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“Imago mundi”. Città, propiziazione territoriale, mondo popolare, tempo festivo

Palazzolo Acreide, Festa di San Sebastiano (ph. Carla Sigona)

Palazzolo Acreide, Festa di San Sebastiano (ph. Carla Sigona)

di Luigi Lombardo 

«Lo spazio e il tempo sono fra le prime e fondamentali discrezioni sull’unicum-continuum della realtà, operate dall’uomo per organizzare il suo universo esistenziale: lo spazio inteso come permanenza, il tempo come mutamento» [1]. Queste parole di Buttitta, delle quali in un modo o nell’altro ciascuno di noi è intriso e plasmato, rendono benissimo ogni discorso che tratti i miti, i simboli, le azioni rituali di comunità piccole e grandi. Esse ci orientano e ci aiutano a districarci nel caotico contemporaneo, dove riti e feste, usi e tradizioni appaiono realtà magmatiche, spesso stranianti per studiosi, forgiati “al buon tempo passato” (se è mai esistito), quando tutto appariva prospetticamente delineato, quasi “confezionato” per l’analisi etnografica, che scorreva apparentemente fluida, quasi che immaginario (dell’etnografo) e vissuto (la realtà) si fossero magicamente “accordati”. Così nei fatti non era come non è oggi. Certo, avevamo strumenti di analisi nuovi e cogenti rispetto alla realtà da analizzare. Così fu grazie alle nuove metodologie di analisi del mondo popolare e delle motivazioni che tenevano insieme reale e immaginario.

Tutti ripetevamo, e ripetiamo ancora oggi dinnanzi alla complessità dei fenomeni di cui di volta in volta ci occupiamo, che «l’essere nel mondo e per il mondo» dell’uomo (l’anthropos) si è esplicato attraverso quegli apparati simbolici, segnici, culturali messi in campo per domesticare lo spazio e dominare il tempo. Il continuum spazio-temporale (la natura), pertinenza dell’homo biologico, è stato piegato alle categorie mentali del discretum culturale, pertinenza dell’anthropos.

Lo spazio, per essere pienamente (e degnamente) vissuto e dominato, deve essere, però, continuamente (ri)consacrato, così come il tempo, per essere vissuto (e accettato), deve essere ritualizzato: sacralizzazione degli spazi e ritualizzazione del tempo consentono il superamento delle crisi di presenza connesse alla sensazione (congenita) di ostilità degli spazi e di annichilimento nel tempo (il tempus fugit). «Il processo di domesticazione dello spazio coincide così […] con la rifondazione del tempo, e la vita della comunità [può] dispiegarsi in uno spazio protetto e in un tempo liturgicamente calendarializzato»[2].

Questo imprescindibile bisogno di domesticare lo spazio e dominare il tempo ha spinto in modo decisivo sulla nascita della civiltà umana, in quanto questa è stata attraversata «fin dal suo nascere dalla perenne angoscia dell’eclisse individuale e collettiva»[3], cui consegue un immane sforzo di ricostituzione sul piano simbolico e naturalmente sociale.

Sono dinamiche che investono le nostre comunità e i nostri centri abitati. Come Palazzolo, il mio paese, dove non a caso ha operato A. Uccello, col suo immane e struggente tentativo di salvare il salvabile della civiltà contadina, innestando un percorso “memoriale”, che si è concretizzato nella Casa Museo, oggi Museo Regionale. Se è vero che spazio dominato e tempo calendarializzato sostanziano, attraverso i segni, la memoria [4], dobbiamo dire che il centro ibleo, dove si è materializzato il progetto utopistico dello studioso, è paese, luogo per eccellenza della memoria, ma solo in quanto spazio in cui, per fatti certo non casuali, si è “stanzializzato” quello che era stato un museo “errante” tra la Sicilia e la Brianza. E a Palazzolo mi riferirò in questo saggetto di fine estate, non tanto perché è il mio paese, quanto perché attraversato da quella folata di cultura e impegno civile che fu l’opera dell’etnografo Uccello (era anche un grande poeta). 

Il Mundus nell'antica Roma

Il Mundus nell’antica Roma

Lo spazio

Secondo una leggenda popolare, raccolta a Palazzolo, il capomastro che nel centro urbano, in pieno Corso, edificò il palazzo De Grandis (poi Pizzo) seppellì, in un punto imprecisato al centro dello stesso, due onze d’oro. Il gesto, che naturalmente sa di rituale che oggi diciamo di fondazione, ancora oggi viene ripetuto (sempre più raramente per la verità) da molti mastri muratori nel momento di gettare i solai delle case in costruzione: gettano nel cemento armato, non più “marenghi” d’oro, ma semplici monete di corso corrente [5].

Un tempo erano soprattutto i nuovi ponti a scatenare queste curiose pratiche magiche: sotto molti ponti antichi sono stati spesso trovati, avvolti in panni o sigillati in mattoni, oggetti in ferro o a volte delle statuette in posizione supina. Quest’ultimo caso rinvia ad una credenza, diffusa tra i popoli dell’Europa Nord Orientale, secondo cui per edificare una casa o un ponte o altra opera di complessa struttura, era necessario sacrificare la moglie del capomastro: il sangue della vittima sacrificale propiziava la sana crescita della città e al contempo placava le oscure forze telluriche violentate, irrorando il terreno violato e infondendo in esso la forza e la vita del sangue sacrificale. La statuetta sostituì il corpo reale dell’incolpevole donna.

Il solco leggendario dell'antica Roma

Il solco leggendario dell’antica Roma

Per scendere ancora più a fondo nel rituale propiziatorio di cui sto parlando, nel caso della fondazione di una città, atto di per sé complesso e delicato, era richiesta una serie di operazioni di tipo magico propiziatorio, che solo certi personaggi potevano eseguire. Presso i Romani, la fondazione di una città, come l’edificazione di una casa, o di un ponte, era preceduta da un rito fondante: si tracciava sul terreno, scelto sulla base di alcuni criteri geomorfologici e soprattutto astrali, un solco a forma di cerchio o di quadrato, chiamato mundus, dove venivano ben individuati un centro e, nel caso del quadrato, i quattro punti cardinali. Il cerchio o il quadrato, muniti di mura (palizzate in legno poi muratura) erano non solo una difesa militare, ma anche un limite magico sacrale, considerato invalicabile da chiunque. Tale forza derivava anche dall’essere la città così fondata immagine del cosmos celeste: l’uomo, così agendo adatta il proprio habitat al prototipo perfetto spaziale e cosmico: la città è perciò Imago Mundi.

Ancora oggi, nei paesi meridionali e nei piccoli centri in particolare, troviamo erette ai quattro punti cardinali del centro urbano delle edicole votive con croci o nicchie: spesso coincidenti con gli ingressi del paese. Anche i Romani, come i Greci segnavano gli spazi cardinali collocandovi le statue dei cosiddetti “Dei termini”. Non solo l’edificazione di una abitazione o di una città, ma anche il permanente possesso di un territorio urbanizzato richiedeva dei particolari riti cui si associavano determinate azioni magico-propiziatorie: l’insieme di questi rituali, presenti ancora e attivi nella cultura popolare moderna, dichiarano la “proprietà” del gruppo sullo spazio scelto e contemporaneamente, con opportune azioni propiziatorie, lo liberano da presenze malefiche sempre in agguato.

Questi riti periodici sono particolarmente presenti nella cultura delle classi “subalterne” (ceti popolari rurali ed urbani), con una presenza più rilevante nei centri contadini, e riconducono alla visione e alla ideologia dello spazio propri di livelli conservativi, “diversi”, delle società, ancora rilevabili, nonostante i grandi ed epocali cambiamenti in atto. Secondo tale ideologia “spaziale”, l’habitat, esterno o interno al centro urbano, è sempre esposto al pericolo, luogo dove la presenza individuale può smarrirsi [6].

A ben guardare, certo, tale ideologia è conseguenziale a uno stato di precarietà materiale e dunque psicologica, che richiama periodicamente azioni rassicuranti e scatena comportamenti individuali e collettivi (presenti nelle subculture urbane) al limite spesso del patologico. Sorprende, ma fino ad un certo punto, che molti riti processionali hanno, in questi ultimi tempi, ripreso vigore, e i reels su internet, che ho potuto visionare in abbondanza, ci (ri)propongono riti che sembravano ormai obsoleti: i gigli di Nola, ad esempio, un misto di religiosità e agonismo collettivo, ma anche riti più caratterizzati nel senso dell’agonismo e della competizione. Sorprendono, e in certo senso straniano, la ripresa vigorosa di processioni come quelle dei fuienti, dei “battenti” o degli spinati; le sofferenti spalle dei portatori dei santi di Palazzolo, o i tiratori della vara della madonna di Messina, come di tutte le macchine trionfali del Sud Italia (Nola, Terlizzi, Sassari con i “candelieri” danzanti: giusto per far qualche nome ma l’elenco è lungo).

Randazzo, Vara del santo (ph. Luigi Lombardo)

Randazzo, Vara del santo (ph. Luigi Lombardo)

Tutti i riti processionali, vecchi (di tradizione) e nuovi (di riproposta), all’interno dei moderni centri urbani hanno fondamentalmente la funzione di rifondare sul piano mitico-sacrale un presunto originario stato di possesso e assoluta conoscenza del territorio, possesso che nello sviluppo storico è venuto meno, per una colpa che si perde nel mito, da cui discende la necessità di un recupero, naturalmente sul mero piano simbolico, di tale stato edenico e la conseguenziale difesa magico religiosa di tale possesso contro diversi influssi ed efflussi malefici. É questa una delle funzioni assolte dalle processioni legate alla liturgia cristiana (Pasqua, Ascensione, Rogazioni, Feste patronali), ma anche dall’insieme dei simboli inseriti in molte architetture specie popolari, come i mascheroni delle facciate, in particolari i cagnoli (mensole) delle balconate, le corna, le grattugie, i ferri di cavallo e, al culmine dei tetti, vasi di fiori, banderuole (palieddi) a forma di angeli o di animali, le croci, tutti elementi con la chiara funzione apotropaica di proteggere la casa dagli assalti del malocchio, degli spiriti dell’aria o di terra [7], e non ultimi dai malintenzionati (oggi si preferiscono gli allarmi che spesso ci ossessionano).

Lo spazio magicamente protetto fonda così lo spazio reale, storico, del vivere quotidiano, in una stretta interdipendenza fra strutture architettoniche e urbanistiche, modi, luoghi e fasi della produzione, sistemi simbolici. L’organizzazione territoriale, i modi del generarsi e vivere lo spazio urbano hanno a fondamento le culture storicamente determinatesi in quel determinato luogo, i complessi rapporti sociali tra le classi, le produzioni simboliche connesse.

Se analizziamo, per citare solo un esempio a me più vicino, l’attuale assetto di Palazzolo (SR), ad esempio, la sua morfologia abitativa e la configurazione urbanistica sono il risultato di un insieme di fattori, in cui il dato e il ruolo svolto dalle diverse vicende religiose e culturali della comunità [8] giocano un ruolo importante, insieme agli altri fattori di natura storica, geografica, economica ecc. Diventa importante perciò lo studio della cultura popolare, attraverso l’analisi delle diverse sedimentazioni culturali riscontrabili ancora oggi: un esempio sono i vecchi toponimi delle città designanti quartieri, contrade, rioni, taluni presenti ancora nella toponomastica, e in particolare quelli antecedenti la risistemazione delle città in periodo Sette-Ottocentesco e Post-Risorgimentale. 

Palazzolo Acreide, Festa di San Sebastiano (ph. Carla Sigona)

Palazzolo Acreide, Festa di San Sebastiano (ph. Carla Sigona)

Antichi toponimi

Dare nome ai luoghi è un modo di ripetere in piccolo l’atto della creazione, diffondendo sul caos il logos della parola: nomare è dominare, domesticare. La toponomastica ne è la concretizzazione. Ci ricorda il Malinowski: «Per vivere l’uomo altera continuamente l’ambiente circostante. In tutti i punti di contatto con il mondo esterno egli crea un ambiente artificiale secondario» [9]. L’ambiente artificiale è quello determinato dalle dinamiche culturali, dal lavoro umano e dalla fitta rete di segni lasciati sul territorio. La presenza dell’uomo sedimentata nei segni è sempre presenza di un certo uomo: in quanto homo laborans, la cifra della sua esistenza è il lavoro come risposta organizzata alle esigenze di sopravvivenza dei gruppi umani.

Nel complesso tentativo di conferire domesticità allo spazio rientrano, come detto, i moderni riti processionali dove si conservano i segni più evidenti della religiosità popolare. Attraverso le processioni, oggi più che mai attuali nei centri urbani piccoli e grandi, si instaura un rapporto fra città, con il suo spazio vissuto, e comunità. Tale rapporto nelle società più tradizionali o nelle comunità di quartiere, è intriso di elementi magico-religiosi. Lo stesso percorso processionale e comportamento collettivo che ha lo scopo, ieri come oggi, di garantire il singolo e l’intera collettività, alla stregua di ogni altro oggetto magico: l’itinerario per strade, vicoli, cortili, più che ad esigenze spettacolari, risponde a fini di propiziazione, ad un più generale progetto di rifondazione territoriale. Come scrive in modo esemplare M. Eliade [10]: 

«Le società arcaiche e tradizionali arcaiche e tradizionali concepiscono il mondo come microcosmo […]. Da una parte c’è lo spazio cosmicizzato, in quanto abitato e organizzato, dall’altra, all’esterno di questo spazio familiare, si stende la regione sconosciuta e terribile dei demoni, delle larve, dei morti, degli stranieri: in una parola il caos». 
Capizzi, Festa di San Giacomo (ph. Luigi Lombardo)

Capizzi, Festa di San Giacomo (ph. Luigi Lombardo)

In occasione di catastrofi e calamità naturali la processione con la statua del santo patrono o protettore ha lo scopo di reintegrare lo spazio sconvolto, riconsacrandolo. Le processioni annuali del santo (o santa) patrono/a ripetono in ultima analisi un rito di (ri)fondazione di antica istituzione, per cui si percorre in circolo (in genere) la città o il paese, rifacendo l’andamento delle antiche mura, come a volerli riconsacrare tracciando l’originario cerchio o quadrato magico, ripetizione di una serie di gesti e azioni esemplari, compiuto già in illo tempore.

L’insieme dei riti processionali, che oggi sono in crescita esponenziale, attingono alla cultura popolare, alla sedimentata traditio comunitaria, alla memoria mai sopita, e, in quanto riti di propiziazione territoriale, stendono, ripeto oggi più che mai, un velo di protezione non solo sulla città e la casa, ma anche sull’io, sul singolo soggetto, lo reinseriscono nel corpo della comunità, al fine di non smarrire le coordinate spazio-temporali, base delle attività ergonomiche, quell’hic et nunc senza cui ogni civiltà sarebbe destinata ad assopirsi. 

Il Tempo 

«Il dominio del tempo è tema storico ed esistenziale che intride e attraversa le culture di tutte le società umane. La realtà magmatica e sfuggente identificata nel flusso casuale e ininterrotto degli eventi si piega alla varietà delle forme di organizzazione e di articolazione che gli uomini hanno elaborato allo scopo di domesticare l’universo in cui vivono» [11].
Palazzolo Acreide, Festa di san Sebastiano (ph. Giardina)

Palazzolo Acreide, Festa di san Sebastiano (ph. Michele Giardina)

 

Le feste sono la forma più eclatante di questo tentativo di risposta alla elementare e primordiale esigenza di comunità di tipo tradizionale, anche moderne, a volte, ma solo apparentemente, destrutturate di “dominio del tempo”, freno culturale al tempus fugit. Secondo questa visione “ottimistica” tutto ritorna nel cerchio dell’eterno riapparire delle cose e degli eventi. La persistenza del rito festivo non è facilmente spiegabile e spesso sorprende quanti vedono il succedersi inesorabile delle cose e degli eventi. Non è facile spiegare tale persistenza dal momento che le ragioni sono diverse. Ma, alla fine, non è difficile, procedendo ad attente osservazioni, riscontrarvi, anche se spesso in forma flebile e sfumata, l’esigenza di una società complessa che nel periodico ritorno festivo si ritrova nel perpetuo e continuo rinnovarsi del mondo, in quella renovatio temporum in grado di allontanare la percezione, comunque cogente, della “fine del mondo”: rinnovamento inteso come ritorno al tempo delle origini, rifondazione di un ciclo vitale, altrimenti destinato ad esaurirsi nello spietato alternarsi vita-morte.

Questa renovatio è la premessa del benessere materiale. Per questo le feste sono senz’altro vettori di benessere economico di primaria importanza per tutta la comunità. É il modo con cui i ceti popolari, contadini, operai, gente comune compra, spende, vende, si organizza, diviene protagonista, scegliendo il programma della festa, preparando gli spettacoli, i fuochi pirotecnici, attraverso la raccolta in paese come nelle campagne, o semplicemente assistendovi. Come è dato ancora oggi osservare, per esempio a mio vicino, nelle quattro feste che segnano il calendario di Palazzolo Acreide, oggetto di studio dal 1971 a oggi, condotto anche con ottimi maestri come Antonino Uccello. Tali feste si reggono sull’apporto di quattro “commissioni” (le confraternite furono sciolte nel lontano 1828 per liti e altro), formate da laici, soprattutto giovani, diretti dal parroco pro tempore. Esse raccolgono i soldi fra la gente, anche con la questua porta a porta, per investirli in spettacoli, apparati luminosi sempre più mirabolanti, che possono sembrare eccessi spettacolari, ma che nascondono antiche modalità di vivere il tempo della festa.

Palazzolo Acreide, Festa di san Sebastiano (ph. Giardina)

Palazzolo Acreide, Festa di san Sebastiano (ph. Michele Giardina)

Nulla di strano vi è in tutto questo: la festa è sempre stata, nelle comunità tradizionali, spreco, in certo senso paradosso sociale ed economico, poiché è proprio il senso della pienezza e dell’eccesso che allontana il quotidiano disagio economico (sempre comunque ritornante). Si tratta dunque di un comportamento collettivo all’insegna dell’esaltazione e dell’evasione, del consumo e dell’eccesso. La non-norma festiva, l’eccesso, che porta con sé la sospensione dei normali ritmi di vita, produce quella particolare atmosfera festiva, con i suoi archi di luce, fantasiose e fantasmagoriche architettoniche, i rumori, i suoni, le gridate, persino gli odori, tutto questo concorre a determinare la sospensione dei comportamenti ordinari: si indossa per un mese la divisa costituita da una maglietta, si staziona davanti alla chiesa, pronti a eseguire qualche commissione richiesta dal “Comitato”: insomma è come entrare per restarci (almeno il tempo della festa) «in un mondo miticamente e realmente ricreato» (Lanternari), il tempo della festa, appunto, il tempo dello star bene, dello star comunque meglio, dello stare insieme, spesso a “tutti i costi”.

Tale stato di benessere, che si spande oltre la sfera dei componenti (circa 100 per ogni festa), è premessa al vivere quotidiano, poiché da questo bagno nella sfera del mito “praticato”, periodicamente richiamato attraverso il rito, la comunità rinvigorisce forze fisiche (paradossalmente provate dalla fatica) e psichiche (lo star bene con gli altri compagni). Lo stato di precarietà economica (un tempo era la più concreta delle minacce: la carestia), endemica nella società industrializzata contemporanea, induce, accrescendone il peso, richieste di intervento del santo/a gravitanti nella sfera della salute e del lavoro: un parto facile, un fidanzamento fruttuoso, una promozione a scuola e nel lavoro, ma anche cose attinenti ad altro versante della vita del singolo (la sfera amorosa soprattutto da parte delle mogli).

Palazzolo Acreide, Fuochi della festa di san Paolo

Palazzolo Acreide, Fuochi della festa di san Paolo (ph. Luigi lombardo)

Ne deriva spesso una certa “banalizzazione” nelle varie motivazioni che stanno alla base delle manifestazioni festive odierne: la comunità non vivendo più il tempo dell’eterno ritorno, ne avverte lo svolgimento rettilineo e usurante. Abbandonata la cultura del succedersi ciclico delle stagioni, ha trasformato la festa in un happening da stadio, da partita di calcio. E nonostante questo, vi permane sempre quella partecipazione intesa come strappo del tempo, dell’abitudinario, della sintassi del quotidiano. Si avverte in ogni festa di oggi qualcosa che riporta indietro il tempo. E questo conferisce tratti di immortalità ai gesti e alle pratiche nuove messe in campo ppi-ffari festa: gli spettacoli pirotecnici ne sono la manifestazione più clamorosa. Essi, svolgendosi ed evolvendo dai tradizionali “fuochi artificiali”, sono l’aspetto più clamoroso ed eclatante della festa moderna, fragoroso quanto luminoso, concludono i festeggiamenti festivi in tutti i contesti geografici, terrorizzano con i violentissimi botti, magicamente aprono i cieli alla luminescenza artificiale, che sfida il buio delle tenebre della vita stessa: e non è poco!

Certo ritornano le parole di Gesualdo Bufalino a proposito della festa moderna (e scriveva 40 anni addietro): «la festa come happening, enorme e collettivo, straripante di colori, odori sapori, rumori, rossori, occhiate di fuoco, strilli di neonati, balconi infiorati»[12]. La festa incredibilmente continua anzi si incrementa in questi straripanti effetti spettacolari, anche se il popolo ne è sempre più spettatore e meno attore partecipante o semplicemente figurante. Del grande fuoco della religio rusticorum è rimasto un fumo odoroso, ammaliante, rutilante: che è la nuova festa, che si tramanda in aeternum. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note
[1] A. Buttitta, La vita recitata. Una storia di Carnevale, Palermo, Sellerio: 17.
[2] L. M. Lombardi Satriani, La casa dell’uomo: sacrificio, fondazione, memorie, in «Calabria», a cura di F. Faeta, Bari, Laterza, 1984: 177.
[3] A. Buttitta, Il Natale. Arte e tradizione in Sicilia, Palermo, Edizioni Guida, 1985: 13.
[4] I concetti di spazio e di tempo hanno trovato largo spazio anche come voci specifiche di diverse opere di divulgazione come la Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1977, s. v.
[5] A Pachino (SR) ho raccolto un interessante racconto relativo alla costruzione del palmento della masseria Burgio: vi si narra che il capomastro, per rimorso di aver costruito una struttura il cui cantiere era costato la vita a tanti operai, si impiccò a una trave maestra del palmento: in questo caso il significato del versamento di sangue e di sacrificio umano, seppur volontario, ci riconduce alle leggende di fondazione (di cui nel testo), al sacrificio umano necessario alla riuscita dell’immane opera. In questo caso assistiamo ad una evoluzione della leggenda: la violenza si esercita non sulla natura ma sul lavoro altrui!
[6] Sui concetti di presenza e di perdita si veda il fondamentale E. De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1959.
[7] Sull’argomento cfr. E. Guidoni, L’architettura popolare italiana, Bari, Laterza, 1980.
[8] Sull’analisi del concetto di cultura si veda, C. Kluckhon, A. L. Kroeber, Il concetto di cultura, Bologna, Il Mulino, 1972. Naturalmente trascuro volutamente tutta la bibliografia, immensa, sull’argomento (fin troppo nota).
[9] B. Malinowski, Cultura, sta in «Il concetto di cultura: i fondamenti teorici della scienza antropologica», a cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1970: 135.  
[10] M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri, 1976: 127.
[11] A. Cusumano, Elogio della memoria, in L. Lombardo, La provincia di Siracusa e le sue tradizioni popolari, Siracusa, Zangarastampa, 1996: 5.
[12] G. Bufalino, Opere. 1981-1988, Milano, Bompiani: 1248.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (230023).

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