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America Latina, un continente d’italiani

 

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Porto di Genova, imbarco per le Americhe Latine, primi 900

di Sharon Arce Martinez e Franco Pittau

Risiedono in America Latina, alla fine del secondo decennio degli anni Duemila, oltre 1,5 milioni di italiani, circa un terzo dei 5,5 milioni iscritti all’Anagrafe di italiani residenti all’estero (AIRE). Nella graduatoria delle prime 25 collettività italiane all’estero figurano otto Paesi latinoamericani: Argentina, Brasile, Venezuela, Uruguay, Cile, Perù, Ecuador, Colombia e Messico. Altre collettività di un certo peso si trovano in Paraguay, Cuba, Repubblica Dominicana, Costarica, Guatemala, Panama, Bolivia, mentre in Honduras e Nicaragua risiedono meno di mille italiani residenti. Pertanto, è fondato affermare che l’America Latina è un continente d’italiani.

La presenza italiana è stata determinante nella formazione dell’Argentina e del Brasile come Paesi moderni, ma anche negli altri l’influenza degli italiani si è fatta sentire in misura notevole. L’apporto diretto dei pionieri dell’emigrazione è stato rafforzato dal contributo dato dai loro discendenti, diventati cittadini del posto. Gli oriundi sono stimati pari a 25/30 milioni in Brasile, tra i 15 e 20 milioni in Argentina, 2 milioni in Colombia, a 1,5 milione in Uruguay, 1 milione in Venezuela, e più di 100 mila in Paraguay e Messico. Sommando i risultati di queste stime agli italiani iscritti all’AIRE si arriva a superare la popolazione residente in Italia

I primi flussi furono quelli degli esuli risorgimentali seguiti, dall’Unità d’Italia in poi, da quelli che si spostavano per lavoro, a ciò spinti da una situazione di miseria. La “Grande emigrazione” avvenne dal 1876 in poi, fu intensa per tutta la durata del secolo, addirittura aumentò nel secolo successivo fino alla vigilia della Prima guerra mondiale. L’emigrazione si ridusse d’intensità dopo il primo conflitto mondiale e durante il periodo del regime fascista e gli emigrati furono in prevalenza di origine meridionale.

Finito il Secondo conflitto mondiale, i flussi ripresero solo per pochi anni verso l’America latina e si indirizzarono con una particolare intensità verso il Venezuela a seguito del suo boom petrolifero. Quindi, le mete di quel continente furono soppiantate da quelle europee e, per giunta, lo sviluppo interno dell’Italia ridusse fortemente la tendenza all’esodo. A emigrare nei Paesi latinoamericani sono ormai pochi italiani: per motivi familiari, commerciali o d’impresa, come rappresentanti di Ong, o per altri motivi professionali, mentre sono più consistenti gli spostamenti temporanei per turismo. Sono diventati invece più numerosi i latinoamericani emigrati in Italia a partire dagli anni ‘70, e cioè da quando l’Italia ha iniziato a diventare un Paese di immigrazione a causa dei disagi economici, sociali e anche dell’instabilità politica.

Questo nostro saggio si propone di offrire un quadro d’insieme dell’inserimento degli italiani in ciascun Paese, soffermandosi sulle origini degli arrivi, sull’evoluzione storica intervenuta, sull’impatto esercitato dalla collettività a livello locale e sulla situazione attuale. Le notizie sono attinte a pubblicazioni curate da specialisti dell’emigrazione e, per qualche particolare aspetto, ad altri studi. L’auspicio è che la storia del’emigrazione italiana in America Latina sia considerata una fonte di preziosi insegnamenti [1].

22498200905L’emigrazione italiana in Colombia [2]

Al tempo della scoperta del Nuovo Mondo grandi navigatori italiani presero contatto con la Colombia, come Amerigo Vespucci nel 1499, e pochi anni dopo Cristoforo Colombo (cui si ispira il nome dedicato al Paese). Anche Giovanni da Verrazzano compì tre viaggi tra il 1524 e il 1527 per conto del re francese Francesco I. Senza tener conto dei religiosi che si recarono per motivi pastorali già con i “conquistadores” spagnoli e continuarono a farlo anche dopo, la presenza degli italiani fu ridotta e dettata da motivi commerciali e sostanzialmente riferibili ai genovesi.

La Colombia, sotto la guida di Simon Bolivar, pervenne all’indipendenza nel 1819, al termine di una guerra di nove anni condotta contro gli spagnoli da colombiani, ecuadoriani e venezuelani: i loro Paesi si staccarono dalla Grande Colonia, rispettivamente, nel 1820 e nel 1830, mentre Panama ottenne l’indipendenza nel 1903.

Le migrazioni degli italiani iniziarono nella metà dell’Ottocento, con una intensificazione nell’ultimo quarto del XIX secolo e, tuttavia, la Colombia non esercitò una forza attrattiva paragonabile a quella di altri Paesi latinoamericani. Diversi furono i fattori che influirono al riguardo: la posizione geografica e la difficoltà di collegamento del Paese, il clima equatoriale, la malaria, e anche la situazione politica. Capitava spesso che nei porti di Barranquilla e Santa Marta si arrivasse per sbaglio rispetto alla destinazione prefissata (statunitense o argentina).

In Colombia l’arrivo degli italiani non ebbe mai un carattere di massa e. per giunta, conobbe verso la fine del secolo XIX un freno derivante dalla crisi dei rapporti diplomatici tra i due Paesi. Non va dimenticato che nella prima metà del XIX secolo continuava a essere praticata la tratta degli schiavi, il cui sfruttamento veniva ritenuto più conveniente rispetto al ricorso all’apporto degli emigrati europei. La costruzione della ferrovia di Panama (1848-1855), territorio che come prima ricordato ancora faceva parte nella grande Colombia, si avvalse anche dell’apporto dei lavoratori italiani, ivi attratti dalle più vantaggiose condizioni riguardanti il viaggio e la retribuzione per compensarli dalle durissime fatiche da sopportare.

Nella seconda metà del XIX secolo furono costruiti palazzi, piazze, teatri (il Municipale a Bogotà e il Teatro Manero a Cartagena) e opere infrastrutturali, monumenti e statue erano opera di autori italiani. L’ultimo quarto del XIX secolo, che registrò in Italia un boom di espatri, riguardò del tutto marginalmente la destinazione colombiana, già poco richiesta in precedenza e in quel periodo non ben disposta nei confronti degli italiani per i motivi che di seguito saranno esaminati. Solo alla fine del XIX secolo ripresero gli arrivi degli italiani, meno numerosi comunque di altri europei (tedeschi, inglesi, francesi). Sussisteva l’interesse a sfruttare le miniere (anche d’oro), indispensabili agli ingegneri e ai lavoratori qualificati dall’Europa.

All’inizio del Novecento gli abitanti della colonia erano 8 milioni e di essi gli stranieri erano 56 mila, di cui il 10% erano italiani. Il numero degli italiani era più basso, sia perché erano pochi i nuovi arrivi e ancor di più per la tendenza di quelli già residenti ad assumere la cittadinanza colombiana. Comunque, la ridotta dimensione quantitativa della presenza italiana non pregiudicò la sua capacità di incidere sulla società locale.

L’origine di questi emigrati fu, inizialmente, settentrionale: erano piemontesi, liguri, lombardi e veneti. Seguirono i meridionali, specialmente i calabresi (ad esempio da Vallo di Daino e Padula), campani e lucani. Per quanto riguarda l’Italia centrale va ricordato che, originarie di un piccolo entro (Vizzano) della provincia di Lucca, operavano diverse compagnie itineranti dei celebri “figurinai” per vendere le statuine di gesso da loro create. Gli italiani si stabilirono in prevalenza nelle città della costa caraibica (Barranquilla, Ciénaga, Santa Marta e anche a Cartagena). Il loro lavoro si svolgeva nell’ambito dell’artigianato, del commercio e delle piccole industrie, favorendo così la formazione di una nuova borghesia.

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Gruppi familiari di italiani in Colombia

Trasse un forte impulso dalla presenza immigrata la multietnica città di Barranquilla, la perla dei Caraibi, il porto più importante per il commercio del caffè e delle merci destinate al continente europeo. L’inserimento degli italiani in agricoltura non fu accentuato come in altri Paesi latinoamericani ma non fu del tutto assente: ad esempio, nel distretto di Barranquilla gli italiani si dedicarono anche alla coltivazione e al commercio delle banane. Questo distretto, dove gli italiani erano circa 500, aiuta a capire che anche una collettività ristretta poteva avere grande importanza: a Barranquilla nel 1929 la fabbrica di scarpe, di cui era titolare l’immigrato calabrese Biagio Barletta, con 140 dipendenti era la maggiore industria. Negli anni ‘2000 la collettività risulta aumentata e supera di poco le 20 mila unità. Presso l’Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero (AIRE) sono registrati poco più di 5 mila italiani.

I flussi a Panama, allora ancora territorio della Colombia [3]

Negli ultimi due decenni del XIX secolo furono invece elevati i flussi verso l’istmo di Panama. A Panama nel 1882 fu inaugurata la ferrovia Panama-Colon e si iniziarono i lavori per la costruzione del canale. Della fiumana di gente pervenuta da 40 nazioni, furono inizialmente arruolati gli europei e gli italiani costituirono il gruppo più numeroso (4,4%) dopo quello spagnolo, mentre quelli delle Antille erano un quarto del totale. Nel 1904, quando la gestione dei lavori passò agli americani, il numero degli italiani si stabilì intorno alle 4 mila unità. Le condizioni durissime di lavoro, senza alcuna protezione, portarono alla morte, alle malattie (la febbre gialla, che aveva una diffusione endemica), agli infortuni. Dei sopravvissuti, poche centinaia di italiani rimasero sul posto, mentre la maggior parte si distribuì nei Paesi centroamericani a fronte dei pochi che rimpatriarono.

caso-cerrutiIl caso Cerruti e la cristi italo-colombiana della fine del secolo XIX [4]

Il torinese Ernesto Cerruti (1844-1915) fu un ufficiale nell’esercito piemontese, combattente nelle guerre d’indipendenza e anche un garibaldino. Nel 1869 si recò in Colombia e inizialmente lavorò a Panama (territorio che ancora faceva parte della Colombia) per conto di una ditta italiana. Si trasferì l’anno successivo a Buenaventura come aggregato consolare italiano (incarico mantenuto fino al 1882) e, quindi, la sua ditta divenne quella più importante per le importazioni nello Stato del Cauca. Si sposò con una signora dell’alta borghesia locale, che gli favorì rapporti strettissimi con le più alte autorità dello Stato del Cauca, corroborati da sue donazioni. Tale strategia gli permise di consolidare sia il suo ruolo consolare che quello imprenditoriale. Alla conduzione della sua impresa parteciparono anche autorità politiche e militari, con una inaccettabile commistione di ruoli (quanto meno secondo la sensibilità odierna).

Tale impostazione resse fin quando rimase al potere la fazione cui si appoggiava Cerruti, quella più massonica e anticlericale: questa copertura gli consentì di uscire indenne dalla prima tornata di accuse di aver falsificato dei documenti, nell’esercizio della sua funzione di console (1872) e di aver lucrato indebitamente nell’importazione di una grande partita di armi dagli Stati Uniti (1873). Il caso fu definitivamente archiviato ed egli potenziò la sua azienda, inserendovi soci scelti tra i politici e i militari. Non andò allo stesso modo poi, quando Cerruti ampliò la ditta occupandosi non solo delle chine ma anche del sale (suscitando anche il malcontento popolare). Egli prese parte attiva nella lotta politica e, essendo massone, si schierò contro l’area più vicina alla Chiesa, alla quale era inviso per essersi sposato solo con rito civile. Le autorità, non più a lui favorevoli, nel 1885 confiscarono i suoi beni e lo misero in prigione a Buenaventura, dove venne liberato grazie ad un inaudito intervento della Marina militare italiana, stazionante nel golfo, che fece sbarcare una squadra e lo liberò. Iniziò così una lunga crisi diplomatica tra Italia e Colombia.

Ritornato in Europa, Cerruti intentò causa. Un arbitrato della Spagna non fu accettato dalla Colombia. Poi intervenne il Dipartimento di Stato americano, il cui arbitrato del 1897 impose alla Colombia il pagamento di una notevole somma a titolo di risarcimento, cosa che la Colombia, tra l’altro in difficoltà finanziarie, non fece. Nel 1898 cinque incrociatori stazionarono tra Cartagena e Buenaventura e presero possesso delle dogane colombiane. L’anno successivo la Colombia si vide costretta a procedere al pagamento e tra la popolazione si era diffuso il malcontento nei confronti della piccola ma operosa collettività italiana. Questi travagliati eventi dell’ultimo quarto di secolo, chiusi al termine di un processo durato 15 anni, non solo resero poco praticabile la destinazione colombiana ai tempi della grande emigrazione, ma resero temporaneamente più chiuso l’atteggiamento della popolazione locale nei confronti degli italiani: per quanto riguarda la vertenza, alla spregiudicatezza del Cerruti fece da pendant la parzialità delle autorità, che proprio per questo trovarono il conforto nei due arbitrati internazionali.

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San Pietro Claver

Dagli attuali missionari a Pietro Claver, l’apostolo degli schiavi

Un flusso migratorio, mai mancato in Colombia dal periodo dei “Conquistadores” fino ai nostri giorni, è quello dei missionari italiani, che hanno svolto, insieme a quella pastorale, una funzione socio-culturale. Va precisato che l’indipendenza della Colombia (1819) segnò per la Chiesa cattolica l’inizio di un periodo di duri rapporti, che trovarono una composizione con il Concordato che lo Stato colombiano sottoscrisse con la Santa Sede nel 1878. Specialmente dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) e la Conferenza dei vescovi latino-americani tenutasi a Medellin nel 1968 alla presenza di Papa Paolo VI e imperniata sulla scelta preferenziale per i poveri, si è incrementata la presenza missionaria nel sostenere il protagonismo delle classi popolari più emarginate. Continuano a essere operanti nel Paese diversi istituti missionari e anche numerose Ong. Uno tra gli apprezzabili impegni dei missionari, in un contesto plurietnico, consiste nel favorire l’emancipazione e la partecipazione degli afrodiscendenti, sui quali continua a pesare il passato di una dura schiavitù.

L’attuale impegno dei missionari si ricongiunge all’opera svolta dal gesuita spagnolo, dichiarato santo, Pietro Claver (1581-1654), il quale alzò la voce contro il commercio degli schiavi, dichiarato santo patrono delle missioni cattoliche tra i popoli dell’Africa nera e afroamericani. Egli andava ad accogliere, con un la sua barca, gli schiavi quando arrivavano le navi, li visitava nelle prigioni dove stavano in attesa di destinazione, li difendeva dai soprusi e parlava loro del vangelo di Cristo. Fu disprezzato e umiliato, tenuto lontano dalle signore dell’alta società assolutamente non intenzionate a entrare in una chiesa dove lui stava con i suoi negri, accusato – sul piano teologico – di svilire i sacramenti cristiani, amministrandoli a persone che a stento avevano un’anima. Tutto ciò non gli impedì di continuare la sua opera. Per comunicare con i nuovi arrivati formò un gruppo che, ricorrendo a una denominazione attuale, si direbbe di “mediatori linguistici”. Si è ipotizzato che in quasi mezzo secolo d’impegno sul posto, questo missionario avesse fatto la catechesi e contribuito alla conversione di circa 300 mila africani. Con la creazione dello Stato di Cartagena, la città dove operò questo straordinario missionario, venne presentata per la prima volta l’abolizione della schiavitù, poi sancita per l’intera Colombia con la previsione di un rimborso statale ai loro proprietari [5].

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I fratelli Di Domenico

Alcuni esempi del positivo inserimento degli italiani in Colombia

Agostino Codazzi (1793-1859) arrivò nel Paese nel 1849, fu un geografo molto diligente nel disegnare le carte topografiche. Fu anche l’ideatore di un progetto, che però non riuscì a realizzare, di una colonia agricola sul modello della “Colonia Tovar” in Venezuela, una iniziativa affidata nel 1843 a coloni tedeschi e alla quale lui si interessò.

Oreste Sindici (1828-1904), nativo di Ceccano in provincia di Frosinone, nel 1852 partì per una tournee in America Latina con una compagnia d’opera (allora molto ricercate), e fece tappa finale a Bogotà. Qui egli rimase fino alla morte, chiedendo anche la cittadinanza colombiana e compose l’inno nazionale colombiano.

Pietro Cantini (1847-1929) fu l’architetto che nel 1885 costruì il teatro dedicato a Cristobal Colon, dichiarato monumento nazionale nel 1975. Il teatro di stile neoclassico, con i dipinti di Filippo Mastellari, fu inaugurato il 12 ottobre 1892 in occasione del quarto centenario della scoperta dell’America.

Francesco Di Domenico (1880-1966) e Vincenzo Di Domenico (1882-1955), salernitani, sono considerati “i fratelli Lumière della Colombia”. Essi, dopo aver acquistato a Milano l’attrezzatura necessaria, nel 1910 introdussero in Colombia il cinescopio per la proiezione dei film e si dedicarono essi stessi alla produzione di cortometraggi su eventi sociali e religiosi, riscuotendo un grande successo. Francesco, che da giovane aveva viaggiato in molti Paesi, diventò un ospite abituale del palazzo del Presidente della Repubblica; così scriveva alla moglie: «La vita in America è buonissima, lontana dall’invidia e dalla critica, come tra veri gentiluomini»[6].

Ferruccio Guicciardi (1895-1947) [7], modenese, già segnalatosi nell’aviazione militare italiana durante la Prima guerra mondiale, cessato il conflitto si trasferì in America e fu uno dei primi piloti che attraversò le Ande, uno dei pionieri dell’aviazione commerciale colombiana.

L’Istituto Leonardo da Vinci, noto anche come Collegio italiano, è un significativo esempio della rinomanza raggiunta dalla collettività italiana. Fondato a Bogotà nel 1958, e aperto naturalmente non solo agli italiani, conta annualmente 1500 iscritti, si ripartisce in 70 sezioni (con tre opzioni liceali) e si avvale di qualche centinaio di docenti, oltre ai numerosi collaboratori.

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Gruppo di giovani italiani volontari in Ecuador

La presenza italiana in Ecuador [8]

L’Ecuador divenne indipendente nel 1830, separandosi dalla grande Colombia, a sua volta distaccatasi dagli spagnoli nel 1819. Già al tempo dei conquistatori spagnoli furono diversi gli italiani che si recarono individualmente in quel territorio.

Il milanese Girolamo Benzoni (1519-1570), arrivato qui nel 1547 dopo aver ampiamente girato per il centro e il sud America, stabilitosi a Quito nel 1534, divenne amico dei francescani, impegnati nel difficile lavoro di evangelizzazione; fu attivo, per un certo periodo, come commerciante d’argento, dopo di che rimpatriò. Le sue memorie furono pubblicate postume a Venezia, nel 1655: La storia del mondo nuovo di Girolamo Benzoni milanese. L’artista, allievo di Michelangelo, poi diventato gesuita, arrivò in Ecuador nei primi anni ‘70 del XVI secolo ed esercitò un grande influsso sulla pittura del continente. Un altro pittore molto importante, che operò a Quito, fu il domenicano Anelino Medoro (1567-1611). L’influsso italiano si rese visibile, in quel periodo e successivamente, anche sul piano architettonico. La storia missionaria nella giungla dell’Ecuador nei secoli XVI e XVII, fu incentrata sul ruolo dei missionari, francescani, domenicani e gesuiti. Come si vedrà, l’impegno tra gli indigeni continuò anche dopo, fino ai nostri giorni.

I flussi degli italiani verso l’Ecuador fino alla Seconda guerra mondiale possono essere ripartiti in questi periodi: a) dall’Unità d’Italia alla fine secolo XIX; b) Il primo quindicennio del secolo XX; c) il periodo tra le due guerre. Dopo l’Unità d’Italia iniziò il periodo della “Grande emigrazione”, ma i contatti con l’Ecuador si stabilirono anche prima attraverso gli scambi commerciali, che ebbero come perno l’importante centro di Guayaquil. I primi ad arrivare furono i liguri, che si trovarono a loro agio sia in questa città commerciale, sia per il clima che per l’ambiente sociale. Nel corso del secolo si inserirono gli italiani nelle industrie navali oppure lavorarono come agricoltori e piccoli artigiani: nacquero così, ad esempio, i primi laboratori di orologeria e gioielleria, per i quali solitamente si importavano dall’Italia i macchinari necessari per le lavorazioni.

Dopo il 1860 la comunità italiana conobbe un graduale aumento e nel 1885 arrivò a contare 500 membri. Pochi anni prima, nel 1882, fu costituita la Società di assistenza italiana Garibaldi, a lui intestata perché il Generale si era recato in quella città nel 1851.

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Università Politecnico Salesiani (UPS) di Quito

I religiosi italiani di diverse congregazioni, oltre a esercitare il loro lavoro pastorale, diedero importanti contributi culturali in vari settori. Nel 1856 un membro della Compagnia di Gesù, accogliendo l’invito rivoltogli dalle autorità, elaborò la riforma del sistema scolastico e universitario. Un altro gesuita nel 1881, ultimò la prima dettagliata descrizione della provincia di Quito. Il gesuita Luis Sodiro (1836-1909), fu nominato dal Presidente della Repubblica “botanico nazionale”, tenuto conto del grande prestigio che godeva a livello internazionale tra i più eminenti studiosi del settore. Il salesiano Carlos Crespi (1891-1982), molto apprezzato per le sue annotazioni sulle popolazioni indigene e per i suoi innovativi sistemi di colonizzazione agricola, precursore della cinematografia fu proclamato “cittadino più illustre di Cuenca nel XX secolo”. Un alto salesiano, Juan Bottasso (1936-2019), che operò sul posto per quasi 60 anni, conciliando la figura del teologo con quella dell’antropologo, fu promotore del rinnovamento missionario tra gli indigeni dell’Amazzonia (distinguendosi per il rispetto della loro cultura e la sintonia con le loro rivendicazioni. Promosse la fondazione dell’Università Politecnici Salesiana (UPS) di Quito e della casa editrice Mundo Shuar, poi diventata Abya-Yala Cultural Center (che, oltre all’editoria, gestisce un museo).

Bisogna ricordare che, a cavallo dei due secoli, fu nominato Presidente della Repubblica per due mandati (1895-1901 e 1906-1911) il generale Eloy Alfaro, fautore di un rinnovamento liberale a carattere laicista e fortemente sostenuto dalla comunità italiana di Guayaquil: egli promosse diverse riforme e fece completare i lavori della ferrovia transandina tra Quayalquil e Quito e, tra l’altro, autorizzò gli stranieri a svolgere incarichi politici. Dopo fu esiliato e, ritornato in patria, fu massacrato insieme al fratello, da una folla di conservatori, ma oggi è ricordato come una delle più eminenti figure della storia ecuadoriana.

All’inizio del secolo XX arrivarono in Ecuador italiani professionalmente più qualificati, accrescendo il prestigio della collettività italiana in una fase in cui il Paese acquisì una maggiore importanza a seguito dell’apertura del canale di Panama, entrato in funzione nel 1914. Inoltre, continuarono ad arrivare famosi architetti e scultori italiani, tra i quali Augusto Faggioni, Enrico Pacciani Fornari e Francesco Maccaferri Colli.

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Gruppo di missionari

Dall’inizio degli anni ‘20 la vita degli italiani in Ecuador fu analizzata, nei suoi vari aspetti, in una pubblicazione del 2009 dall’Ambasciata italiana a Quito. Durante il periodo fascista furono intensi i rapporti bilaterali. Gli italiani, prima del secondo conflitto mondiale, si distinsero sul piano scientifico, culturale e industriale.

L’alessandrino Angelo Negri Fracchia, arrivato per una tourné nel 1932, si trattenne in Ecuador e diventò direttore del Conservatorio di musica di Guayaquil, dove morì nel 1947, all’età di 69 anni, mentre dirigeva un’opera. Le sue qualità sono ricordate da un busto che gli fu dedicato.

Fin dalla sua fondazione nel 1921, continuando la sua attività fino al 1938, operò in Ecuador la Compagnia Italiana dell’Equatore e gli italiani residenti furono dinamici protagonisti anche nel sistema bancario, ad esempio tramite le loro azioni del Banco Andino. Essi furono i pionieri dell’industria farmaceutica con diversi personaggi di spicco.

Rennella nel 1913 pilotò il primo aereo locale e e avviò la Scuola aeronautica militare (che ancora porta il suo nome). Dopo avere partecipato in Italia nel Secondo conflitto mondiale, ritornò in Ecuador con il suo aereo di guerra, avuto in dono per i servizi resi alla patria e ritenuti meritevoli di riconoscimenti con la consegna e l’assegnazione di una medaglia d’oro.

Anche Elia Liut (1894-1952) prestò servizio come pilota militare durante la Prima guerra mondiale. Preceduto dalla fama della sua bravura, egli giunse in Ecuador nel 1920, invitato dal console ecuadoriano in Italia. Nello stesso anno egli compì, superando le notevoli difficoltà, il primo volo transandino, da Guayaquil a Cuenca e fu considerato un eroe nazionale. Liut si dedicò alla formazione dei piloti ecuadoriani come istruttore presso la Scuola militare di aeronautica. Uno degli aerei utilizzati per la formazione dei piloti, comprati in Italia, gli fu dato in dono dalla collettività italiana.         

Dopo la Seconda guerra mondiale l’emigrazione transatlantica dall’Italia durò per un breve periodo e, comunque, la rotta ecuadoriana fu residuale. Mentre inizialmente protagoniste dei flussi furono le regioni settentrionali, nel dopoguerra prevalsero quelle meridionali. Continuò, però, il servizio dei sacerdoti italiani. Ad esempio, il religioso Giuseppino Marcos Benetazzo fu definito “l’apostolo e il padre degli orfani”. José Carollo, attivo nei quartieri poveri di Quito, costruì numerosi centri per la salute, chiese e altre opere. Al clero italiano si affiancò il prezioso ruolo svolto dalle Ong italiane con i loro progetti di utilità sociale.

Nei due decenni degli anni ‘2000, sono stati registrati presso l’AIRE, quasi 4.500 italiani che hanno spostato la loro residenza in Ecuador. In media, negli ultimi anni gli italiani a emigrare in Ecuador sono stati circa 200 l’anno, con rari sensibili scostamenti verso l’alto (come nel 2017 quando si registrò un raddoppio). Da ultimo la collettività ha raggiunto le 20 mila unità, in prevalenza meridionali, e, naturalmente, a quelli che hanno conservato la cittadinanza si aggiungono gli oriundi. Una piccola collettività ma non trascurabile per l’impegno dimostrato nell’inserimento sociale ed economico e, attraverso la presenza dei religiosi, per la dedizione alla promozione socioculturale della popolazione locale e degli indigeni.

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Emigrati italiani ai festeggiamenti in occasione della Festa della Repubblica venezuelana presso l’Ambasciata italiana di Caracas, 1959

La presenza italiana in Venezuela [9]

Nella storia dell’emigrazione italiana in Venezuela si possono distinguere quattro fasi. Gli arrivi nel Paese, fino a tutti gli anni ‘20 del secolo XIX, furono pochi e la presenza italiana arrivò a contare circa 3 mila unità. La seconda fase della emigrazione italiana si collocò nel periodo del grande sviluppo dell’industria petrolifera fino all’inizio del secondo conflitto mondiale, quando il Venezuela divenne il primo Paese esportatore di greggio. Anche in quel periodo prevalsero le rotte degli emigrati verso tradizionali mete transoceaniche e nelle colonie italiane in Africa: gli italiani in Venezuela erano 3.137 nel 1941. La terza fase iniziò dopo la Seconda guerra mondiale. Tra gli 1950 e il 1960, periodo in cui fece presa il “sogno venezuelano”, gli arrivi degli italiani superarono le 100 mila unità. Gli italiani non rimasero delusi perché essi, grazie alla loro intraprendenza, insieme agli spagnoli e ai portoghesi contribuirono al notevole sviluppo del Paese, inserendosi in tutti i settori. Fu quello il periodo della “dittatura illuminata” di Marcos Perez Jimenez (1953-1958), che riuscì a promuovere un forte sviluppo con il piano di potenziamento delle infrastrutture in tutto il Paese.

Gli italiani, tra i quali i tecnici erano pochi e molti i lavoratori agricoli, seppero cogliere le opportunità di questa fase espansiva e si diffusero su tutto il territorio, a differenza di altre collettività europee che privilegiarono la capitale. Furono pochi gli italiani assunti nei settori pubblici come medici, veterinari, architetti e in altri comparti. Furono molti quelli che crearono le proprie imprese a gestione familiare, ottenendo i subappalti da quelle più grandi. Essi, inoltre, con questa molteplicità di aziende riuscirono a offrire la varietà dei servizi richiesti da una società che iniziava a conoscere il benessere. Il fatto che la moneta nazionale fosse forte e il cambio favorevole rispetto all’Italia consentì agli emigrati stabilitisi sul posto, da una parte di inviare consistenti risparmi in Italia e, dall’altra, di realizzare ricongiungimenti familiari. Non mancarono quelli che preferirono operare come pendolari tra i due Paesi.

Al censimento del 1961 gli italiani in Venezuela furono 121.733 a dimostrazione della grande crescita della collettività. Comunque, anche i rimpatri furono consistenti, essendo diffusa la tendenza a fermarsi sul posto solo per pochi anni. Gli anni del dopoguerra furono quelli in cui gli italiani riuscirono a farsi apprezzare a livello culturale, come anche sul piano imprenditoriale (specialmente nei comparti alimentare, edile e della moda). Alcuni dati non mancano di fare impressione. Negli anni ‘50, almeno il 12% delle costruzioni della capitale si avvalse dell’opera degli italiani. In ambito alimentare la pasta s’impose sulla classica farina di mais, in precedenza alimento nazionale, facendo del Venezuela il secondo Paese consumatore di pasta dopo l’Italia. A sua volta, la moda italiana riuscì a imporsi su quella francese. Tra il 1952 e il 1958 la produzione di calzature era in mano a protagonisti italiani. La quota salì, poi, all’80%, come emerse al censimento dell’industria 1984-1985, evidenziando che ben 520 erano le imprese del settore gestite da italiani.

Dopo uno sviluppo così forte iniziò (e perdura) una lunga fase di declino, sia per quanto riguarda gli arrivi dall’Italia, sia per quanto riguarda la gestione economica del Paese. Cinque milioni di venezuelani, costretti a lasciare il loro Paese e a rifugiarsi per lo più in altri Paesi latinoamericani, sono il segno della catastrofica situazione del Venezuela.

venezuela-italia-centroRispetto al passato gli anni ‘90 e i primi due decenni del nuovo secolo non sono risultati soddisfacenti e, anzi, le ultime fasi si possono definire drammatiche in ragione della guerra civile, che ha visto il presidente dell’Assemblea nazionale Antonio Guialdo Marquez, contrapporsi al Presidente della Repubblica Nicolas Maduro Moros, succeduto nel 2013 a Hugo Chavez (in carica dal 1999 al 2012). Il governo di Maduro è diventato poco gradito in patria e non sopportato dalla maggior parte dei Paesi esteri. Le elezioni del 2018 non hanno riportato la calma.

Peraltro, la crisi, resa insopportabile dal decadimento economico, si era resa evidente nelle sue implicazioni istituzionali e politiche già negli anni ‘70, quando il Paese stentava a incanalare le notevoli risorse derivanti dal petrolio in impieghi funzionali allo sviluppo locale: una carenza gravissima, tenuto conto che era in mano pubblica il 90% dalle industrie e delle risorse minerarie. Il gigantismo statale favorì i fenomeni di corruzione e di clientelismo. Ad esempio, nel passato venne prevista l’assunzione di un addetto agli ascensori in tutti gli edifici pubblici e privati, nei quali fosse già stato installato un ascensore e vi fosse affluenza di pubblico.

Alla diminuzione dei proventi dal petrolio la politica nazionale non seppe rimediare con la diversificazione delle attività produttive. Ne sono derivate la svalutazione della moneta nazionale, il crollo dell’occupazione, la proposizione di severe misure da parte del Fondo monetario internazionale e un depauperamento generalizzato con ricorrenti sollevazioni popolari. Vi fu una ripresa momentanea nel biennio 2004-2005 (crescita del Pil, rispettivamente, del 17,4% e del 9,8%,), che la politica populista non è stata in grado di valorizzare per cui il PIL è appena un quinto rispetto a quello del 2013. Per i critici del regime si è trattato di un lungo populismo inconcludente, incapace di ridurre le disuguaglianze sociali tramite l’utilizzo accorto delle risorse.

Dopo gli anni ‘60 il Venezuela iniziò a perdere la sua capacità attrattiva e iniziò anche la riduzione numerica della collettività italiana, prima gradualmente e poi in maniera crescente, ha conosciuto una continua diminuzione numerica e nel 1999 sono risultati essere solo 61.800 persone: in quell’anno la collettività italiana fu superata da quella spagnola (133.661), e portoghese (78.735), che invece nel 1950 erano di minore consistenza rispetto ad essa. All’interno della comunità, che pure si collocava sopra la media per livello di benessere, sono aumentate i casi di disagio e di povertà, perché solo ceti a più elevato reddito ne sono stati al riparo. Si tratta di quelle persone che tradizionalmente si organizzano in club esclusivi, che assicurano prestigio e opportunità professionali e imprenditoriali. Come noto da ricorrenti fatti di cronaca, tanta notorietà si paga con una maggiore esposizione all’industria dei rapimenti.

In forza della sua crescita interna la collettività italiana è una delle più consistenti del continente latino americano, aggirandosi sulle 120mila unità, la maggior parte degli italiani vive tra Caracas e le regioni di Carabobo e Larata. Sono ormai pochi gli italiani che emigrano in Venezuela e, per lo più, per una permanenza temporanea: si tratta di operatori delle Ong, giornalisti e professionisti. Com’è avvenuto in altri Paesi, le associazioni tradizionali e regionali non esercitano più l’attrazione del passato e i giovani sono interessati ad altre forme di aggregazione.

La collettività italiana, come quella autoctona, è divisa rispetto al regime politico. Si pone il problema di mostrare, con la dovuta accortezza, la vicinanza a una collettività, che non solo è formalmente italiana, ma sente la sua italianità. Il caso del Venezuela, nel complessivo contesto della migrazione del dopoguerra, rappresenta un caso significativo per i consistenti flussi dei due decenni del dopoguerra, come lo fu anche verso il Canada e l’Australia. Il “sogno venezuelano” fu motivato da un Paese in forte espansione e si è dissolto con il ridimensionamento di tali aspettative a seguito delle tormentate vicende socio-politiche dell’ultimo quarantennio.

32365-italiaperu-2La presenza italiana in Perù [10]

Tra i flussi di immigrazione registrati in Perù quello degli italiani è stato tra i più consistenti rispetto alle provenienze europee, e, aspetto questo ancor più degno di rilievo, notevole è stato il suo influsso sociale e culturale nel processo di consolidamento del Paese come Stato indipendente. La storia della presenza italiana iniziò nel periodo in cui operava in Perù il viceré spagnolo. I primi italiani ad arrivare furono quelli che seguirono i conquistadores: risulta che nel 1532 vi erano a Lima 343 italiani. Essi aumentarono nel successivo periodo coloniale e, quindi, diedero il loro contributo alla nascita della Repubblica.

Sebbene gli italiani fossero meno numerosi rispetto alle collettività dei Paesi latinoamericani insediatesi sul posto, segnatamente quelle dal Brasile e dall’Argentina, il loro apporto fu quanto mai efficace. Come accennato, al tempo della conquista da parte degli spagnoli, il legame politico di diverse città italiane (come Genova, Milano, Napoli e alcune città siciliane) con la corona spagnola consentì lo svolgimento della prima immigrazione organizzata di italiani. Essi erano professionisti, artigiani, artisti di grande talento, marinai (il loro gruppo era quello più numeroso) e commercianti (questi, per lo più, provenienti dalla Liguria).

 L’influenza degli artisti italiani fu fondamentale per lo sviluppo dell’arte coloniale. Uno di questi, da considerare molto importante nella storia peruviana, fu il gesuita marchigiano Bernardo Bitti, (1548-1610), che sbarcò in Perù il 31 maggio del 1575. Il suo obiettivo era di utilizzare l’arte come mezzo di istruzione religiosa tra le popolazioni indigene. Le sue opere servirono da modello agli artisti durante il lungo periodo vicereale. Bitti trascorse molto tempo a Juli, un piccolo paese nei pressi della città di Puno, all’epoca conosciuta come “la Roma dell’America”, perché da lì partivano gli evangelizzatori gesuiti per recarsi in Paraguay e in Argentina. Nel 1583 fu l’italiano Antonio Ricciardi a introdurre la stampa a Lima. L’iniziativa, patrocinata dai gesuiti, si tradusse nella pubblicazione di un libro a carattere religioso, nelle tre lingue parlate in quel periodo e tuttora: aymara, quechua e spagnolo.

Dal 1716 al 1720 governò questa colonia un viceré di origine italiana: Carmine Caracciolo, quinto principe di Santo Buono, Granducato di Spagna, nato a Napoli il 1671 e morto nel 1726. Al seguito del viceré giunse al Paese un importante medico, il siciliano Federico Bottini, che scrisse l’opera Prove di circolazione sanguigna, pubblicata a Lima nel 1723: risultò di grande stimolo allo sviluppo della medicina. A quel tempo si dibatteva ancora se il sangue circolasse all’interno del corpo umano.

Dopo l’accesso del Perù all’indipendenza, avvenuto nel 1821, i nuovi governi proposero diverse normative per favorire l’immigrazione. Il 17 ottobre 1821 fu emanato il decreto legge che consentì l’ingresso libero degli stranieri. Un secondo decreto, del 19 aprile 1822, si occupò dell’immigrazione qualificata, e cioè dei soggetti con un alto livello di conoscenze scientifiche o artistiche. Nel periodo successivo furono emanati altri dispositivi giuridici, come la legge nel novembre 1832, che offriva agli stranieri che arrivavano ​​l’assegnazione di terreni in proprietà per la loro coltivazione, e garantiva l’esenzione dalle tasse gravanti sui titolari.

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Una pulperia italiana a Lima

Nel 1840 il Perù conobbe un periodo di notevole sviluppo economico a seguito del forte aumento dell’esportazione del guano. Il positivo andamento economico favorì l’arrivo di stranieri da diversi Paesi: arrivarono anche gli italiani, che si servirono dei collegamenti commerciali già in precedenza attivati. Nel 1857 nella città di Lima vi erano 3.142 italiani. Nel 1876 la collettività italiana raggiunse nel Paese l’apice con circa 10 mila membri [11]. Queste persone erano, per lo più, non di estrazione popolare bensì di rango più elevato. In particolare, tra di esse vi erano numerosi imprenditori liguri che, già prima dell’entrata in vigore delle leggi approvate per favorire l’afflusso dell’immigrazione, operavano nei porti dell’America Latina. Sono di estremo interesse le informazioni sull’attività imprenditoriale degli italiani contenute nella Guida di Manuel Atanasio Fuentes del 1863, citata nella nota. Nella città di Lima vi erano 314 imprese italiane, di cui quasi l’86% nel settore commerciale, chiamate all’epoca “pulperias”.                                                                                                                                                                                                                                                                                            Quindi nel 1887, da una guida dedicata espressamente alle imprese operanti nella capitale risultò il notevole incremento conosciuto dalle imprese con titolare italiano: infatti, delle 650 aziende commerciali, complessivamente registrate, 500 appartenevano agli italiani. Questi possedevano anche 11 fabbriche di pasta e 12 di liquori. Sicuramente la collettività italiana si distingueva per essere, all’epoca, come quella più intraprendente.

Dopo l’indipendenza del Perù un significativo gruppo di immigrati fu costituito dagli esili politici che, spinti dalle loro idee liberali, si erano battuti per l’unificazione dell’Italia ed erano stati costretti a rifugiarsi all’estero, specialmente nel 1848, quando fallì il tentativo di costituire la Repubblica Romana. Tra di essi spiccano due personaggi: Garibaldi, cui si è fatto riferimento anche in precedenza, e Raimondi. Giuseppe Garibaldi sbarcò nel porto di Callao nell’ottobre 1851. In Perù egli suscitò l’ammirazione generale. Il quotidiano di Lima scrisse con entusiasmo: «Salutiamo con piacere l’arrivo in questa capitale dell’illustre guerriero, sostenitore dell’indipendenza della Repubblica dell’Uruguay e dell’unità e indipendenza dell’Italia, colmando d’orgoglio e di giubilo la comunità italiana». L’eroe acquisì la cittadinanza peruviana in soli 15 giorni dal suo arrivo. La sua intenzione era di essere nominato capitano di una nave mercantile per il trasporto di guano e per ricevere tale nomina era necessaria la nazionalità peruviana. Così avvenne ed egli poté prestare servizio nella marina mercantile.

unnamedDurante il suo soggiorno in Perù, Garibaldi conobbe un altro esule che aveva combattuto per la Repubblica Romana, Antonio Raimondi (1824-1890), il più grande geografo e antropologo nel contesto peruviano. Questo studioso nacque a Milano il 19 settembre 1824. Arrivò in Perù, attratto per la sua diversità naturalistica. Stabilitosi a Lima nel mese di luglio del 1850, qui iniziò a insegnare scienze naturali presso la Facoltà di Medicina dell’Università di San Marcos. Nel 1851 iniziò i suoi viaggi per quasi venti anni. Si recò in luoghi inospitali, raccogliendo più di 50 mila campioni di minerali, piante, animali e facendo delle scoperte archeologiche. Raimondi fu il primo a fornire una visione organica della storia naturale del Paese nella sua opera intitolata Perù, pubblicata nel 1874. Per l’apprezzamento dell’esperienza maturata e le informazioni scientifiche messe a disposizione, lo studioso ricevette l’incarico di completare la prima mappatura della Repubblica del Perù, che egli svolse tenendo conto degli aspetti geografici, cartografici e storici.

Altre figure importanti della collettività italiana furono, alla fine del Settecento, Giuseppe Rossi, che fondò l’Accademia Filarmonica del Perù nel 1791, e, nella seconda metà dell’Ottocento, il musicista Claudio Rebagliati, che nel 1869 armonizzò e orchestrò l’attuale l’inno nazionale del Perù.

Nel 1850 vivevano a Lima circa 1.500 italiani. Nel 1857 Lima aveva 94.195 abitanti di cui 3,142 italo-peruviani, secondo i dati forniti nella guida citato da Manuel Atanasio Fuentes. In quel periodo la colonia italiana era numericamente la seconda tra quelle europee dopo quella tedesca. Il Consolato di Lima confermò la presenza di circa 5 mila, di cui 3 mila residenti a Lima, considerando che non tutti si erano in precedenza iscritti al consolato, il loro numero effettivo doveva essere più elevato.

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Monumento di Antonio Raimondi a Lima

Nonostante i tentativi del governo peruviano di attirare maggiormente l’immigrazione europea, i flussi di massa che arrivarono furono quelli dei cinesi, che coinvolsero 90 mila persone sulla base delle agevolazioni contenute in una legge del 1849, conosciuta come la legge cinese. Tr le conseguenze della Guerra del Pacifico iniziata nel 1879, vi fu un arresto dell’arrivo degli italiani, come anche il rimpatrio di molti di loro.

Durante il governo del Presidente Manuel Pardo, nel 1872 fu decisa la fondazione della Società Europea di Immigrazione al fine di promuovere, tramite apposite facilitazioni, la colonizzazione del Perù con l’impiego di agricoltori europei. Nel 1873, a complemento delle leggi del 1849 e del 1853, che concedeva ai coloni l’esenzione dalle tasse per un periodo di venti anni, fu approvata una normativa che prorogò questo beneficio per altri dieci anni. Solo nel 1909, allo scadere del 40 anni, complessivamente il tempo stabilito per l’esenzione, iniziò la riscossione delle tasse. La Società Europea di Immigrazione, che ebbe il suo assetto definitivo nel mese di marzo del 1873, si occupò della sistemazione nella zona costiera di 74 immigrati italiani. Poco dopo, a seguito dell’interessamento della Società, arrivarono altri 203 immigrati, che si stabilirono in parte sulla costa e in parte nella città di Chanchamayo. Nel 1893 la Società Europea di Immigrazione ottenne ancora dal governo in affidamento vasti territori da concedere a coloni europei. Nel 1894, la colonia italiana di Chanchamayo era composta da 253 persone, che possedevano 116 piantagioni di caffè. Questa storica presenza è oggi rappresentata da una piccola colonia italiana, formata dai discendenti dei pionieri di allora.

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Ritratto della famiglia Larco, primi 900

Un caso di straordinario successo: la famiglia Larco

Tra gli italiani emigrati vi era una famiglia destinata a diventare una delle più importanti nell’intero contesto nazionale: la famiglia Larco. Giuseppe Larco, nato nel 1830 ad Alghero, in provincia di Sassari, arrivò in Perù nel 1850, attirato dalle possibilità economiche e facilitato nel suo proposito dall’invito a raggiungerlo rivoltogli dallo zio Francesco Canevaro, residente a Lima da molti anni. Giuseppe si affermò come imprenditore e in breve tempo si fece raggiungere dai suoi due fratelli.

La famiglia Larco si impegnò nel vasto campo del commercio e si occupò anche della coltivazione e della vendita della canna da zucchero, utilizzata per produrre liquore. Giuseppe creò diverse fabbriche, dove arrivò a impiegare più di duemila dipendenti, molti dei quali italiani. Le sue aziende agricole si distinsero per l’impostazione innovativa, imperniata sull’uso di macchinari moderni, di impianti elettrici (fin dal 1872) e sull’utilizzo di una ferrovia per il collegamento tra le zone di coltivazione e le fabbriche.

Giuseppe Larco, divenuto sul posto Josè, fu nominato conte di Savoia nel 1859, e ottenne l’incarico di console in Perù. Noto anche come generoso filantropo, ricevette un’onorificenza perfino dal governo degli Stati Uniti. Nel 1891 Josè iniziò anche a operare come sindaco nel distretto di Miraflores in Lima. Questo sardo-peruviano decise di promuovere il commercio con l’Italia e, a tal fine, coinvolse altri imprenditori di origine italiana residenti in Perù, con i quali, il 4 aprile 1889, fondò la Banca Italiana, con un capitale di 40 mila sterline peruviane e solo cinque dipendenti. Da quel momento il suo successo imprenditoriale fu senza precedenti. In tempi più recenti (nel 1941) la ragione sociale dell’istituto di credito da lui promosso fu modificata e il nome fu cambiato in Banco di Credito del Perù: questo istituto continua a operare come una delle più importanti del Paese.

Tra le realizzazioni importanti della famiglia Larco va incluso l’Ospedale Larco Herrera, che è stato il primo centro psichiatrico a operare in Perù: l’opera fu iniziata nel 1918 con la denominazione “Colonia de la Magdalena”. Nel corso degli anni la famiglia Larco svolse diversi ruoli importanti. Guillermo Cox Larco fu Primo ministro nel 1987 e nel 1990, e ad altri membri della famiglia furono conferiti ulteriori incarichi politici, come ad esempio la vicepresidenza della Repubblica. È fondato affermare che la famiglia Larco ha dato un grande contributo allo sviluppo economico e sociale del Perù e non sorprende che una delle strade più importanti del distretto di Miraflores porta il nome di Via Josè Larco.

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Gruppo di italiani a Lima

Nel corso del Novecento e negli anni Duemila

Nel mese di dicembre del 1900, Lima contava 117.307 residenti, dei quali 5.638 erano di origine italiana. Al censimento del 1903 risultò che 10.368 italiani erano residenti in tutto il Paese, di cui 5.890 appartenevano alla prima generazione, mentre gli altri erano nati sul posto. Nel 1921 il Perù celebrò, con solenni manifestazioni, il Centenario della sua indipendenza. In tale circostanza la collettività italiana, che era tra gli stranieri quella economicamente più forte, decise di creare un comitato, presieduto per Gino Salocchi, direttore della Banca italiana a Lima, per realizzare nella capitale la costruzione del Museo d’Arte Italiana, dando così un particolare contributo ai festeggiamenti del centenario. In effetti, fu realizzata una maestosa costruzione in stile neorinascimentale dall’architetto milanese Gaetano Moretti e, alla sua inaugurazione, avvenuta l’11 novembre 1923, le chiavi della struttura furono consegnate simbolicamente al Presidente della Repubblica Augusto Leguia. Tale struttura rappresenta attualmente l’unico museo di arte europea in Perù.

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Museo d’arte italiana a Lima

Dopo la fine della Prima guerra mondiale riprese il flusso degli italiani in Perù, che in precedenza si era imposto per la qualità e non per il numero dei protagonisti, ma il gli arrivi diminuirono ulteriormente, così come avvenne anche nei flussi verso gli altri Paesi. Nel 1940 il numero degli italiani in Perù era diminuito a 3.774, risollevandosi a 5.716 nel 1961, poi riducendosi a 4.062 nel 1981 (dati di fonte censuaria). Sugli anni ‘2000 i dati sono forniti dall’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) e attestano un aumento che non ha avuto l’uguale nel passato con il raggiungimento della maggiore consistenza numerica mai realizzata nel passato: 26 mila alla fine del 2007 e 35.468 alla fine del 2019. Nei 4/5 dei casi la presenza italiana è concentrata a Lima. Bisogna anche tenere conto che, secondo stime della ambasciata italiana, sono 500 mila gli oriundi italiani. Operano, da tempo, in questo Paese alcune decine di Ong italiane, attive in particolare nel settore agricolo e in quello artigianale. Significativa è anche la presenza di missionari italiani, impegnati per la promozione sociale delle categorie più svantaggiate.

Abbracciando con un giudizio sintetico un periodo così lungo di presenza italiana in Perù, si può dire, per quanto riguarda il periodo delle grandi migrazioni italiane a cavallo dell’Ottocento e del Novecento, come nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, che gli spostamenti degli italiani in questo Paese non sono stati numerosi e che, in proporzione al numero delle presenze, l’influsso degli italiani è stato straordinariamente efficace. Il Perù è stato per l’Italia un Paese di sbocco per una emigrazione qualificata.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Cfr. Begnino V., Franzina E.,- A. Pepe (a cura di), La riscoperta delle Americhe. Lavoratori e sindacato nell’emigrazione italiana in America Latina 1870-1970, Milano, 1994; Caritas, Migrantes (a cura di Di Sciullo, Licata D., Pittau F., Ricci A. (del Centro studi Idos), America Latina-Italia: vecchi e nuovi migranti, Edizioni Idos, Roma, 2009; Rosoli G. (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana (1876-1976), Roma, Cser, 1978; Zilli I. (a cura di), Un ponte sull’oceano. Migrazioni e rapporti economici fra Italia e Argentina dall’Unità ad oggi, CNR-ISSM, Napoli, 2012.
[2] Cappelli V., “Tra “Macondo” e Barranquilla, gli italiani della Colombia Caraibica dal tardo Ottocento alla seconda guerra mondiale”, in Altre Italie, luglio dicembre 2003: 18-52 (con un’ampia bibliografia); Violi R., “Gli italiani in Colombia: un’emigrazione non di massa”, in Caritas Migrantes, a cura del Centro Studi e Ricerche Idos, America Latina: vecchi e nuovi migranti, Edizioni Idos, Roma, 2009: 117-120.
[3] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-storia-del-canale-di-panama
[4] Tamburini F., La Cuestión Cerruti y la crisis diplomática entre Colombia e Italia, en Revista de Indias 40, sett. – dic. 2000: 709 – 733; Pelaggi S. Il colonialismo popolare. L’emigrazione e la tentazione espansionistica italiana in America latina, Roma, Nuova Cultura, 2015.
[5] http://www.rivistamissioniconsolata.it/2004/08/01/san-pietro-claver-schiavo-degli-schiavi/
[6] https://salerno.occhionotizie.it/fratelli-di-domenico-pionieri-del-cinema-sud-americano/
[7] Cfr. Ambasciata d’Italia-Quito, Los italianos en la mitad del mundo, Ediecuatorial, Quito, 2008.
[8] Cfr. Aguello Carvajal M. L. “Ecuador: la presenza italiana in un paese andino”, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2011, Edizioni Idos, Roma, 2011: 346-357; Chiaramonti G., Ecuador, Perù e Bolivia. Le Repubbliche impervie, Giunti, Firenze, 1992; Guarnieri C, Carducci L., Dizionario storico-biografico degli Italiani in Ecuador e Bolivia, Il Mulino, Bologna 2001; Bottasso J., “Don Rua e la missione in Ecuador”, http://www.salesian.online/wp-content/uploads/2019/07/12-Bottaso-Don-Rua-e-le-missioni-dell%E2%80%99Ecuador.pdf
[9] Come base è stata presa la relazione di predisposta da Franco Soressi per il convegno organizzato nel 2009 a Buenos Aires in collaborazione con la Caritas e la Fondazione Migrantes e il CEMLA. Cfr, inoltre: Benedetti A., “La collettività italiana in Venezuela”, in Affari Sociali, internazionali, m n. 1-4, 2020: 97-102. Venturi C, “Dal benessere al bisogno: gli italiani in Venezuela”, America-Latina Italia: vecchi e nuovi migranti, Idos Roma 2009: 207.
[10] Arona J., La inmigraciòn en el Perù; universo; ;Lima, 1891; Bonfiglio, G., ”Introduc, Unicerzo, Limaon al estudio de la inmigracion europea in Perù., in Apuntes. Revista UP, Fascicolo Fsdvivolo 18, 1986: 93-127: https.//revistas.up.edu.pe/index.phd/apuntes/article/wiew/228. (pubblicato su internet anche in Italiano); Chiaramonte G., La migracion italianana en America Latina. El caso Peruano. Apuntes, in Revista di Scienza Sociali, n. 13, 1983: 15-36; Maguiña salina E., “Un acercamiento al estudio de las inmigraciones extranjeras en el Peru durante el siglo XIX y las primeras decadas del siglo XX£, in Revista Nuestra Tierra (Università Nazionale Agraria la Molina),. Fascicolo 18, 1986: 293-127: Raimondo A., (1874), El Perù, Casa Editrice dello Stato: 58.
[11] Nel 1864 M.A. Fuente pubblicò Fuentes M. A, Guia de Domicilio de Lima, 1864 e nel 1887 C. Soto e G. R. Ramirez curarono Guia de domicilios e industria de Lima y comerciales del Callao.

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Sharon Alexandra Arce Martinez, giovane ricercatrice nata in Brasile e peruviana di adozione. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università Inca Garcilazo de la Vega in Giurisprudenza, la sua origine italiana da parte materna l’ha spinta a trasferirsi in Italia, desiderosa di condurvi degli approfondimenti, in particolare per quanto riguarda la storia dell’emigrazione. A tal fine ha frequentato, presso l’Università di Roma Tor Vergata, il Master MEDIM (Master in Economia, Diritto, Intercultura e Migrazioni).
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2917, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70. Ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche sul fenomeno migratorio. Attualmente Presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico e docente presso il MEDIM dell’università Tor Vergata di Roma (Master in economia, diritto, intercultura e migrazioni).

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