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IntransiGender. Del gender e di altre catastrofi

copertinadi Valentina Rametta

Siamo in piena metafisica. Nel senso che siamo immersi in uno stato delle cose che non si accontenta dei fatti e della complessità dell’esistente, ma cerca di mettersi in salvo fondandosi in un nuovo orizzonte stabile e permanente, che continua a intrecciarsi a quelle che nel pensiero filosofico si chiamano “questioni ultime”. Qualcuno direbbe che è un bene, se ci sforziamo di pensare che anche questo è un tentativo di orientare la bussola in mezzo ai pezzi franati del nostro dispositivo ontologico nel tempo post-storico. Abbiamo creduto che un colpo di spugna avrebbe fermato gli orologi, azzerato i conti con la storia. Adesso stiamo ridando la carica agli orologi, sperando che il tempo torni a scandire una confortevole verità intemporale.

In un certo senso, stiamo assistendo ad una sorta di salto della quaglia della cultura di massa in una direzione molto precisa, le cui categorie e invenzioni mentali sono sorrette complesso sacro-potere-violenza, ossessionata dalla paura e dai nemici, disgustata dalla politica formale e preda della superstizione. In questi termini sembrano declinarsi alcune delle nuove “grandi narrazioni” collettive, che hanno come caratteristiche comuni una enunciazione della realtà in un orizzonte di violenza, di paura diffusa e di paranoia, quasi di competizione tra specie, in cui una delle due parti ha l’obbiettivo di estinguere l’altra e gettare il mondo in un caos senza forma. Si pensi alla retorica del discorso sui migranti, tra il pietismo dell’ultima ora (sempre quella che giunge a tragedie conclamate), e lo scontro identitario manicheo della retorica dell’invasione dello spazio politico contemporaneo [1]. Oppure alla lotta contro la “teoria del gender” che imperversa nel discorso pubblico fino al Family Day tenutosi a Roma lo scorso 20 giugno.

Siamo in piena metafisica, e lo spettro che ha sostituito il marxismo e ora s’aggira per l’Europa è proprio “l’ideologia gender” (Bernini 2014), il nuovo fondamentalismo post-umano. Certo in una declinazione triviale, quando ci si proclama “martiri della Verità” direttamente incaricati su commissione dalla voce divina. Al Family Day del 20 giugno sarebbe apparsa tra le nubi, come nella migliore delle tradizioni profetiche, proprio la Vergine in persona a confermare i sospetti e sciogliere ogni dubbio: «il gender, le nozze omosessuali e l’utero in affitto disegnano il fronte nuovo e forse decisivo del combattimento escatologico profetizzato dall’Apocalisse » [2].

Il “gender” è un segno dei tempi, una variazione sul tema della fine del mondo. Bisogna essere intransiGender, non ammettere deviazioni dal mondo a due dimensioni, non tollerare corpi instabili, smagliature delle strutture che ci costituiscono. Cedere di un passo potrebbe costarci la catastrofe del mondo senza di noi, d’essere privati del nostro rassicurante #jesuis, la prova di intelligibilità sociale che serve per il riconoscimento. Bisogna essere intransiGender, perchè non bisogna lasciar vagabondare troppo a lungo l’incubo che mi distorce, pena la dispersione, la perdita definitiva del mio corpo, del mio desiderio, dei miei genitali e del mio volto.

Certo, la tentazione è quella di pensare che si tratti del delirio di un gruppo di paleoinquisitori lievemente paranoici e liquidare frettolosamente la faccenda, come se fosse una fantasticheria nata dalla facile credulità della massa teledipendente. Eppure riflettendo sugli slogan dei manifestanti, alcuni sono molto espliciti per comprendere la posta in gioco: “Gender / teorie sataniche”, “Gender / sterco del demonio”, “Gender / la pazzia di un popolo”. A sigillare la tragedia globale, la sintesi della rivendicazioni di una minoranza: «L’Europa senza Dio non ha futuro»

FOTO1A questo punto qualche domanda è d’obbligo. Come si cristallizza l’immagine del “gender”? Che cosa si nasconde dietro a questa? Quali sono i meccanismi ideologici che agevolano la crociata anti-gender? Com’è possibile che nell’epoca dell’accelerazione tecnologica e dell’iper-informazione, si sia avviata una battaglia morale basata su una nozione delirante del “gender”, frutto della rielaborazione sistematica compiuta dalla propaganda cattolica [3] e dalla reviviscenza identitaria reazionaria? La supposta base di intesa aconfessionale e apolitica del movimento maschera, in primo luogo, un passaggio cruciale: il ritorno della famiglia come centro insostituibile della produttività e del consumismo di massa per effetto della crisi economica e della condizione generale di precarietà, che vincola l’emancipazione individuale costringendo i soggetti a una sorta di infanzia prolungata. In secondo luogo, l’uso feticistico dell’idea di famiglia, natura e tradizione, maschera un modello ideologico che è residuo culturale di destra (Jesi, 2011), secondo il quale l’etica e l’identità dell’Italia – metonimia di un’Europa ridotta a desolata wilderness sulla quale non risplende più la legge divina – è una monocultura ultracattolica, dal linguaggio propagandistico, sentimentale e dall’esoterismo molto pop, che sta diventando nuovamente un fenomeno di omologazione. Il sospetto è che l’impossibilità collettiva di immaginare un futuro nuovo stia ripetendo le opzioni residuali di default: distruzione dell’esistente o ritorno a modelli pre-moderni.

Tenendo a mente la lezione di Furio Jesi sulla cultura di destra (2011) e sulla funzione dei luoghi comuni, sappiamo che ogni mito è sempre mito di un potere, che alimenta pratiche diffuse e produce conseguenze reali. In questo caso c’è la scelta e l’uso della parola “gender”, selezionata in qualche misura come un campione che racchiude tutte le forme distorte dell’umano partorite dal neoliberismo e dal linguaggio politicamente corretto della politica europea. Il lemma è utilizzato come una essenza rappresentativa di un paradigma, è allo stesso tempo parola e immagine. Non è tradotto nel più commestibile italiano, poiché ne addomesticherebbe e ne diminuirebbe la quota di straniamento lasciato galleggiare in sospensione, una pura forma dimostrativa utilizzata come enunciato compiuto in se stesso. In questo modo, dal discorso politico sui diritti civili scivola e si metamorfizza in una entità soprannaturale capace di evocare, al solo pronunciarla, forze perverse e minacciose potenze oscure: “Il Gender”! Un po’ come il Babau o come il Gollum di Tolkien, un orribile rumore gutturale.

Da qui alla propagazione, e alla propaganda, di un’immagine distorta e alterata, sopraffatta da paure irrazionali che entrano nella realtà quotidiana, il passo è breve. Il “gender” sarebbe una distorsione trasumanista, la manipolazione del corpo per oltrepassare i limiti naturali. L’approvazione di leggi contro l’omo-trans-fobia definirebbe uno scenario post-apocalittico: fine della “libertà di opinione”, imposizione del pensiero unico, demolizione dei vincoli originari, e via di seguito. E dunque le “lobby gay” funzionano come i regimi totalitari, una specie di setta spinta al complotto mondialista e votata alla creazione di un contro-mondo, a tal punto sadiano da aver infiltrato nel disegno di legge sulla scuola, trasformata in campo di rieducazione e indottrinamento, un “emendamento gender”, un decalogo di brutalità coercitive: bambini costretti a masturbarsi tra loro, a toccarsi i genitali, a travestirsi, a fare coming out, fino al diritto all’aborto e alla asessualità. L’ironia della situazione sta nella logica populista in atto:

Il populismo è in ultima istanza sorretto sempre dall’esasperazione e dalla frustrazione della gente comune, dal grido «Non voglio sapere cosa sta succedendo, ne ho solo abbastanza! Non può continuare così! Deve finire». Queste esplosioni di impazienza tradiscono un rifiuto a comprendere o a impegnarsi nella complessità della situazione, e fanno nascere la convinzione che ci deve essere un responsabile del disordine […]. Qui, nel rifiuto di sapere, risiede la dimensione propriamente feticistica del populismo. […] In altre parole, il populismo rimane una versione della politica della paura: mobilitare le masse accrescendo la paura nei confronti di un agente esterno corrotto (Žižek, 2010: 80-81).

FOTO2In questo il populismo è disumano: ciò che produce la disumanizzazione è il rifiuto del discorso, l’affidarsi cieco ad idee senza parole. Il fatto che il movimento anti-gender esorti a incarnare la sorveglianza contro il Babau gay, ci mostra in che modo l’ossessione del Bambino-indifeso sta assumendo una funzione importante nella cultura italiana di oggi, una cultura sempre più infantilistica sul piano sociale, ancorata ai feticci gemelli della vittima bisognosa di assistenza e del ritorno della legge del padre.

Basti citare il lavoro dello psicanalista Massimo Recalcati, autore di libri di successo come  Il complesso di Telemaco, controfigura mitologica dell’odierna scomparsa del padre, e dell’ultimo L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (2015), testo con il quale afferma che la crisi dell’istituzione scolastica, e del ruolo degli insegnanti, sia la stessa che attraversa da decenni la figura del padre. Non è un caso che proprio sulla scuola e la pedagogia convergono buona parte delle paure degli anti-gender, se consideriamo la relazione suggerita da Recalcati:

la scuola funziona come una Scuola-Edipo, l’insegnante si trova nel posto dell’autorità ed è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo quindi in quanto figlio, «dev’essere appunto istruito e educato come fosse una cera da plasmare» (Recalcati, 2015: 20).

Il Bambino-Telemaco è un dispositivo narrativo per riposizionare nel castello sociale lo schema semplice dell’autorità, è invocato come un essere afasico che non può parlare se non per mezzo della logopedia del potere genitoriale.

Da una parte, c’è un’intensificazione propriamente paternalistica che invoca la restaurazione della evaporata “legge del padre”, per salvare i Bambini-Telemaco dall’incandescenza perversa della spinta pulsionale e dalla svirilizzazione, risultato della deregolazione neoliberista del desiderio di godere. Dall’altra, mostra l’urgenza di prendere sul serio la “macchina mitologica” che si sta riavvitando intorno al mito del “gender”, evitando di lasciarla in pasto al ritorno di un ordine morale “fuori discussione”, che fa leva sulla dimensione familiare autoritaria della cultura borghese e sulla polizia (anche pulizia) del pensiero. Del resto, in una intervista a Radio Vaticana, il cardinale Bagnasco ha puntualizzato la necessità, da parte della cultura cattolica, di contrastare il «pensiero unico dell’antropologia occidentalista» che ormai ruota intorno «alla cosiddetta teoria del gender», e di difendere i genitori, e il loro diritto ad impartire una educazione religiosa, dalla violenza autoritaria delle istituzioni.

FOTO 3Interessante evidenziare la strettissima risonanza con gli slogan di alcuni intransigender come Diego Fusaro, esempio di quella visione nazionalpopolare di facile consumo mediatico che tiene in conto di arringare i “semplici” con discorsi semplici, per cui tutto è scialacquato e servito in una pappa omogeneizzata dove annegano la cultura e la coscienza critica. La neanche troppo leggera vena destrorsa della considerazione dei “semplici” mette in luce la vicinanza con la più deleteria pedagogia neoliberista, che sfrutta le passioni e gli elementi irrazionali per prepararne lo sfruttamento. Forse il riferimento rischia di nobilitare troppo le cose, ma trattandole come senso comune, in pratica come sguardo addestrato sul mercato, riporto un passaggio fulminante delle Meditazioni della vita offesa di Theodor Adorno:

Nulla si addice meno all’intellettuale che vorrebbe esercitare ciò che un tempo si chiamava filosofia, che dar prova, nella discussione, e perfino – oserei dire – nelle argomentazioni, della volontà di aver ragione. La volontà di aver ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere. […] Qualcosa di questa ingenuità traspare dovunque la filosofia fa proprio, sia pure impercettibilmente, il gesto della persuasione (1994: 73).

Il potere magnetico di suggestione che certe visioni a buon mercato esercitano sugli uomini, nonostante la loro inverosimile caricatura delle cose, trova una spiegazione nel fatto che siamo entrati in una fase in cui la libera franchigia priva di censure dei sistemi di comunicazione mainstream, hanno reso il falso un momento del vero, ed ogni falso sentimento produce la certezza assoluta di conoscerne l’oggetto. Il che ci ricorda che tutti i problemi legati alla ricerca di questo oggetto sono problemi di potere.

È una questione di dimensioni, di trasformazioni e di allusioni. Certo crediamo ancora nei persuasori occulti, ma l’occulto persuasivo si è incarnato nei nostri copri, decretando il declino dell’evidenza logica. Ecco perchè questa storia del “gender” mi ha fatto venire in mente un libro straordinario, un racconto fantastico a più dimensioni. Flatlandia di Edwin Abbott (2006) illustra un mondo a due dimensioni, abitato da figure totalmente piatte, i cui movimenti rivelano la natura della loro commedia sociale.

foto 4Le donne sono semplici segmenti aguzzi, costretti ad oscillare per rendersi visibili. Poligonali sono esclusivamente i maschi, distribuiti gerarchicamente in base agli angoli e al numero di lati: dai Pentagoni gentiluomini agli infimi Isosceli. Evidente e didascalica la satira della società classista e sessista, ma l’aspetto più interessante è la tensione tra geometria e storia, tra corpi e tempo. Lo spazio dei flatlandesi è un linguaggio, e un linguaggio è un “come se”, funziona come una legislazione ipotetica. Ad un certo momento la quiete di questo luogo bidimensionale viene sconvolto dall’arrivo della Sfera, la rivelazione della terza dimensione. L’evento centrale è questo, l’impossibilità della modalità predefinita di immaginare un altro mondo, come se il primo comandamento fosse « non avrai altro mondo all’infuori di me ». Che equivale all’impossibilità di immaginare il futuro. Da qui lo shock: il Quadrato tenta di uccidere la Sfera, la vuole consegnare alla giustizia assoluta perchè lo spazio dell’identificazione è il luogo della tautologia, non c’è luogo logico per l’altro se non a costo della mia sparizione o della mia follia. Ecco dunque l’altro evento sotteso, eccitare una generazione di ribelli del mondo a due dimensioni: «Questa è la follia o l’inferno!» – «Nessuno dei due»  rispose calma la voce della Sfera. «Questo è il Sapere; sono le Tre Dimensioni: riapri l’occhio e cerca di guardare per un po’» (Abbott, 2006: 125).

I motivi dell’accusa e della nascita di una immagine inquisitoriale del “gender” somigliano molto alla paura della Sfera. Funzionano perchè poggiano su una situazione di fondo che non è mutata, nonostante la pelle del mondo ci sembri diversa da quella di qualche secolo fa sulla natura del bene e del male, della libertà e dell’alterità. Ciò che non è cambiato è la cornice giuridica e normativa propria della visione liberale dell’ontologia umana, nonostante i numerosi colpi inferti ne abbiano mandato in frantumi l’idolo (Butler, 2004: 45). Come si può pensare l’altra dimensione che cade fuori dalla nostra tautologia? Come comprendere questo “altro” che è espressione di un mondo possibile?

Questo illusionismo prospettico, calato nella prassi, può essere letto anche in una parte del “gay sapere” che non è riuscita ad evitare di istituzionalizzarsi a due dimensioni per rendersi socialmente intelligibile. La conversione delle amministrazioni governative al discorso LGBTQI, il suo riutilizzo strumentale in tutte le agende politicamente corrette, segna un versante che è stato sussunto dal capitalismo e sta servendo involontariamente a reidratarne l’impulso sulla vita. Quello che si perde in questo spostamento, per effetto dell’aspirazione normativa, è il luogo del possibile di fronte a ciò che si tramuta in egemonia e depotenzia tutti gli effetti di cambiamento. Bisogna guardare a ciò che il “gender” lascia fuggire dall’apparato di cattura, lontano dalle mode accademiche e dalle manipolazioni ideologiche, guardare a questa struttura del possibile, la Sfera brulicante di altri. E se altri è un mondo possibile, un futuro, Io sono un mondo passato.

Ecco perchè i discorsi sui valori morali mascherano il vuoto di una politica sociale concreta, capace di mettere il sassolino negli ingranaggi del riconoscimento. È l’assenza di un immaginario sensibile a stabilire nuovi tipi di legame con l’altro che non siano incastrati tra le pareti della flatlandia borghese, è «braccare le più infime tracce di fascismo presenti nel corpo» (Foucault, 2012). La normalità è un desiderio acefalo, perchè il potere è prima di tutto una dimensione dell’interiorità che gioca col desiderio di sopravvivenza (Butler, 2004). In una rivoluzione radicale, le persone non solo realizzano i propri sogni, ma devono imparare a sognare nuovamente nella contingenza illimitata, devono reinventare il proprio modo di immaginare, devono eccitare le visioni sferiche contro i deliri poligonali. Restituire la vita alla politica significa smettere che la vita privata ci accompagni come una clandestina, ma pensare che anche nel nostro modo di amare, desiderare, sentire, patire, morire si trova una condizione del nostro modo di immaginare la politica.

Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
1 Per una analisi più articolata di questi aspetti si rinvia all’articolo pubblicato in questo numero di Dialoghi Mediterrani di Tommaso Guariento su Salvini e il nicodemismo.
2 Il testo è consultabile all’indirizzo http://www.lacrocequotidiano.it/articolo/2015/06/22/storie/nel-cielo-apparve-un-segno
3 Si veda il saggio di Lorenzo Bernini (2014) nel quale è ben chiarita la genesi dell’espressione “teoria/ideologia del gender”, coniata agli inizi del 2000 dal Pontificio Consiglio per la Famiglia e dibattuta dai Padri Sinodali, e che in un decennio ha avuto larghissima fortuna editoriale soprattutto in Francia e in Italia.
Riferimenti bibliografici
Abbott, E.A. (2006), Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Milano: Adelphi.
Adorno, T.W. (1994, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino: Einaudi.
Bernini, L. (2014), “Uno spettro s’aggira per l’Europa… Sugli usi e gli abusi del concetto di gender”, Cambio, IV/8: 81-90.
Butler, J. (2004), Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Roma: Meltemi.
Foucault, M. (2012), Introduzione alla vita non fascista, Maldoror Press.
Jesi, F. (2011), Cultura di destra, Roma: Nottetempo.
Recalcati, M. (2015),  L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino: Einaudi.
Žižek, S. (2010), Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Milano: Ponte alle Grazie.

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Valentina Rametta, dottoranda di ricerca in Studi culturali europei all’Università di Palermo, si occupa di Visual Studies e Antropologia culturale. Attualmente sta lavorando a un progetto di ricerca sul rapporto tra immaginario della fine nell’Antropocene, crisi dell’ontologia e rappresentazione della preistoria in rete. Ha pubblicato saggi e recensioni su riviste scientifiche e atti di convegni.

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