora era culturalmente dominante in città, testata che dava in diretta fatti e notizie anche attraverso, che fu una sua invenzione, gli inviati di quartiere: si andava in diretta, interrompendo le trasmissioni per episodi rilevanti, telefonando a gettone da una cabina telefonica. C’ero anch’io, anche se per poco, tra quei bravi ragazzi.

Nelle redazioni dei pomeridiani era bandita la parola straniera per ovvie ragioni: erano il breviario della classe operaia e dei ceti meno istruiti che per la prima volta si affacciavano in massa nel mondo dell’informazione, passando in edicola alla fine del turno di lavoro. Un colpo mortale fu assestato nel 1981 con la tragica vicenda di Alfredino, il bimbo caduto nel pozzo artesiano nei pressi di Roma, vicenda che tenne incollata l’Italia al cardiopalma per due giorni alla Rai in una diretta tv interminabile che mutò lo stile di fare televisione. Il Corriere d’Informazione incappò in un errore micidiale, frutto del sensazionalismo a discapito della regola régia di non dare mai come avvenute le notizie che non sono ancora del tutto avvenute. Sparò un titolo enorme a tutta prima pagina, “Alfredino è salvo”, andando in macchina nel momento preciso in cui il famoso speleologo aveva afferrato nel sottosuolo la mano del bambino incastrato a 60 metri di profondità. Ma le dite del piccolo scivolarono poco dopo da quelle del suo salvatore e con esse, e con le dirette tv che vennero proposte a ritmi sempre più incalzanti, cominciò a scivolare via la stagione del giornalismo cartaceo post prandiale. Proprio in quell’anno furono censite 600 televisioni private.

thumbnail_locandina-tp-e1575399150720Un caso del tutto originale in Italia, e forse in Europa, è la storia, ormai leggendaria, del giornale L’Ora di Palermo, quotidiano del pomeriggio. Fondato nel 1900 dai Florio, ebbe due stagioni come le due facce della luna. Linea politica confindustriale e per un ventennio fascista integrale, persino negazionista del fenomeno mafioso nel primo mezzo secolo, al contrario dal dopoguerra fu emblema della lotta a Cosa nostra, tanto da subire la morte di tre giornalisti e un attentato alla dinamite in tipografia, polo culturale e artistico non solo siciliano e una delle migliori scuole di giornalismo sotto la direzione di Vittorio Nisticò, nonché grandissimo esempio di fotogiornalismo con un nome per tutti, la magnifica Letizia Battaglia. Di proprietà del Pci con una forte redazione indipendente, fu abbandonata dal partito e chiuse i battenti pochi giorni prima della strage Falcone. L’Ora fu un modello di giornalismo inimitabile: foglio di taglio popolare ma con un impianto intellettuale d’avanguardia, inchieste e denunce coraggiose con la cronaca nera e la cultura a braccetto in prima pagina.

l-occhio-giornale-quotidiano-diretto-da-maurizio-costanzoIn quella temperie culturale a basso prezzo, torniamo per un attimo alla fine degli anni Settanta, partirono nel contempo tentativi, tuttavia ben presto falliti come L’Occhio, diretto da Maurizio Costanzo. Era un progetto di quotidiano popolare, a costo e formato ridotto, il formato tabloid sul modello fortunato degli omologhi inglesi come il Daily Mirror, grandi foto a impatto emotivo, il colore rosso versato sulle pagine senza risparmio, una grafica fuori dai canoni ordinati e geometrici cui i lettori erano abituati. Il giornale per tutti. Il modello era dunque inglese ma la lingua ancora rigorosamente italiana. L’Occhio targato Angelo Rizzoli non incontrò i gusti dei lettori, le vendite precipitarono, Costanzo si dimise e il giornale chiuse in due anni.

mv5bzmiwmdi5ogmtnta4my00mtiyltk3nwqtodm1mtc2nge5mdhhxkeyxkfqcgdeqxvymzizndu1nty-_v1_uy1200_cr10406301200_al_Quarant’anni dopo, in piena era digitale, e in tempi di Covid che ha infettato anche la lingua, il vocabolario del giornalismo è drasticamente mutato e la barriera contro l’abuso dell’inglese, persino nei titoli, eretta dai padri nobili della categoria come Sergio Lepri che fu grande direttore dell’Ansa, sembra crollata. Con lo schiaffo alla giornalista che pronunciò a bordo piscina la parola trend e poi chip, Nanni Moretti una trentina di anni fa, con il film Palombella rossa girato in Sicilia, ci aveva ammonito del pericolo. Sarebbe oggi un tentativo patetico tradurre termini ormai italianizzati come bar, il problema è un altro, il problema è che la titolazione è oggi inzuppata da un’infinità di parole ritenute irrinunciabili dalla linea editoriale vincolata alle leggi del mercato e della pubblicità. Social media, welfare, brand, format, inside trading, fiction e non so quante altre sono parole di uso comune nel linguaggio dell’informazione televisiva e della carta stampata, raggiungono poi il massimo dell’espansione nel campo digitale con l’aggiunta di un paradosso: nel Paese dove è meno diffusa la conoscenza delle lingue straniere si usano più termini inglesi che altrove.

Ecco cosa ne pensa un giornalista importante come Mario Genco, già capocronista a L’Ora e poi caporedattore centrale al Giornale di Sicilia, che offre sempre visioni originali dei fenomeni. «L’abuso c’è. Nel supplemento economico di Repubblica solo termini tecnici e in inglese e non ci capisci nulla se non sei un esperto del settore. Ma in generale, con cautela e parsimonia, non sono del tutto contrario all’uso dell’inglese, la stessa parola computer come la cambi, come la traduci, o la parola sport». La lingua italiana rischia nel tempo di venire soppiantata?  «Non credo, la storia della lingua italiana viene dal provenzale, metà di Dante viene dal provenzale, non credo. Inquinata sì, soppiantata no, a suo modo può rappresentare ricchezza, anche se nelle categorie meno scolarizzate diventa slang, sfoggio di modernità». Come spieghi il predominio della lingua inglese? «Hanno vinto la guerra, ma è più americano che inglese, anche se la lingua scientifica è l’inglese ed era il latino fino al Settecento, il russo invece non si è sviluppato nel mondo se non nell’area dell’Est europeo perché non è mai stato potenza coloniale». E dei titoli di oggi in inglese che ne pensi? «Nel titolo non mi sono mai azzardato, li facevo correggere, ma più che altro si trattava di combattere con un fenomeno diverso e insidioso, con l’italiano sicilianizzato».

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021

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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, nonché del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore.

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