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Negoziare la modernità

Negoziare la modernità fotodi Alessio Angelo

A metà strada tra Marrakech e Ouarzazate si trova un piccolo villaggio, situato a circa milleottocento metri di altitudine nella catena montuosa dell’Alto Atlas. Questo villaggio, abitato da circa cinquecento persone, ha mantenuto per secoli una economia locale basata sull’autosufficienza e l’autosostentamento. Le principali attività che ne hanno garantito la sopravvivenza sono sempre state l’allevamento del bestiame (bovini e ovini), l’agricoltura (soprattutto mele e noci, ma anche pesche, orzo, mais, piselli, patate e carote) e in minima parte il commercio. Molti abitanti del villaggio hanno usato arrotondare i loro guadagni vendendo il raccolto superfluo in apposite baracche, costruite ai margini della grande strada che collega la città di Marrakech a quella di Ouarzazate. Allo stesso tempo la comunità ha sviluppato un sistema educativo e un’organizzazione sanitaria locale in grado di rispondere ai propri bisogni. Con l’avvento di alcune campagne per la prevenzione di malattie epidemiologiche come il Tracoma, che fino a un decennio fa interessava un milione e cinquecentomila persone solo in Marocco, il sistema biomedico ufficiale e quello sanitario locale sono entrati in contatto. Le conseguenze furono la progressiva sparizione di quest’ultimo, vista l’efficienza dimostrata dal sistema biomedico, soprattutto in alcuni settori. Attraverso questo contatto il sistema locale venne del tutto sostituito dalle pratiche della biomedicina ufficiale, utilizzate già in larga parte nei centri urbani marocchini. Cominciarono a porsi problemi relativi alla costruzione di piccole cliniche o all’approvvigionamento dei mezzi di trasporti, adatti a trasferire velocemente gli infermi negli ospedali limitrofi. A interessarsi a queste problematiche furono alcune organizzazioni non governative internazionali che, pian piano, s’inserirono nel territorio con progetti di sviluppo e cooperazione. Tutto questo portò lentamente a una trasformazione delle abitudini e in parte delle attività su cui si reggeva il sistema economico locale.

Un progetto in corso, sostenuto sia da parte della popolazione del villaggio sia dalle Ong operanti sul territorio, riguarda la valorizzazione di uno dei prodotti coltivati (le mele) che sta trasformando lentamente l’economia locale in una monocoltura da inglobare nel mercato nazionale. Il progetto, già attivo da alcuni anni, prevede l’intensificazione della coltivazione degli alberi del melo per garantire una produzione sempre più ampia di superfluo commerciabile, da cui ricavare profitto. Il piano prevede, inoltre, la costruzione di celle frigorifere per la conservazione del prodotto da rivendere fuori stagione, a prezzo maggiorato, in modo da assicurare al piccolo paese un’entrata economica più o meno costante durante l’anno. Bisogna chiedersi a cosa porterà questo tipo di specializzazione e la coltivazione pressoché esclusiva di una sola specie vegetale. Per intensificare la produzione di mele, infatti, i contadini hanno cominciato a togliere terra e tempo agli altri prodotti, che garantivano l’armonia dell’economia locale. Si è iniziato, in questo modo, a prestare sempre meno interesse alla produzione di foraggi per gli animali, dedicando quelle terre al melo, così che lentamente tutte le terre coltivate a foraggio sono scomparse. Trasformandosi in un prodotto non più locale, gli allevatori di bestiame sono ora costretti ad acquistarlo nei piccoli villaggi confinanti e sempre più frequentemente nei centri urbani, che fungono da centri di smistamento del materiale.

Se prima il prodotto veniva barattato, ovvero l’allevatore di bestiame stipulava un accordo con l’agricoltore che gli procurava il foraggio, in cambio di una scorta di prodotti provenienti dall’allevamento (carne, latte, formaggio), adesso è costretto a volgersi verso l’esterno per vendere i propri animali, in modo da poter ottenere denaro da investire nell’acquisto del foraggio nelle città, dove i prezzi e le condizioni sono gestiti dai grossisti. A causa di questa trasformazione del lavoro, sempre meno persone si dedicano a questo mestiere; gli animali allevati sono diminuiti e non corrispondono più al fabbisogno della popolazione che, a sua volta, è costretta a esporsi ai costi di trasporto per comprare i prodotti che vengono a mancare (carne, latte, formaggi). Nel giro di pochi anni l’economia locale che aveva garantito al villaggio la sua secolare sopravvivenza si è radicalmente trasformata: è stata sostituita dal sistema capitalistico che ha prodotto da un lato la valorizzazione di una determinata merce e il conseguente arricchimento di una parte della popolazione (i coltivatori di mele), dall’altro fenomeni di crescente migrazione. Gli abitanti del villaggio, a cui è stata intaccata la propria economia e messa in crisi la propria sopravvivenza, versando in una situazione di povertà, hanno iniziato a spostarsi verso i centri urbani nella speranza di trovare lavoro e ricominciare la propria vita.

La narrazione che vi ho presentato riguarda una piccola realtà marocchina di montagna sinora sopravvissuta alle logiche del mercato internazionale e oggi investita da quel processo che Serge Latouche identifica con il “principio di occidentalizzazione del mondo”. Siamo di fronte a una realtà periferica, che negli ultimi vent’anni ha subito l’influenza esterna.

Ho presentato questo caso per ipotizzare quali possano essere i rischi della trasformazione di un’economia locale. Se dovessimo realizzare un’analisi storica per rintracciare il radicamento del sistema capitalistico in Marocco, vedremmo che già con il protettorato francese e quindi nei primi decenni del ventesimo secolo, cominciarono a prodursi fenomeni di trasformazione del tessuto socio-economico e politico del territorio, attraverso il mito dello sviluppo e del progresso tecnologico esportato dall’Occidente. Gli studi post-coloniali hanno chiarito come questo mito sia stato propinato maggiormente subito dopo le dichiarazioni d’indipendenza, approfittando della situazione di crisi in cui versavano tutti quei Paesi terzomondisti ovvero non allineati all’economia e alla politica capitalista o a quella socialista. Lo scopo era quello di creare una dipendenza economica che permetteva a sua volta un controllo politico dei suddetti Paesi, creando forme di dominazioni neocoloniali (Arce, Long 2005; Latouche 1989, 2003, 2005).

Quello che mi interessa mettere in evidenza, in questo luogo e attraverso questo esempio, è la differenza tra la produzione di una modernità locale e la modernizzazione. Il primo termine deriva dal latino modernus che a sua volta proviene dall’avverbio modo con il significato di appena o recentemente, ed è uno di quei termini che riemerge periodicamente nella Storia. Secondo Arce. e Long la modernità preclude «un senso di appartenenza al presente e la consapevolezza di un passato al quale le persone possano fare riferimento e dal quale possano, nel contempo, distanziarsi». La produzione locale della modernità, che può essere intesa come l’insieme degli immaginari, dei comportamenti e delle forze presenti nell’attuale locale, è messa in crisi nel momento in cui viene interessata dall’applicazione di una modernizzazione. Al contrario della modernità, infatti, la modernizzazione è un progetto, un piano sistematico basato sul senso di superiorità di quelle Nazioni, che nella produzione del loro immaginario identificarono/identificano la loro modernità con la civilizzazione. Lo scopo del progetto di modernizzazione è stato ed è, a giudicare dalla vicenda narrata, quello di trasformare i mondi locali, i confini culturali e persino le conoscenze. La giustificazione di tale applicazione è avvenuta attraverso la considerazione della propria produzione di modernità come superiore e necessaria. In che modo questo avvenne all’alba delle dichiarazioni d’indipendenza nei vari Paesi, anche se i processi di modernizzazione hanno spesso delle origini più antiche, è abbastanza noto. Il mito dello sviluppo e del progresso fu sostanzialmente lo strumento per applicare un neocolonialismo economico e culturale, per creare una dipendenza da cui trarre evidenti vantaggi materiali, meno visibili poteri politici e simbolici. Ritrovare le stesse dinamiche ancora oggi è perlomeno curioso, perché ci mostra come tale progetto sia, in altre forme, in altri modi, ancora in atto. Considerare tali processi in relazione alle intenzionalità del principio di occidentalizzazione del mondo è probabilmente paradigma teorico complesso. Il flusso globale e la dinamicità delle culture impongono una continua riflessione per chiunque voglia indagare sui processi di costruzione delle realtà, ed è imprescindibile il dialogo con il passato. Attraverso i racconti e le testimonianze di alcuni degli abitanti di questo villaggio e dei volontari attivi nei progetti di cooperazione, ho avuto accesso alla conoscenza di una piccola scheggia dell’insieme di questa società complessa (Hannerz, 1992) e ho voluto usare questo esempio solo per suggerire una riflessione e per mostrare come certe dinamiche, magari inaspettatamente e inconsapevolmente, si sottraggono al controllo e innescano dei meccanismi di trasformazione irreversibili. Allo stesso tempo è giusto ricordare quanto siano attive e produttrici di benessere le associazioni nate all’interno del piccolo villaggio, fondate e gestite dai residenti, e quanto le organizzazioni di volontariato e di turismo responsabile siano state in grado in questi anni di migliorare la vita degli abitanti.

Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013
Riferimenti bibliografici

Arce Alberto e Long Norman, Riconfigurare modernità e sviluppo da una prospettiva antropologica, in Malighetti Roberto (a cura di), Oltre lo Sviluppo, Le prospettive dell’antropologia, Roma, Meltemi 2005.

Hannerz Ulf, Cultural Complexity: studies in the Social Organization of Meaning,New York, Columbia University Press 1992.

Latouche Serge, Décoloniser l’imaginaire. La Pensée créative contre l’économie de l’absurde, Paris, Parangon 2003.

Latouche Serge, L’occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformisation planétaire, Paris, La Decouverte 1989.

Latouche Serge, La decrescita come condizione di una società conviviale, in Malighetti Roberto (a cura di), Oltre lo Sviluppo, Le prospettive dell’antropologia, Roma, Meltemi 2005.

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