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L’Italia s’è desta. Sull’immigrazione e dintorni

coverdi Aldo Aledda

Alcuni mesi fa, una domenica mattina alle nove salivo sulla metropolitana da un quartiere periferico di Roma per recarmi alla stazione Termini dove avrei preso un treno che mi avrebbe portato sulla costa, direzione Nettuno, presso dei cugini. La cosa che mi sorprese è che a quell’ora, in cui tutti i romani che si erano goduti il sabato sera restavano probabilmente ancora a letto, io ero l’unico “bianco” in quei vagoni dalla stazione Furio Camillo a quella di Campo di Carne sulla costa. Intorno avevo facce bruciate di africani, brune di mediorientali e pelle chiara di qualcuno dell’Est Europa, ma non vedevo né gli spacciatori o gli stupratori che segnalano prevalere nel Paese la destra e nemmeno passeggeri ancora bagnati dalla traversata del Mediterraneo che raccomanda di accogliere la sinistra. Tutti erano seri, composti, vestiti sobriamente ma dignitosamente e portavano chi la borsa chi lo zaino come chi si reca a fare diligentemente il proprio lavoro nel luogo servito dalla stazione di destinazione. Non gridavano, non ridevano, non si facevano notare, anzi apparivano seri e pensierosi – e pensieri di sicuro ne avevano più di quelli italiani che sostavano ancora a letto o di me che mi apprestavo a trascorrere un’amena giornata in campagna e al mare.

Mi sembrava di essere il cives di quella Roma del III e IV secolo che descrive lo storico Peter Brown, uno di quel centinaio di migliaia di cittadini intorno ai quali si muoveva una frotta immensa di stranieri, oltre cinquecentomila, che cercava ospitalità e opportunità nella Caput Mundi. Ma che anche tanto facevano irritare i cittadini legali perché cercavano di approfittare del Welfare loro riservato dallo Stato romano, costituito allora dalle distribuzioni del frumentum nel portico Minuccio, il celebre panem, che quello dava generosamente accanto al altrettanto famoso circenses di cui lamentava Giovenale essere l’unica preoccupazione del popolino.

Gli stranieri in Italia sono calcolati un po’ meno del dieci per cento, ma il numero è sicuramente superiore per la presenza di quelli che le burocrazie ministeriali definiscono “clandestini”, ma che in realtà con una buona approssimazione possono essere quantificati percentualmente come quelli che stanno negli Usa. Ma non fanno rumore perché non giungono dopo avventurose attraversate del Mediterraneo, e soprattutto perché reggono settori vitali del Paese come l’agricoltura, l’edilizia e la cura degli anziani.

Chi fronteggia questa massa di persone che cresce sempre di più nelle nostre periferie è un Paese vecchio, che sa di esserlo perché i numeri dell’età (per fortuna) che avanza e della denatalità balzano agli occhi, ma che pensa egualmente di farcela ebbro della retorica alla moda della grande ripresa dopo la pandemia, paragonata a quella che si ebbe nel Dopoguerra col Piano Marshall, salvo dimenticare che chi affrontava la Ricostruzione era un Paese che tanti di quei giovani si ritrovava da poterne mandare più della metà negli altri Paesi europei – Francia, Germania, Belgio, Olanda, ecc. – le cui industrie e città distrutte dalla guerra occorreva rimettere in piedi.

Oggigiorno il nostro funambolico ministro della pubblica amministrazione gongola saltellando sopra i sanpietrini romani mentre annuncia che la P.A. avrà 26 mila assunzioni di giovani (a tempo determinato) per mandare avanti il Recovery Plan. Una goccia in un oceano fatto di quasi tre milioni e mezzo di impiegati pubblici con l’età media di cinquanta anni. Però si promette che altrettanto verrà fatto anche negli altri settori in cui verranno riservate quote di assunzioni per giovani e donne per mandare avanti i relativi progetti. Sarà! Vedremo! Quello che ora si vede è solo una difesa a oltranza (comprensibilissima, peraltro) di un’aristocrazia operaia legata ai sindacati e, più in generale, una tendenza a tutelare e preoccuparsi di un mondo composto in prevalenza di cinquantenni e sessantenni accontentando i giovani con blande promesse di movide senza limiti di orario o piccole mance per tenerli in qualche modo occupati.

giovani-imprenditori-italiani-372091La risposta dei giovani, vedono tutti, è la fuga dall’Italia, su cui versano lacrime tutte le istituzioni, ultima la Corte dei Conti. A qualcuno incomincia ad apparire chiaro che l’invecchiamento della popolazione, oltre che compromettere le pensioni dei più anziani, condiziona anche lo sviluppo economico. Egualmente che la fuga dei giovani non può essere fermata se non da un Paese in grado di offrire qualcosa di meglio di un piccolo stipendio vicino a casa non troppo lontano dalla mamma. E, infine, che la denatalità è quella che dal di dentro erode la società, costituendo un problema demografico e sociale rispetto ai quali assegni familiari, migliori condizioni lavorative per madri e padri costituiscono solo palliativi che accontentano qualche partitino di centro e la Conferenza episcopale perché il problema non si risolve solo facendo in modo che la famiglia riesca a crescere l’unico figlio con minori problemi oppure ad aggiungerne al massimo un altro. Si tratta di svolte evolutive inevitabili per una società che è andata troppo avanti nel popolare il pianeta e che, nei prossimi decenni, come ci mostrano le proiezioni demografiche, farà più decisi i passi indietro che già incomincia a fare.

A fronte di tutto ciò il tema delle migrazioni internazionali va visto come una risposta a questi problemi in un quadro di redistribuzione della popolazione giovanile mondiale. Un passo in questa direzione è fatto dalla tendenza in atto dei giovani dei Paesi avanzati di non fermarsi in quello di origine ma di muoversi su un universo più vasto per fare esperienze e trovare sbocchi occupazionali. In Italia vi è una sorda condanna a questo tradizionale modo di intendere la propria condizione da parte delle giovani generazioni anche se ci si rende conto che poco e nulla c’è da fare per fermarne la tendenza. Anche perché nel valutarlo c’è molta infingardaggine. Intanto, rispetto alla convinzione che si accaparra i giovani solo chi è più attrattivo, e l’Italia, che tale non sarebbe, in realtà lo è ancora in tanti campi sia pure diversi dalla ricerca scientifica in cui presentiamo le migliori eccellenze al mondo, pensiamo all’arte (restauro e beni culturali), alla musica (La Scala, Santa Cecilia), l’alimentazione, la moda, i servizi turistici, ecc. che attira una marea di giovani da tutte le parti del mondo, tanti dei quali poi si fermano.

L’altra questione è la presunta perdita di risorse investite per la formazione e giovani persi per il proprio territorio di cui ci si straccia continuamente le vesti (sorprende che a qualche buontempone politico non sia ancora venuto in mente di chiederne la restituzione ai giovani italiani all’estero, magari a quelli iscritti all’Aire). Orbene, anche su questo punto si può fare qualche considerazione sulla presunta perdita del territorio. Prendiamo, per esempio, il Mezzogiorno, area del Paese in cui questo fenomeno parrebbe più accentuato. L’esodo dal Sud dell’Italia storicamente si è fermato negli anni Settanta quando sono cessate le grandi migrazioni ed è ripreso agli inizi del 2000 con la cosiddetta fuga dei cervelli e non solo. Ciò significa che vi è stato un arco temporale nel Meridione e nelle isole in cui la popolazione giovanile non è emigrata in modo significativo dal Sud come in precedenza, ma è vi è rimasta.

Ebbene, proprio in questo lasso di tempo si constata un maggiore allargamento del divario economico e sociale tra il Nord del Paese e il suo Sud. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che i giovani sessantottini e la Baby boom Generation che è rimasta in patria ci hanno messo poco a sostituire nel loro ruolo i baroni universitari che tanto avevano criticato, come pure i politici e i funzionari corrotti e collusi con la malavita, al pari dei primari ospedalieri nominati dalla politica e dalla massoneria che affossavano il sistema sanitario. Di recente il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri in un’intervista televisiva a una domanda che, a fronte di quella vicenda che allibì il Paese circa la nomina di un commissario per la sanità nella regione in cui tutti si erano tirati indietro, richiesto se avesse un nome da suggerire, rispose che un nome non lo aveva, ma una tipologia sì: un calabrese, che però non vivesse in Calabria, ma possibilmente all’estero e da un certo tempo, che fosse andato avanti nella vita esaminato non da selezionatori calabresi, ma altoatesini (era una provocazione per dire più distanti possibile dalla sua regione), in buona sostanza che tutti quelli aspetti che condizionavano negativamente quel territorio non li avesse mai conosciuti. Ecco perché i giovani non vanno fermati o scoraggiati dal fare esperienze all’estero, ma nemmeno presi in giro per farli rientrare come ha provato a fare con scarso successo lo Stato italiano negli ultimi dieci anni allettando i cosiddetti cervelli con l’espediente di alcune agevolazioni fiscali, ottenendo una risposta nettamente inferiore alle aspettative.

Credo che a questo punto occorra affrontare questi problemi ponendoli accanto, in termini di possibili soluzioni, a quelli cosiddetti delle migrazioni e non come si preferisce fare oggi in Italia tenendoli staccati pensando di dare a ciascuno una propria soluzione. Incominciamo da quante persone in giovane età occorrono oggi in Italia e dove le andiamo a cercare. Questi sono i discorsi che occorrerebbe fare tenendo lo sguardo rivolto al futuro e non all’immediato consenso elettorale. D’altronde come dimostra la vicenda di quei partiti che negli ultimi anni quasi per caso in Italia hanno raggiunto il 40% del consenso e lo hanno dimezzato dopo poco ci dimostra che alla lunga le promesse fallaci (molte riguardavano appunto gli immigrati) non pagano neanche elettoralmente.

La Germania da alcuni anni ha stabilito che per mantenere il proprio sistema economico e sociale serve un’iniezione dai cinque ai sette milioni di persone in un’età in cui uno ragionevolmente può iniziare un lavoro. Da lì l’appello che rivolse la Cancelliera Merkel ai profughi siriani di indirizzare i loro flussi verso il suo Paese e il significato del messaggio, visto direttamente dall’autore, nella parete esterna di una carrozza di un treno metropolitano del Baden Württemberg (quelle che da noi presentano varie colorazioni spray) in cui si annunciava che la società ferroviaria stava procedendo ad assunzioni e di farsi sentire al numero telefonico colà riportato accanto al quale stava l’immagine slanciata e sorridente di un giovane di colore.

L’Italia ha sicuramente bisogno di un numero analogo di persone in quella fascia di età per reggere i vari comparti economici, in particolare l’agricoltura e il turismo, ma anche il welfare e l’accompagnamento e la cura delle persone anziane. Si tratta solo di vedere dove si possono reperire le persone giuste. Posto che le politiche di incoraggiamento della natalità possono dare i propri frutti solo tra qualche decennio e che il problema l’Italia invece ce lo ha oggi, è inevitabile porselo al momento giusto e non differirlo. In questo senso è necessario stabilire in primo luogo da dove si desidera che giungano gli apporti umani e, in secondo, come farli entrare nel Paese, non diversamente da come facevano all’epoca delle grandi emigrazioni italiane i consolati stranieri che preparavano l’emigrazione “assistita” nel nostro territorio, stipulando contratti e pagando i biglietti di viaggio (e tante volte ospitando nelle locande dei porti chi doveva attendere qualche giorno l’imbarco).

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Grafico distribuzione per età e stato civile in Italia, Fonte Istat, 2020

Di sicuro sappiamo che cosa non dobbiamo fare. A livello istituzionale sarebbe meglio inventare un’agile agenzia specializzata in grado di gestire più efficacemente il problema, buttando a mare quel vecchio arnese che è il Ministero dell’Interno (anzi la soluzione sarebbe abolire una volta per tutto questo reperto archeologico del vecchio Stato nazione, utile un tempo ad affermarne i tratti autoritari e che oggi è diventato solo uno dei tanti attrezzi di imbarbarimento burocratico al pari di altri, come la Pubblica Istruzione, e di insicurezza pubblica, visto anche che le poche forze dell’ordine che non sono impiegate negli uffici delle prefetture e nelle questure a mettere timbri su permessi, licenze e passaporti in genere arrivano solo a contare i morti sulle strade o le vittime delle rapine). Stabilito chi può entrare, l’organismo preposto attua un processo selettivo.

Posto che a tutti deve essere chiaro che si entra in Italia a seguito di un processo selettivo (lo ha proclamato per gli Usa la liberal vicepresidente Harris in Guatemala), una volta fatta la selezione sul posto le persone individuate vanno imbarcate sugli aerei o sulle navi con viaggi organizzati. Ciò significa che in qualche modo vanno scoraggiati gli ingressi al di fuori di questo meccanismo. Poi ci intratterremo meglio su questo problema perché è un po’ più complesso di quanto lo stia rappresentando.

Continuando nella logica dell’ingresso autorizzato, va detto che le persone vanno preparate all’inserimento e all’integrazione, con appositi processi formativi che è meglio iniziare nella terra di partenza, ma comunque vanno potenziati e ultimati in quella di arrivo. Oggi attende chi sbarca irregolarmente in Italia una lunga procedura di riconoscimento di una forma di protezione che, in molti casi, dura diversi anni, in centri cosiddetti di accoglienza nei cui confronti i Piombi della Repubblica veneta sembrerebbero oggi un Hotel Danieli. Certamente del tempo va impiegato, ma per la loro formazione e l’adattamento culturale e linguistico, non per vagliare ipotetici documenti che nella mente di chi passa il tempo seduto dietro una scrivania uno avrebbe dovuto avere la cura di salvaguardare in un viaggio avventuroso in cui ha appena conservato la vita oppure per stabilire se va inquadrato o meno nell’altra ridicola distinzione tra “migrante economico” e “rifugiato politico”, che chiunque abbia trattato un po’ questi problemi sa che nelle cose non esiste (chi ha perso tutto sotto i bombardamenti siriani viene qui anche per ricostruirsi un’attività economica, come egualmente sarebbe bello sapere quali sono quei regimi democratici in Africa e in Medio Oriente, non meno che nell’America Centrale, dai quali ingiustamente secondo le burocrazie ministeriali e le relative autorità consolari in Italia si allontanerebbe il cosiddetto migrante economico).

Va da sé che, in questa logica, tutto ciò che oggi è previsto in materia di visti di ingresso, quote e limiti vari alla circolazione va integralmente rivisto, in primo luogo abrogando la legge sull’immigrazione che è un vero monumento all’idiozia burocratica, cucinata in quegli ambienti i cui strumenti e manuali, come ho detto, oggi sarebbero meglio ospitati in musei della tortura, tipo quello di Toledo o di Rothenburg.

In coda si trascinano almeno due problemi. Il primo riguarda chi emigra liberamente, al di fuori di eventuali quote e pianificazioni, chi arriva dopo un viaggio avventuroso in mare o attraverso sentieri impervi e innevati delle montagne o con qualunque altro mezzo di fortuna. Si tratta di problemi che non possono essere affrontati secondo i criteri sopra descritti, che sono quelli della politica migratoria, giacché entrano nelle logiche tradizionali e secolari degli spostamenti di popoli. Non tutto può essere previsto e meno che mai gestito alla luce della razionalità economica e sociale del momento. Le persone forzano i confini perché si ritengono ingiustamente rifiutate oppure perché vanno a raggiungere familiari e parenti che si occuperanno di loro (le catene migratorie), ma anche perché sono curiosi, vogliono provare, si vogliono mettere in gioco e in qualche modo si sentono cittadini del mondo.

Qui si parla di un’umanità varia e di personalità spesso creative e adattive, che vanno trattate con umanità e con strappo alle regole. Anche perché non sempre si sa quale sarà il loro apporto al Paese. Negli Usa esistono milioni di undocumented, quelli di cui va a caccia la polizia dell’immigrazione e che Trump voleva sbattere fuori. La gran parte è protetta e tollerata dalle autorità locali (le grandi città all’epoca del precedente presidente si dichiararono autentici “santuari” in cui la polizia dell’immigrazione non poteva entrare a cercare irregolari) e dalla popolazione perché svolgono nella società una serie di mansioni per le quali non si trova più nessuno disponibile, per cui se non commettono un crimine nessuno li verrà mai a cercare e quando faranno un figlio per lo ius soli sarà americano a beneficio di tutto il resto della famiglia. Calcoli fatti qualche tempo fa, per esempio, in California, dove il fenomeno è più accentuato, ventilavano la caduta di qualche punto del Pil se si fossero mandati via tutti i “clandestini”. La morale della favola è che il fenomeno migratorio va affrontato sì con una certa logica, ma anche con molta flessibilità.

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Da L’Inchiesta – http://www.linkiesta.it/

Il secondo problema è quello degli italiani che stanno fuori l’Italia. Quando si sfiora questo tema subito il pensiero di tutti i papà e le mamme e i circoli politici interessati a ottenerne il voto, corre ai figli che stanno all’estero dove hanno appena trovato un lavoro. Ed è qui che si inizia a sbagliare. Intanto la proiezione naturale all’estero per svolgere un’attività non è tipica solo del “bamboccioni” italiani ma di tanti giovani inglesi, americani, tedeschi e francesi, per citarne alcuni che sono ancora più mobili dei nostri. Dopo di ché l’esperienza all’estero, di studio e di lavoro, non solo va permessa, ma anche incoraggiata e sostenuta. Il punto qual è? È che si può pensare a fare discorsi di rientro, intanto, quando questa esperienza ha esaurito il suo ciclo, e non prima quando è all’inizio, che non serve a nessuno: la leva va fatta quando nell’italiano che sta un certo periodo lontano dalla patria insorge una naturale nostalgia, sempre che insorga, che gli fa desiderare la patria. E ciò naturalmente diviene più facile quanto più lui non ha messo le radici, con affetti e interessi, nel Paese straniero. E sempre che quello di origine sia divenuto, almeno nel suo campo, attraente almeno come è quello in cui si trova, sennò avremo solo cantanti lirici, scultori, restauratori, chef, calciatori, direttori di musei, maître d’hotel e designer. Che va pure bene, ma forse non basta.

L’altro discorso verte sui discendenti degli italiani che un tempo emigrarono all’estero, ossia le seconde e terze generazioni. Su questa frangia vanno fatti alcuni distinguo. Intanto va detto che la molla della curiosità per la patria di origine dei genitori, anche se coltivata (che non sempre è accaduto) non ha un sufficiente tiraggio se non si lega alla prospettiva di un miglioramento della propria condizione data da quelle opportunità che abbiamo appena citato. In secondo luogo, non va dimenticato che la gran parte dell’emigrazione italiana si trova nei paesi Ocse, con possibilità lavorative quindi decisamente superiori alle nostre che difficilmente possono invogliare chi sta fuori a tornare nella terra dei genitori. Per farla breve la parte più realizzabile di questo discorso riguarda i Paesi che al momento si trovano in condizioni di inferiorità economica rispetto all’Italia e dove è numerosa la presenza di italiani, ossia quelli dell’America Latina che, per questo aspetto e l’analogia di tratti culturali, hanno tutto l’interesse a stabilirsi nel nostro Paese e, più genericamente, in Europa (molti, poi, volendo potrebbero accedere più facilmente anche in quel Nord America dove, oggi, per loro dal Sud sarebbe più difficile entrare).

Il vero problema è che questa platea di persone è stata sempre messa da quelle istituzioni nazionali sulle quali puntiamo il dito sul livello di altre frange di migranti, quando invece si dovrebbero fare altri discorsi. Pensiamo al caso del Venezuela in cui nei confronti del gran numero di cittadini italiani e di discendenti l’atteggiamento delle istituzioni del nostro Paese è stato sempre ispirato all’insensibilità e totalmente privo di lungimiranza. Perché? Perché, in tutti i casi, a prescindere da quello che si pensi dell’Italia e della sua cultura, è bene che chi desidera viverci sia quanto più omogeneo a essa (casi di terrorismo jihadista o visioni della famiglia e della società opposti ai nostri, è la cronaca anche recente, hanno creato e creano tensioni nella nostra società), e chi proviene da quelle parti del mondo tale dovrebbe essere. Infatti, parliamo di Paesi dove sistemi di istruzione sono più simili ai nostri e linguisticamente, essendo la gran parte di estrazione spagnola o portoghese, è molto più adattabile al nostro idioma. Ciò accelera l’integrazione o, se si preferisce, la sintesi culturale.

Che problemi di diversità di sistemi non siano di poco conto è dimostrato dal fatto che, nella citata rapida accettazione dell’emigrazione siriana in Germania, alcune difficoltà sono sorte, per esempio, nell’utilizzo dei medici che non conoscendo il tedesco e neanche avendo un buon inglese divenivano in pratica scarsamente utilizzabili. Così pure una non minore difficoltà ha costituito in quel Paese gestire concretamente laureati mediorientali che, provenendo da università dei Paesi islamici, dove non è coltivata a sufficienza la dialettica perché improntati al dogmatismo religioso, non presentavano la stessa apertura mentale dei colleghi europei, con tutte le conseguenze anche nella vita quotidiana e di relazione.

Che fare, dunque? Poiché sul piano, potremmo dire, scientifico, nonostante la complessità del fenomeno, si hanno le idee abbastanza chiare, è su quello politico che va trovata la soluzione. Occorrerebbe qui creare un tavolo sufficientemente largo all’attenzione del quale limitarsi a porre le implicazioni demografiche del fenomeno riguardo al nostro Paese, lasciando da parte quelle ideologiche. E ciò potrebbe avvenire mettendo insieme una destra che vorrebbe fare entrare solo chi possiede le qualità mancanti al Paese, come fa la gran parte dei Paesi occidentali (al massimo qualche quota di rifugiati) accanto a una sinistra che (in apparenza) ammetterebbe tutti passando per un centro che, a parte la salvaguardia dei valori umanitari, propone in prevalenza soluzioni interne a temi come il ripopolamento e la denatalità. Contestualmente si potrebbe richiedere a tutti un accordo su soluzioni concrete prescindendo oltre che da pregiudizi ideologici, anche dagli interessi elettorali.

A quel punto ci sarebbe da sperare che tutte le forze politiche messe davanti a quadrature del cerchio di problemi che nello stesso tempo sono epocali e contingenti possano comportarsi come hanno fatto nel governo delle larghe intese rispetto al problema della pandemia, dove si sono trovate le sintesi necessarie pur senza che nessuno rinunciasse alla propaganda elettorale spicciola, che in tutti i casi è sembrata ben misera agli occhi del Paese davanti alla gravità del problema. Ma a qualcosa il metodo è servito. Estenderlo anche a questo campo forse servirebbe.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021

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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016).

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