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Il ritmo perduto: la lingua italiana si sgretola?

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Foto di Concetta Garofalo

per l’italiano

di Concetta Garofalo

Grossman nel volume Sparare a una colomba, pubblica il Discorso pronunciato in occasione dell’ Anniversario della liberazione della Olanda, 5 maggio 2015, durante il quale spiega il senso di libertà individuale procurato dalla letteratura inteso come espressione individuale:

«Gli scrittori conoscono questo bisogno di chiamare le cose col loro nome, con appellativi scelti da loro e non imposti dall’esterno. È un bisogno forte quanto un istinto. Più di una volta mi è capitato di pensare che uno scrittore sia qualcuno che prova un senso di claustrofobia nelle parole degli altri. E perciò la letteratura, fra le sue tante virtù, ha anche quella di acuire nel lettore un’innata avversione per i luoghi comuni, per le generalizzazioni, per tutto ciò che cerca di imprigionare l’uomo, la sua ricchezza e le sue contraddizioni, in uno stampo e in definizioni stereotipate, rigide, limitanti» (Grossman, 2021: 54-55).

Poco prima afferma che se mai sarà pronto a scrivere della tragica morte del figlio:

«Non sarò obbligato a essere una vittima passiva. Quando scriverò di quella sciagura, non ne sarò annientato. A quanto pare, anche nelle condizioni più estreme un essere umano serba sempre una piccola libertà: quella di poter descrivere il proprio dramma con parole sue» (ibidem).

A mio avviso è un’intensa testimonianza: narrare è un atto di libertà. La libertà di dare un nome alle cose è la libertà di essere sé stessi secondo le proprie inclinazioni, la libertà di affermare ed esprimere idee, sentimenti e passioni. Le parole liberano le individualità in un’esplosione di vitalità che genera relazioni su cui fondare società sane. Nelle parole si gioca il senso di collettività solo se le parole vengono utilizzate come spiragli di individualità e non come strumenti di omologazione. Ad oggi, il prezzo dell’internazionalizzazione della lingua italiana che stiamo pagando è veramente molto alto, stiamo negando alle generazioni attuali la libertà di dare un nome alle cose, alla realtà che li circonda, la libertà di essere parte di un sistema di valori condiviso del quale la quotidianità dei semplici gesti è espressione.

Il presente contributo intende affrontare la questione dei forestierismi inscrivendo l’oggetto della trattazione nella più ampia dimensione della comunicazione sociale e articolando le modalità di produzione e trasmissione di informazione nelle due forme mutuate da Greimas (Greimas, 1991: 51): forma dialogica e forma discorsiva. Le implicazioni di questo taglio dell’oggetto comportano l’analisi congiunta dei due poli dell’atto comunicativo (destinante e destinatario) e dei canali di comunicazione nella misura in cui determinano i processi di significazione e di partecipazione degli interlocutori di eventi di comunicazione linguistica attualizzata in specifici contesti comunicazionali.

Atteso che attraverso il linguaggio rispecchiamo noi stessi nelle parole che vengono pronunciate, scritte e lette, ne deriva che nell’uso massivo della terminologia estera si esprime un forte bisogno di adesione ad un mondo che non ci appartiene, che aneliamo, che percepiamo lontano e altro da noi. Il dilagare fuori controllo degli anglismi è una forma palese della tensione a partecipare e auto-identificarsi con sistemi culturali linguistici che, negli ultimi decenni, hanno perso ogni ancoraggio con i confini fisici e geografici. Ne analizzerei, in sintesi, tre aspetti fondamentali: la settorialità dei linguaggi, la dimensione generazionale e le relate dinamiche di inclusione sociale.

Si tratta piuttosto di un vero e proprio linguaggio relazionale fortemente ancorato alle interazioni fra pari e di termini incorporati che esprimono stati d’animo condivisi con un accentuato carattere aggregante dal punto di vista dell’inclusione sociale all’interno dei gruppi ristretti di comune interesse. L’uso accentuato e rimarcato di neologismi e prestiti è la via dell’appartenenza e del riconoscimento identitario rispetto ai campi di interesse settoriali e/o generazionali. Come dice Greimas:

«Accertato più o meno sommariamente lo statuto semiotico sociale dell’individuo, è agevole concepire la sua acculturazione ulteriore come l’apprendimento, più o meno riuscito, di un certo numero di “linguaggi” specializzati che lo fanno partecipare non a gruppi sociali propriamente detti, ma a “comunità linguistiche” ristrette, cioè a dei gruppi semiotici caratterizzati dalla competenza, propria a tutti gli individui che ne fanno parte, di emettere e di ricevere un particolare tipo di discorso. […] ogni individuo può partecipare a svariati gruppi semiotici e perciò assumere tanti ruoli sociosemiotici quanti sono i gruppi nei quali si trova inserito» (Greimas, 1991: 47-48).
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I linguaggi specializzati, che Greimas, in tal senso, definisce socioletti secondari, riversano certe porzioni della propria strumentazione lessicale nel più ampio sistema di comunicazione della lingua d’uso comune. In particolar modo, gli anglismi, teoricamente fenomeno circoscritto ai linguaggi settoriali della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica e del giornalismo, hanno per così dire, oltrepassato i confini disciplinari per diffondersi su un piano più vasto di uso comune e quotidiano. Nel primo caso, la periodica ridefinizione del vocabolario di settore deriva dal progredire della ricerca scientifica e degli studi disciplinari; i processi di significazione che la sottendono sono supportati dalle teorie e dai metodi che costituiscono i paradigmi epistemologici disciplinari. Fra i campi del sapere e la lingua comune si istituisce uno scambio, per così dire, a porosità controllata, sistemica e sistematica. Ad altro ordine del discorso sono, invece, da ricondurre i mutamenti linguistici che coinvolgono la lingua di uso comune con una forte connotazione generazionale. Il diffondersi di prestiti e neologismi sembra evolversi in maniera occasionale e orizzontale, nel senso che difficilmente sono sostenuti da processi di significazione ancorati alla capacità creativa e al grado di vitalità, interni al sistema culturale di riferimento più generale della lingua comune nazionale.

La dimensione del fenomeno è direttamente proporzionale ai tempi di esposizione linguistica alla fruizione dei social e dei mezzi di comunicazione di massa. L’esposizione massiva e per lunghi lassi di tempo copre l’intero arco della giornata. Ciò vuol dire che l’ingresso esponenziale dei forestierismi nella lingua italiana d’uso è indicatore della crescente influenza delle nuove tecnologie nell’esperienza concreta del reale. Pertanto, è innegabile che si tratti di un fenomeno di natura comunicazionale che rimanda al livello ben più profondo del rapporto fra significato e significante ed ai differenti piani di connotazione e denotazione.

Sono dell’avviso che la questione sia tutt’altro che trascurabile dal punto di vista della quantità, della portata culturale e sociale del fenomeno dei forestierismi e dissento da chi afferma si tratti di una forma passeggera di uso gergale esclusivamente giovanile.

«Usualmente un solo significante veicola contenuti diversi e interallacciati e che pertanto quello che si chiama ‘messaggio’ è il più delle volte un TESTO il cui contenuto è un DISCORSO a più livelli. […] Un testo sarebbe allora il risultato della coesistenza di vari codici o almeno di vari sottocodici. Metz dà l’esempio dell’espressione |voulez-vous tenir ceci, s’il vous plaît| e nota come in questa frase siano in azione almeno due codici: uno è quello della lingua francese e l’altro il codice della cortesia» (Eco, 1988, 86)
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Mi sembra un esempio calzante: l’atto comunicativo trasmette significati interpretabili su diversi livelli del discorso dialogico. È innegabile che l’ingresso massivo di termini inglesi e di neologismi derivati da prestiti linguistici vede le nuove generazioni più preparate all’uso disinvolto della terminologia che ne trae la comunicazione sociale lasciando qualche passo indietro le generazioni di adulti e anziani. Ancorché, il dilagare di tecnicismi nella comunicazione politica e giornalistica acuisce la frattura fra esperti e cittadini, scavando il solco dell’incomunicabilità e provocando il senso di scollamento fra il mondo della politica e dell’economia e la realtà quotidiana percepita e agita dagli individui.

A questo punto della mia esposizione procedo riportando dei semplici esempi pratici di analisi comunicazionale concretizzando così il campo dell’oggetto.

Sono un adolescente! I codici e i sottocodici che rendono efficace la comunicazione sono, innanzitutto, contestuali e relazionali su più livelli dinamici, orizzontali, coesistenti o no:
Un adolescente (A) che si rivolge ad un pari (B)                            
Un adolescente (A) che si rivolge ad un giovane (C)
Un adolescente (A) che si rivolge ad un anziano (D)
Un adolescente (A) che si rivolge al genitore (E)
Gli interlocutori si trovano:
a scuola
in casa
in un negozio
al tavolo di un bar
al tavolo di un ristorante
Quando:
durante un pranzo fugace
una pausa pomeridiana
nel momento della cena circoscritto al concludersi della giornata

I sistemi di comunicazione sono configurati dalle possibili combinazioni degli interlocutori: BC, BD, BE, CD, CE, … e i codici e i sottocodici attivati aumentano esponenzialmente se le situazioni dialogiche dovessero essere coesistenti (A,B,C; A,B,D; A,B,E; e così via). La proprietà combinatoria delle “occorrenze” situazionali determina comunicazioni complesse che espongono gli interlocutori ad una frequente distorsione interpretativa.

Quanto detto finora assume i caratteri di un fenomeno non solo culturale o prettamente linguistico ma anche di rottura sociale nel dialogo intergenerazionale e acuisce la distanza non solo nelle interlocuzioni fra parentele di secondo grado (i nonni, gli anziani) ma anche di primo grado (nell’interazione genitori/figli). In parole semplici, la genitorialità è investita dalla sempre più evidente difficoltà a interloquire con i propri figli. La rottura avviene sia sul piano dei valori ma anche sul piano lessicale e semantico determinando spazi di incomunicabilità di senso e significato.

«Ogni parola pronunciata possiede la sua parte di rumore e la sua parte di silenzio e, secondo le circostanze, risuona con maggiore o minor forza secondo il dosaggio dell’uno o dell’altro. Il senso può essere soffocato dal rumore e valorizzato dal silenzio, ma può accadere anche il contrario, perché il significato di una parola non è mai dato in senso assoluto bensì, piuttosto, attraverso il modo in cui la parola tocca colui che ascolta» (Le Breton, 2018: 14).
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La politica linguistica di gestione delle dinamiche sociali è tesa fra i due estremi di eccesso: in un senso si tende a negare il fenomeno o a sminuirlo nella sua portata e durata, condannandolo al silenzio; in direzione contraria se ne perde il controllo, più o meno consapevolmente e in maniera più o meno programmata, determinando la proliferazione della parola. Ritengo utile, in tal senso, utilizzare lo scenario esposto da Le Breton. La modernità si mostra nemica del silenzio facendo «proliferare la parola nell’indifferenza dopo averla svuotata di senso». Dal silenzio si può generare nutrimento di senso o, al contrario, la stasi di senso depauperando l’atto comunicativo e relazionale della sua dimensione semantica.

«Se ci si sottrae al silenzio all’interno di un enunciato, oppure si elimina la parola costringendola al silenzio, l’effetto cui si giunge è lo stesso, a scapito del senso, tramite proliferazione di parola, oppure imbavagliando la parola stessa. Non c’è parola senza il silenzio, ma questo l’ideologia moderna della comunicazione proprio non lo sopporta» (Le Breton, 2018: 12).

Tale punto di vista implica il dover riportare al centro del dibattito pedagogico i processi di costruzione delle identità plurime individuali e ridefinire bisogni e valori nei più ampi scenari relazionali contemporanei. La questione dell’internazionalizzazione della lingua va affrontata sul piano della soggettivazione delle modalità comunicative e del potere di rinvio a specchio dell’auto-percezione del Sé oggettivato.

Altro punto focale, a mio avviso, è ridare centralità all’esperienza diretta del mondo sensibile riallineando fra loro gli spazi di fruizione della realtà aumentata, virtuale e dematerializzata. Il fenomeno linguistico afferente alla sfera della comunicazione e del legame sociale assume il carattere di urgenza dal punto di vista epistemologico, dell’apprendimento, della percezione del mondo sensibile, dei processi di significazione e dello scarto fra segno, significante e significato. La lingua italiana sta pagando il prezzo del venir meno di una sorta di bilanciamento fra astratto e concreto, fra generale e particolare, collettivo e individuale, definibile e contrattabile, decodifica e interpretazione.

L’analisi dei prestiti e dei neologismi nella fase dell’uso incipitario ci richiama al dovere disciplinare di coniugare i principi e i criteri di attribuzione del prestigio linguistico e dell’autorevolezza delle fonti, rispetto ai descrittori ben noti in linguistica: sintesi e brevità, moda e conformismo, intraducibilità, necessità ed efficacia, scelta ed alternative, creatività e resistenza.

La preoccupazione espressa dagli specialisti nasce dalla consapevolezza che il dilagare di anglismi e neologismi è, in certo qual modo, sostenuto da un’azione implicitamente impositiva da parte di soggetti dotati di potere orientante attraverso i canali del condizionamento sociale, come ad esempio campagne pubblicitarie, invenzioni commerciali, mode, tendenze, catene e populismi [1].

«L’efficacia simbolica del linguaggio, e il relativo effetto di violenza simbolica, si attua con diversi gradi di velata esplicitazione dei rapporti di distribuzione di forza, sia in contesti relazionali più intimi, come in famiglia e fra amici, sia in contesti di pubblico esercizio del potere. […] Infatti, come accade nel campo politico, gli agenti dominanti, in forza del potere loro attribuito, – e come, ad esempio, accade nel campo delle telecomunicazioni, gli specialisti dell’informazione – assumono il monopolio del capitale linguistico e ne attuano l’efficacia simbolica e la performatività sui sistemi relazionali, anche in nome della collettività stessa di cui essi stessi fanno parte nel duplice ruolo di produttori e destinatari dell’azione sociale» (Garofalo, 2017).

Una riflessione a parte merita la creazione di neologismi di derivazione straniera veicolati in contesti d’uso informali come ad esempio nel caso dell’ampio campo internazionale dei video giochi: startare, laggare, droppare, nerdare, farming, grinding, buggato, combo,… Si tratterebbe probabilmente di un linguaggio ristretto alla comunità dei giocatori ai fini dello svolgimento della partita giocata. Allora mi chiedo: i giocatori, di qualunque età anagrafica, direbbero /startare/ se la finestra di dialogo del software fosse rigorosamente tradotta in italiano nella modalità di visualizzazione predefinita? Fa differenza se nel tasto di avvio della partita c’è scritto “start” oppure “avvio”?

Simile riflessione la volgerei, inoltre, all’esperienza che tutti noi studiosi stiamo vivendo direttamente ed eccezionalmente con ritmi incessanti: mi riferisco alle piattaforme di video conferenza, ormai entrate a far parte della quotidianità del lavoro agile, dei seminari e delle lezioni a distanza, nelle quali è solo facoltativa e rara la traduzione in italiano della visualizzazione dei tasti di gestione dei servizi offerti dall’applicazione: start, live, leave, join a meeting, sign in … Sperimentando personalmente questo aspetto, mi sono resa conto che il servizio di traduzione non mi permetteva un efficace uso dei tasti funzione del dispositivo, banalmente il tasto “start” e il tasto “leave” venivano tradotti con “partire” (accezione non pertinente rispetto al contesto, anzi, in un certo senso, in accezione contraria all’utilità del link attivo, in quanto partire è interpretabile come lasciare la riunione!) e “live” veniva tradotto con “vivere” anziché “dal vivo” o “diretta”.

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Questi semplici esempi tratti dalla vita quotidiana costituiscono pezzi del più complesso mosaico dei contatti linguistici e testimoniano quanto sia determinante il rapporto azione-connotazione-denotazione-comunicazione nell’agire individuale. Il flusso fra pratiche, lingua e linguaggi concorre nei processi di costruzione di strutture simboliche strutturanti la condivisione collettiva dell’agire umano, veicolato e vincolato dai dispositivi elettronici e digitali. Dal comportamento responsivo insito nell’uso di tasti funzione si genera un condizionamento inconsapevole che ha evidenti ricadute sulla strutturazione di veri e propri sistemi di comunicazione inizialmente circoscritti allo specifico contesto azionale (video gioco, videoconferenza, ecc.) ma pur sempre incombenti ai fini dello sconfinamento nel più ampio panorama della lingua comune.

In tal senso altri esempi sono le proposte di attività ginnica dei centri sportivi come palestre e piscine: personal trainer, workout, fitness, crunch, curl-up, plank, push-up, squat, …Mi chiedo: tutti questi termini sono d’avvero intraducibili e necessari per autorità, sintesi e brevità? Decisamente no! Facciamo la prova: allenatore, allenamento, preparazione fisica, …Traducendo in italiano non mi sento certo più o meno in peso-forma e il mio fisico non credo ne abbia risentito in termini di impegno e partecipazione alle attività ginniche offerte dalla palestra sotto casa!

Ascoltiamo cosa accade nel linguaggio della progettazione di strategie e metodologie didattiche tratte dai paradigmi disciplinari e pedagogici, in questi giorni, così esposto alla ribalta dei mezzi di comunicazione di massa e all’attenzione dell’opinione pubblica: learning by doing, cooperative learning, tutoring, peer education, peer teaching, flipped classroom, problem finding, problem solving, focus group, expertise, assessment, skimming, scanning, task reading, drills, prompts, appraisal, setting di modeling, shaping, chaining, scaffolding, … Proviamo a tradurre in italiano: imparare facendo, apprendimento cooperativo, insegnamento tra pari, classe capovolta, individuazione e soluzione di situazioni problema, valutazione, lettura veloce, …

Traducendole in italiano, non credo proprio di aver sminuito le metodologie didattiche in termini di autorità ed autorevolezza! Certo, se traduco in italiano i termini tecnici, non me ne vorranno Dewey, Bruner, Vigotskij, Ausubel, Bloom, Gardner, Erikson, Rogers, Maslow, Allport, Goleman, Skinner, Guilford, Gardner e i numerosi studiosi riconosciuti dalla comunità scientifico-disciplinare internazionale quali pietre miliari della didattica applicata contemporanea!

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Potremmo continuare ad oltranza l’elenco di esempi simili: si pensi alle notizie dei telegiornali su politica interna ed estera, ai dispositivi di legge in materia di interventi di assistenza sociale e manovre economiche, alla contrattazione decentrata dei diversi settori occupazionali, alla terminologia di divulgazione medico-scientifica e a quella relativa alla telefonia mobile e all’informatica, la digitalizzazione dei servizi, … e ad ambiti emergenti, in palese contraddizione con se stessi, come purtroppo anche l’editoria, l’informazione culturale, le applicazioni di video scrittura e di narrazione creativa, la divulgazione di testi narrativi e di letteratura contemporanea (one shot, urban fantasy, cliffhanger, fanfiction, villain, spin-off, storytelling, ship, spoiler, sequel, prequel, crossover),  figure emergenti come blogger, vlogger, influencer, streamer, youtuber, rider delivery, smart worker, event planner, video maker, …

Da quanto esposto fino adesso, emerge che l’uso dilagante di forestierismi non va considerato solo nei suoi aspetti di natura più prettamente linguistica e pragmatica della lingua. Se, come attinto da Greimas, analizziamo i contesti specifici, dobbiamo anche considerare i socioletti, prima definiti, come dei microsistemi che fanno parte del macro sistema della lingua comune ma che lo intersecano solo parzialmente. I socioletti, dotati di strumentazioni morfologiche, sintattiche e lessicali circostanziati, costituiscono dei microcosmi culturali a sé stanti in continuo divenire ai quali sottendono sistemi di significazioni in base a sistemi di valori assunti e condivisi dalla comunità linguistica in seno alla quale si generano. Questa prospettiva comporta che agire nella difesa di un patrimonio linguistico nazionale, il quale non disattenda alla funzione di riferimento identitario come base comune del vivere sociale e civile, richiede interventi di natura culturale e di analisi dei sistemi di valori che nuove configurazioni di informazione e comunicazione sociale determinano e nutrono dal punto di vista lessicale e linguistico.

Di recente, ho riletto Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, ne riporto di seguito il passo che, negli anni, ha emozionato la maggior parte dei suoi lettori e che, dal punto di vista della sociolinguistica, apre ad opportune riflessioni:

«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!”» (Ginzburg, 2012).
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Stiamo assistendo ad un repentino allontanamento radiale dei soggetti sociali dal comune senso di partecipazione e inclusione, dovuto ad un consapevole processo di disconoscimento identitario delle istituzioni e all’intenzionale propensione all’auto-determinazione nei confronti dei sistemi sociali precostituiti, a discapito del senso di appartenenza collettiva all’unità nazionale. Penso ad una sorta di débrayage del soggetto culturale che fuoriesce dall’enunciato e lo lascia privo del senso originario.

La presenza insistente di forestierismi nella lingua italiana d’uso determina, di fatto, lo sgretolamento del sistema sintattico e il conseguente smantellamento dell’impianto logico delle parti, pensate-enunciate. Viene meno la tenuta del pensiero critico e creativo, implode la coerenza dell’agire sociale!

Si inceppa il ritmo della parola, disatteso il ritmo del senso!

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1]Del concetto di “violenza simbolica”, nella sua accezione più specifica teorizzata da Bourdieu, ho già trattato in precedenti contributi ai quali rimando per un utile approfondimento in merito:
«Anche le dinamiche di attribuzione del potere politico ed economico possono essere spiegate attraverso l’efficacia del sistema simbolico di riconoscimento. Gli agenti dominanti impongono la propria gestione dell’agire sociale sulla collettività solo e soltanto in virtù di un sistema condiviso di rappresentazioni, di attese e di princìpi di distribuzione e scambio dei capitali e dei rapporti di forza. In poche parole, semplificando un po’, si potrebbe affermare: se imponi il tuo potere, ci riesci soltanto se la collettività ti riconosce l’attribuzione di tale potere. Ma, è importante sottolineare che a tale manifestazione di agentività da parte dei dominanti trova riscontro un’adesione dossica della collettività. In quanto il sistema simbolico si fonda su un sistema di credenze incorporato nel corso del tempo mediante dinamiche inconsce di imposizione velata e indolore che Bourdieu chiama “violenza simbolica”. Più la condivisione è percepita come “naturale” e legittima, maggiore sarà “l’efficacia simbolica” dell’azione sociale. Spiegare il come e il perché dell’agire umano in termini di efficacia simbolica implica, inoltre, prendere in esame il potere performativo del dire l’azione. Bourdieu non concorda con Austin: ogni atto linguistico non produce effetti sulla realtà sociale grazie ad una “forza illocutoria”. Gli enunciati sono atti di potere all’interno di un sistema di relazioni e di rapporti di forza fra le posizioni occupate dagli agenti sociali. Gli atti linguistici sono pratiche linguistiche e, in quanto tali, ad esse si può applicare il concetto di habitus, inteso come struttura strutturante le pratiche degli agenti stessi. In questa prospettiva, le parole acquistano performatività sotto forma di potere simbolico, accreditato da un sistema oggettivato di credenze che attribuisce efficacia linguistica al locutore finché l’interlocutore, individuale o collettivo, ne riconosce la legittimità» (Garofalo, 2017)
Riferimenti bibliografici
Eco U., Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1988
Garofalo C., “L’agire sociale verso il riconoscimento delle identità individuali”, in Dialoghi Mediterranei, n. 23, gennaio 2017
Ginzburg N., Lessico famigliare, Einaudi, Torino, 2012
Greimas A. J., Semiotica e scienze sociali, Centro Scientifico, Torino, 1991, (ed. or. 1976)
Grossman D., Sparare a una colomba, Mondadori, Milano, 2021
Le Breton D., Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2018

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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency, i processi e le modalità di interazione fra soggetti, individuali e collettivi, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento e formazione. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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