A che serve l’antropologia se non a dialogare con il mondo? Cosa studiano gli antropologi che non sia riconducibile alla complessa realtà degli uomini? Degli uomini in obiecto e degli uomini in intellectu. Se non è applicata alla conoscenza del mondo e dei suoi mutamenti l’antropologia semplicemente non è. Ulf Hannerz, nel descrivere in Il mondo dell’antropologia (2012) le dinamiche interne alla disciplina, si pone in fondo queste domande, si interroga sul ruolo oggi dell’antropologia che meglio di ogni altra scienza «può aiutarci a capire – e a interpretare – un mondo globale dove i mondi locali rifiutano tenacemente la sottomissione».
Annalisa di Nuzzo nel libro Minori migranti. Nuove identità transnazionali (Carocci, 2020) esamina il fenomeno della migrazione dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) utilizzando e valorizzando un approccio metodologico interdisciplinare. Qui, l’antropologia, la sociologia e la psicologia confluiscono sinergicamente in una ricerca che, a partire dalle storie di vita, mira alla costruzione di una teoria solida che abbia come oggetto disciplinare specifico non soltanto il fenomeno in sé ma anche e soprattutto i suoi soggetti. L’antropologia di cui si fa portatrice è imperniata sulla persona, «intesa come nucleo attivo di storia e contesto, di possibilità e limiti psicologici e biologici».
Lo studio ha il pregio di invitare il mondo accademico ad uscire dalla fortezza delle teorie per aprirsi ad una più articolata e complessa esplorazione del campo. L’autrice tesse un proficuo dialogo non soltanto con i giovani protagonisti delle storie di vita di cui riporta frammenti, ma anche con gli attori sociali che operano nell’ambito del Terzo settore – all’interno delle strutture di accoglienza – e dei rappresentanti delle istituzioni pubbliche e sanitarie. Il contesto sociale, culturale e politico viene indirettamente chiamato in causa: la “sfida” è di tutti questi ambiti. Il richiamo all’impegno e alla responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, è fondamentale per costruire un discorso sul minore migrante che sia al tempo stesso rigoroso sul piano teorico ed efficace su quello pragmatico.
Analisi sincroniche e diacroniche, quantitative e qualitative, dunque, sono indispensabili per una comprensione più profonda e articolata del “campo sociale transnazionale”[1]. Non a caso, dopo un primo capitolo dedicato alla descrizione del quadro teorico di riferimento entro cui si posiziona l’autrice, il secondo, costruito insieme all’allieva Valeria Iannazzone, si incentra sull’analisi giuridica e sociologica del fenomeno relativo ai MSNA con specifico riferimento al contesto italiano. La terza e ultima parte del testo è, invece, costituita da frammenti di storie di vita entro cui si articola la riflessione antropologica della studiosa. Le storie dell’afgano Mustafà, dell’albanese Edil e della nigeriana Aurora sono il fil rouge che permettono al lettore di attraversare quel “cosmopolitismo vernacolare”[2] fatto di commistioni e ibridazioni culturali entro cui si costruisce e si negozia un rinnovato senso di appartenenza e di identità.
Il concetto di identità è fortemente connesso a quello di cultura, costrutto problematico su cui si è articolato gran parte del dibattito antropologico, sin dalla sua nascita. È noto – anche se non è ancora senso comune – che è fuorviante pensare le culture, e insieme le identità, come universi chiusi, autosufficienti, come “essenze”. L’idea stessa di un’identità culturale è destinata a condurre ad un vicolo cieco poiché «la specificità della dimensione culturale, a qualunque livello la si consideri, è di essere plurale e allo stesso tempo singolare», nonché cangiante e in costante trasformazione (Jullien 2016: 267). La natura stessa del culturale è il cambiamento e, talvolta, esso si configura come rito di passaggio.
La perdita e il raggiungimento di un nuovo status per il giovane migrante corrisponde dunque all’acquisizione di una nuova immagine personale e sociale. Per un minore questo significa non soltanto riuscire ad ottenere un permesso di soggiorno regolare (tappa imprescindibile del percorso evolutivo), ma anche costruire un’immagine positiva di sé riconosciuta all’esterno. Ecco qui emergere il valore antropologico ed educativo che possiedono le storie di vita. Ascoltare significa in primo luogo rendere visibili ed il dialogo, per sua stessa natura, implica la valorizzazione delle esperienze e dei punti di vista altrui. Il fine è la possibilità di instaurare relazioni abbastanza significative da contribuire alla costruzione di una immagine di sé che tenga naturalmente conto del passato, senza rimozioni e negazionismi, implementando l’agency della persona.
Annalisa Di Nuzzo raccoglie e restituisce squarci di storie di vita nella consapevolezza del problema, ancora esistente e mai del tutto risolto, «dell’oggettività del lavoro sul campo e della soggettività dell’antropologo-etnologo nella postmodernità». Secondo una peculiare prospettiva contemporanea nell’epoca postmoderna le storie sono difficili da raccontare in quanto l’esperienza è così frammentata e caotica da rendere una finzione il tentativo di immaginare significati o di dare coerenza al narrato. Il ricercatore svolge un ruolo molto importante in questo processo narrativo, soprattutto in un periodo storico in cui alle grandi narrazioni (dei pochi) si affiancano quelle minoritarie (dei molti). Certo, sarebbe opportuno che i soggetti chiamati in causa parlassero da sé, senza intermediazioni, ma è pur vero che una qualche forma di restituzione dell’incontro con l’Altro è ineludibile nella ricerca antropologica che si fa testo.
L’interesse per le storie di vita, in ambito antropologico e nel contesto italiano, è notevolmente cresciuto negli ultimi anni. Il motivo di una tale attenzione risiede nel fatto che esse sono autentici depositi di tradizioni, credenze, abitudini e pratiche che possono rispondere a molte domande sul processo di conservazione delle tradizioni e sul ruolo che quest’ultime hanno nella vita di coloro che le ereditano, le osservano e le tramandano. Attraverso di esse è, infatti, possibile avere un accesso diretto all’interpretazione dei soggetti. Le storie costituiscono la forma privilegiata dell’espressione di sé e consentono di “avvicinarsi” al mondo cognitivo degli interlocutori e di riconoscerne le rappresentazioni della realtà. Riportare frammenti di storie di vita significa non soltanto valorizzare l’incontro con l’Altro, ma riflettere su punti di vista differenti dal proprio e interrogarsi sulla propria pratica di ricerca.
L’approccio antropologico di Annalisa Di Nuzzo è, inoltre, profondamente ancorato allo spazio, ad uno spazio attraversato e vissuto (quello campano), cittadino e di quartiere che penetra nelle case e permea le pratiche del quotidiano. Riconoscere e attribuire significativa importanza alle pratiche quotidiane è fondamentale; è proprio grazie a tali strategie che l’uomo inventa e re-inventa la vita ordinaria, eludendo così il ruolo passivo e obbediente che dall’alto gli viene attribuito. Le pratiche ordinarie – come ci insegna De Certeau – appaiono come lo sfondo scuro dell’attività sociale, apparentemente prive di leggi interne che le strutturano e le organizzano, di una logica profonda che le regola. Tuttavia, in ogni pratica quotidiana soggiace una struttura logica che la definisce in quella precisa forma; ognuna di esse è costituita da tattiche e procedure interne che attendono di essere svelate. L’obiettivo è quindi quello di indagare le pratiche ordinarie dell’uomo sociale, poiché ognuna di esse non è altro che una manifestazione più o meno spontanea che riflette il modo in cui gli individui attuano strategie e ricercano soluzioni consone per la realizzazione del loro essere nel mondo. In questo senso il quotidiano cessa così di essere banale: se da una parte è il perno materiale attorno a cui ruota la vita di ogni individuo, dall’altra è il luogo in cui si riproduce l’ordine che regola ogni interazione.
L’analisi più prettamente psicologica si scorge nell’utilizzo di una terminologia che ha solide radici nel metalinguaggio specifico interno alla disciplina. La teoria sposata dall’autrice è che la vulnerabilità del giovane migrante – intesa come una debolezza del sistema (oggetto o soggetto) caratterizzato da misure di protezione assenti, ridotte o compromesse – è di fatto una fragilità in grado di portare ad un nuovo equilibrio e ad una nuova comprensione. Le storie narrate sono storie in cui la vulnerabilità si trasforma in capability [3] e in resilienza. Quest’ultimo termine, polisemico e dai confini amorfi, può essere inteso come un costrutto culturalmente e socialmente condiviso, che denota la capacità di un sistema di ricostituire un equilibrio armonico a fronte di un evento “traumatico”.
Il soggetto resiliente accetta la realtà e conserva il ricordo del proprio trauma che de facto concorre alla costruzione della propria identità narrativa. Il dolore non viene negato o rimosso; esso viene vissuto, attraversato, integrato con gli elementi-risorse presenti nel percorso di vita della persona. Ciò che risulta particolarmente interessante è come il concetto di resilienza abbia permesso di indagare ed esplorare nuovi modi di pensare nonché inedite modalità di organizzare le nostre istituzioni e le nostre risposte comportamentali.
La vulnerabilità, concetto che in in ambito giuridico determina le categorie più povere, è propria anche degli individui isolati in situazioni di insicurezza e più indifesi da rischi, shock e stress. Con questa accezione, in ambito sociale, possono essere definiti come “gruppi vulnerabili” le persone esposte a situazioni che minacciano la loro sopravvivenza o la loro attitudine a vivere con un minimo di sicurezza sociale ed economica e di dignità umana. Come ricorda Antonino Cusumano nella sua prefazione al volume, i MSNA sono tre volte vulnerabili: perché minori, perché stranieri, perché non accompagnati (ovvero privi, in base alle norme vigenti dell’ordinamento italiano, di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili).
Per Annalisa di Nuzzo sono migranti invisibili poiché particolarmente soggetti al rischio di essere vittime di tratta e sfruttamento. Si tratta di soggetti plurilingue, a volte analfabeti o poco scolarizzati, abitualmente situati in-between, in precario equilibrio tra forme di appartenenza differenti, fra codici e frontiere simboliche e materiali stabilite tra le culture. Il transmigrante [4] è espressione di un meticciato che attinge da fonti spazialmente e culturalmente plurali, trasformato dagli spazi che attraversa e che, con la sua stessa vita, contribuisce a risignificare. I MSNA sono dunque soggetti vulnerabili ma ricchi di un potenziale umano il cui sviluppo è responsabilità non soltanto del singolo individuo ma dell’intera comunità. Il soggetto vulnerabile è, infatti, solo in potenza un soggetto resiliente. Tuttavia, è bene ricordare che un certo grado di vulnerabilità, intesa come condizione traumatica che irrompe nel normale andamento della quotidianità sconvolgendo l’ordine di funzionamento ordinario, è naturale ed è condizione universale, di tutti gli esseri umani.
«Nel percorso di vita di ciascuno vi possono essere momenti di blocco temporaneo, che possono implicare il cambiamento di ritmi o stili di vita; la possibilità di affrontare tali situazioni, ricercandone una specifica capacità di risposta positiva, attraverso l’osservazione dei problemi in termini di risorse e difficoltà, aiutando l’individuo a fuoriuscire da una condizione di vulnerabilità e a “leggersi” in modo differente, significa muoversi sul solco della resilienza» (Cyrulnik e Malaguti, 2005: 10).
La vulnerabilità, dunque, non può essere interpretata in modo contrapposto alla resilienza, bensì richiama la complementarietà tra fattori di rischio e fattori protettivi, aprendo nuovi scenari per l’intervento e la pratica dei professionisti educativi, i quali, oggi, sono più orientati, grazie al contributo della ricerca e ad un cambio di paradigma che ha investito anche le scienze sociali, ad individuare e rafforzare i punti di forza a livello individuale e collettivo, piuttosto che concentrarsi sulle mancanze e i deficit.
Negli ultimi anni, con l’arrivo non più sporadico di minori stranieri non accompagnati, l’architettura del sistema scolastico e di accoglienza è stata messa a dura prova e non sempre si è riusciti a rispondere in maniera adeguata alle esigenze della nuova ed eterogenea utenza, portatrice di proiezioni, aspettative, desideri, paure e bisogni specifici. In mancanza di una risposta condivisa da parte delle istituzioni preposte all’educazione e all’inclusione, il rischio – già sperimentato e che continua ad essere presente – è quello del collasso. Sono molti i ragazzi che hanno abbandonato la scuola, che non hanno proseguito gli studi al di fuori del ciclo dell’obbligo e che si sono allontanati dalle strutture di accoglienza senza lasciare traccia. Nel fare fronte a questa importante sfida politica, culturale e sociale, essere adulti sufficientemente responsabili ed equipaggiati non basta. Non si può far fronte alle esigenze socio-educative dei MSNA da soli. Il rischio è un burnout del singolo individuo e/o dell’intera struttura. Serve dunque uno spazio di riflessione istituzionale e condivisa; serve un modello antropologico all’altezza dei tempi e della complessità dei funzionamenti psicosociali dei MSNA; serve coinvolgere in maniera sempre più attiva le famiglie quali istituzioni per eccellenza preposte all’inclusione.
L’affidamento familiare, promosso dalla Legge Zampa del 2017[5], ad oggi rimane un’alternativa poco esplorata nella maggior parte del territorio nazionale, che andrebbe invece implementata e sperimentata come strategia prioritaria rispetto a quella offerta dalle strutture pubbliche e private. Altra novità interessante promossa dalla Legge Zampa è l’introduzione del tutore volontario, una figura che incarna un nuovo modo di intendere la tutela legale: non solo rappresentante legale, ma figura in grado di guidare e facilitare il processo di inclusione sociale, interprete privilegiato delle specifiche necessità della persona e garante dei suoi diritti.
Come antropologa ed educatrice mi sono resa conto di quanto la presenza di una relazione significativa con l’adulto – interno o esterno alla struttura di accoglienza – abbia influito sulla crescita, sull’autostima e sulla costruzione positiva di una rappresentazione di sé indispensabile ai fini dell’inclusione sociale. Mi è altresì capitato di scoprire che la presunta minore età formalmente dichiarata fosse in realtà una strategia messa in atto dal giovane migrante per usufruire della protezione internazionale prevista dall’ordinamento italiano. Dichiarare di essere minorenni è in sé una narrazione non priva di conseguenze sul piano psicologico e sociale; significa dover nascondere una parte significativa della propria storia: un’operazione dolorosa per il giovane migrante, in lotta continua fra l’occultamento di verità ritenute “incomunicabili” e gli stimoli provenienti dalle molteplici figure professionali – psicologi, etnopsichiatri, educatori, avvocati – che cercano di stimolarne una narrazione autentica.
Un chiaro esempio concreto di quanto descritto è accaduto nel periodo di emergenza sanitaria generato dal Covid-19. Per i ragazzi dei Gruppi-appartamento presso cui lavoro questi spazi sono ciò che più si avvicina, materialmente e simbolicamente, al concetto di ‘casa’ la cui perdita accomuna ciascun immigrato. La casa è intesa non solo come abitazione, ma anche come fascio di sentimenti e relazioni ad essa connessi; si carica, quindi, di significati soggettivi a cui si intersecano le nuove relazioni affettive stabilite nel Paese di accoglienza. In questo lungo periodo di sospensione delle attività lavorative e sociali, il Gruppo-appartamento è diventato un caleidoscopio di minute pratiche quotidiane legate di volta in volta allo studio, alla musica e allo sport. Vietato l’ingresso agli amici, ai volontari e ai tirocinanti, i ragazzi hanno condiviso le loro giornate esclusivamente con il gruppo di educatori presenti in struttura.
Questo tempo di sospensione è stato caratterizzato da un senso di straniamento dovuto al repentino passaggio da una vita estremamente frenetica ad un rallentamento pressoché assoluto. Le canzoni e i temi che hanno scritto, sovente, si sono trasformati in elementi di riflessione su temi specifici riguardanti il peculiare periodo storico entro cui siamo tutti immersi. La semplicità con cui i ragazzi hanno espresso il loro disagio e le loro speranze nei confronti di una società estremamente caotica e complessa, spesso violenta ed escludente, è stata un’importante fonte di riflessione sul piano antropologico ed educativo. Nel narrare frammenti di timori e auspici di questi resilienti giovani sento una profonda gratitudine.
Narrare, d’altronde, è, a sua volta, un narrarsi. La narrazione è essa stessa forma di migrazione, un attraversare e trascendere i confini della propria esistenza individuale per inscriverla in un nuovo contesto di vita, e Minori migranti, questo interessante studio di Annalisa Di Nuzzo, contribuisce a delineare l’antropologia come pratica riflessiva o riflessione pratica, volta ad una maggiore comprensione della complessità del fenomeno, della fascinazione delle storie e dell’insondabilità delle vite.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] La nozione di “campo sociale transnazionale” è presa in prestito dalla studiosa Nina Glick Schiller ed è da intendere come campo sociale multidimensionale che include interazioni strutturate di varia natura (organizzazioni, istituzioni, movimenti sociali).
[2] Il concetto di “cosmopolitismo vernacolare” è stato promosso da Homi Bhaba e Dipesh Chakrabarty con l’obiettivo di costruire intorno a questo termine una pratica politica e antropologica alternativa, più progressista di quella corrente o dominante.
[3] Il concetto di capability è ricondotto all’utilizzo che, nello specifico, ne fa M. Nussbaum ma si inscrive entro uno scenario teorico più ampio definito Capabilities Approach (CA).
[4] Espressione utilizzata dalla studiosa Nina Glick Schiller per identificare «colui che mantiene in un funambolico equilibrio rapporti con la patria di partenza e il paese di arrivo o per essere più precisi le nuove congiunture e i mutamenti contemporanei attraverso cui prende forma la vita dei migranti contemporanei» (Di Nuzzo 2020: 23).
[5] Legge 7 aprile 2017, n. 47 “Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati” (cd. Legge Zampa)
Riferimenti bibliografici
De Certeau, M. 2001, L’invenzione del quotidiano, Lavoro ed., Roma.
Di Nuzzo, A. 2020, Minori migranti. Nuove identità transnazionali, Carocci, Roma (1° ed. 2013).
Di Rosa, R. T., Gucciardo, G., Argento, G., Leonforte, S. 2019, Leggere, Scrivere, Esserci. Bisogni formativi e processi di inclusione dei minori stranieri non accompagnati, FrancoAngeli, Milano.
Hannerz, U. 2001, Il mondo dell’antropologia, Il Mulino Bologna
Jullien, F. 2016, Essere o vivere, Feltrinelli, Milano (ed. or. 2015).
Montes, S. 2000/2001, Tradurre le culture: strategie dei testi, strategie degli antropologi, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, ¾: 35-52.
Moreno, C., Parrello S., Iorio I. (a cura di) 2012, La mappa e il territorio. Ripensare l’educazione fra strada e scuola, Sellerio, Palermo.
Van Gennep, A. 2009, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1901).
Zucchermaglio, C. 2011, Lavorare con i minori stranieri non accompagnati. Voci e strumenti dal campo dell’accoglienza, FrancoAngeli, Milano.
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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, è antropologa, formatrice, educatrice e insegnante di yoga. Da dieci anni lavora a Palermo con minori stranieri non accompagnati presso il gruppo appartamento “La Vela Grande” fondato dall’associazione Apriti Cuore onlus, diretto dal 2018 dall’Istituto Don Calabria.
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