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Il museo come dialogo agentivo di saperi

Museo degli Uffizi, Firenze

Museo degli Uffizi, Firenze

 di Concetta Garofalo

Il lessema museo è semanticamente ricco di rimandi ai diversi ambiti delle scienze umane, nonostante la normativa vigente in materia di tutela dei beni culturali sia precisa e concisa: si definisce «“museo”, una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio» (D. L. 42/04, art. 101, comm. 3-4). Emerge da questa definizione una nozione di museo come “luogo” agentivo di incontro fra pubblico e privato, individuale e collettivo. Gli organismi istituzionali definiscono in definitiva se stessi sotto forma di azioni di cui sono operatori pubblici. E nella “dimensione pubblica”, infatti, si stipulano intese, si attuano accordi di rete, si progettano piani strategici, si individuano obiettivi comuni fra istituzioni, strutture e infrastrutture. Le attività di progettazione logistica delle risorse (e degli spazi) e le pratiche di fruizione agiscono da mediatori tra la dimensione pubblica e privata. In tutto il testo legislativo ricorrono i termini-chiave di tutela, valorizzazione, conservazione, fruizione, conoscenza e sviluppo di cultura: tutti processi e azioni variamente in relazione tra loro. Infatti, la fruizione è la fase nella quale si realizzano, in termini fattuali, la ricezione e la partecipazione; fra la tutela e il fine della fruizione (D. L. 42/04, art. 3) intercorrono una serie di azioni come individuare, garantire, proteggere, conservare; fra la valorizzazione e lo sviluppo di cultura (D. L. 42/04, art. 6) concorrono le azioni di promuovere conoscenza e predisporre le migliori condizioni di fruizione, e attraverso questa si perviene allo sviluppo della cultura. Da una parte, ci sono dunque i beni culturali con i quali gli enti instaurano un rapporto di tutela, protezione e conservazione e, dall’altra, i “fruitori”.

Il museo, quindi, si presenta ai soggetti fruitori come luogo di prestazione di servizi (D. L. 42/04, art. 117), di studio e di ricerca (D. L. 42/04, art. 118), di «diffusione della conoscenza del patrimonio culturale» (D. L. 42/04, art. 119). Il termine museo indica, correlativamente alla sua concettualizzazione agentiva, un’entità fisica con uno spazio attrezzato, progettato e gestito in riferimento ai testi normativi e un sistema di “percorsi” – orientati all’osservazione, alla descrizione, alla conduzione delle dinamiche relazionali, interne ed esterne all’istituzione – che si traducono in evento esperienziale (individuale e collettivo). I testi legislativi fungono da carta d’identità di un ente e assumono un carattere contrattuale fra soggetti. Ma come e quando avviene il passaggio dalla dimensione conservativa alla dimensione di pubblica esposizione dei beni culturali e alla produzione collettiva di cultura?

Il passaggio al quale mi riferisco si configura nel processo di trasformazione significativa di un sistema di conoscenze acquisite a livello soggettivo, individuale e collettivo, in maniera più o meno consapevole e più o meno intenzionalmente orientata. Il mio contributo prende in conto esclusivamente gli aspetti relativi alla fruizione di spazi museali in contesti culturali occidentali, considerati “zone di contatto” a diversi livelli discorsivi di descrizione e rappresentazione. Per fare ciò prendo spunto da un testo miliare di Lotman:

Immaginiamo la sala di un museo nella quale siano esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, iscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni per la decifrazione, un testo esplicativo redatto dagli organizzatori, gli schemi di itinerari per la visita della mostra, le regole di comportamento per i visitatori. Se vi collochiamo anche i visitatori con i loro mondi semiotici, avremo qualcosa che ricorda il quadro della semiosfera (Lotman, 1985: 64).

Questo frammento di testo mi serve come punto di partenza per mettere in evidenza alcune dinamiche di fruizione di un museo, focalizzando la questione su specifici concetti-chiave in una prospettiva semiotica. Sulla falsariga di Lotman, considero lo spazio museale come una semiosfera in sé che è, allo stesso tempo, confine e traduzione fra semiosfere diverse: al proprio interno semiosfere specifiche traducono usi e funzioni, significati e significanti.

J.  Lotman

J. Lotman

Nel lessema museo convergono differenti sfaccettature, differenti valenze simboliche e funzionali. L’ente inteso come soggetto garante collettivo, l’edificio dotato di propria storicità, la funzione contenitore, gli spazi fisicamente attrezzati (aperti o chiusi), la collezione di reperti (cioè la componente più propriamente oggettuale), l’esposizione (sistema complesso di morfologia e sintassi), la fruizione (l’azione di ricezione). Si tratta di un sistema integrato volto alla comunicazione, in cui, per dirla alla maniera di Jakobson, la funzione del testo e del contesto convivono parallelamente.

In tali testi e contesti logistici, i soggetti sono elementi dinamici nel tempo e nello spazio, in movimento e in azione, secondo funzioni e ruoli specifici (Hammad, 2003: 12-13). Invece, i cosiddetti beni culturali sono elementi statici nello spazio (nel tempo è un altro discorso!), la loro è azione “funzionale” alla tipologia di esposizione in virtù della loro natura, origine, uso e ri-uso in epoche storiche, sociali e culturali. Più che mera giustapposizione di elementi o loro sostituzione repentina sull’asse diacronico, l’attribuzione di senso è il risultato di una integrazione e divenire costante dei processi di conservazione, tradizione e cambiamento (Lotman, 1985: 88). Si instaura un rapporto dinamico di sinergia pragmatica fra spazio e tempo. Ecco alcuni esempi in climax: luoghi di azione, luoghi di uso, luoghi di fruizione, luoghi di esposizione/tempi di esposizione, tempi di collezionamento, tempi di fruizione, tempi di uso/ luoghi dei tempi.

L’accesso ai musei, necessariamente regolamentato dalla normativa citata, da un punto di vista soggettivo, funge da attraversamento di frontiere verso spazi strutturati e percorsi progettati nei quali il presente incontra il passato ri-costruito e il passato diviene presente ri-semantizzato. Ogni oggetto è dotato di una sua storia e di un percorso di cambiamento e di risemantizzazione. Visitare un museo significa, allora, fruire di un corpus di sapere coerente in sé assemblato in funzione di un percorso potenzialmente guidato e orientato. Non si tratta però di oggetti “ingessati”, bensì di elementi culturali investiti di un ruolo, di un valore d’uso e del relativo posizionamento in un contesto specifico di stoccaggio delle conoscenze. I beni esposti acquistano visibilità in quanto operatori culturali con funzione di mediatori e facilitatori di conoscenza che concorrono alla fruizione concreta.

Propongo, di conseguenza, di intendere il museo come spazio semiotico nel quale un’unità esterna in relazione con una semiosfera specifica determina la creazione di nuove informazioni (Lotman, 1985: 124). Nel caso specifico, gli oggetti e i reperti provengono da contesti d’uso differenti e, quindi, detto in termini semiotici, da sistemi semiotici differenti e asimmetrici. Essi, all’interno di una collezione, comunicano informazioni nuove rispetto al sistema di significazione d’origine. Inoltre, l’esposizione museale configura un’ulteriore esperienza di ricezione di testi i quali creano significati nuovi nel contatto semiotico con le “personalità semiotiche” dei visitatori. Sta di fatto che il sistema semiotico di origine è quasi sempre la realtà di vita quotidiana che Lotman definisce già come semiosfera complessa e strutturata al suo interno dai diversi livelli di significazione in continuo dialogo tra loro attraverso relazioni di simmetria e asimmetria. Proprio perché esistono asimmetrie, è preferibile però parlare, talvolta, di zona di contatto anziché di dialogo in un museo. Una componente dialogica, pienamente simmetrica, non credo possa essere riscontrata nell’esperienza di fruizione da parte di individui di un sistema collettivo disciplinare. Senza dover assolutizzare il carattere di unilinearità è un dato di fatto che l’esperienza di fruizione di un visitatore di museo non determini cambiamenti nel sistema espositivo (se non a lunga distanza di tempo, in termini utilitaristici di customer satisfaction!).

Sala del Tiziano, Museo del Prado, Madrid

Sala del Tiziano, Museo del Prado, Madrid

L’attuazione complessa di strategie di rappresentazione serve ad ancorare le conoscenze nell’esperienza stessa di movimento automatizzato negli itinerari museali. L’organizzazione organica degli spazi si traduce in percorsi e in schemi comportamentali che orientano la fruizione dei luoghi. Tali schemi gestiscono l’interazione fra corpo e spazi e “inquadrano” l’esperienza sensoriale. Ne è un esempio l’enunciazione dei regolamenti del “non si può fare”: non toccare i reperti esposti ma puoi guardare; non puoi parlare ma puoi ascoltare la guida esperta che trasmette contenuti e tramanda conoscenze. Predisporre percorsi guidati implica l’attivazione e disattivazione di canali sensoriali, di linguaggi verbali e non verbali. In base alle diverse modalità comunicative, si ancorano le conoscenze a diversi sistemi di memorizzazione dell’esperienza. Attraverso tali meccanismi di rappresentazione avviene l’acquisizione di conoscenze a livello soggettivo. Ma è chiaro che, sulla base dei codici linguistici, si fa affidamento alla diversificazione dei sistemi di memorizzazione. La sequenza dei reperti, dei testi esplicativi, di didascalie, schemi e mappe configura un percorso che è al contempo movimento e azione, visivo e testuale.

Il processo di apprendimento è traduzione dal livello sensoriale visto/letto/ascoltato al rappresentato/pensato che costruisce un sistema di conoscenze organizzate in reti di connessione secondo criteri di somiglianza, differenza, ricorsività, informazione. La coerenza delle strutture si fonda sulla complementarietà e sull’indissolubile sinergia fra testi e paratesti, fra i linguaggi verbali e non verbali che svolgono funzione di mediatori e orientano i percorsi soggettivi in relazione agli spazi e ai tempi (inter)azionali, interni ed esterni al soggetto stesso. A livello soggettivo, visitare un museo si traduce in processi di rievocazione e riconoscimento. Il gioco progettato di luci e ombre riflesse sui reperti modella le forme fra figura e sfondo e dona tridimensionalità. La realizzazione degli spazi museali è esito e processo di negoziazione fra arte, storia e cultura, fra approccio storico e approccio estetico. In tal senso gli spazi museali sono contesti di comunicazione e tradizione mediate da strategie di rappresentazione di saperi. Ma nell’esposizione museale qual è il rapporto fra cultura, studio e ricerca e codificazione del sapere in saperi? Possiamo ricorrere nuovamente al concetto di semiosfera di Lotman:

La «chiusura» della semiosfera è rivelata dal fatto che essa non può avere rapporti con testi che le sono estranei da un punto di vista semiotico o con non testi. Perché essi acquistino realtà per la semiosfera, è necessario tradurli in una delle lingue del suo spazio interno o semiotizzare i fatti non semiotici (Lotman, 1985: 59).

Il confine semiotico è un processo di traduzione che rende intelligibile la comunicazione e simbolizzazione della realtà esperita. In tal senso, i linguaggi scientifici e i linguaggi meta-descrittivi si riferiscono a sistemi complessi di studio e ricerca, teorizzazione e conservazione, scoperta e innovazione. Dei metalinguaggi descrittivi, i linguaggi specifici disciplinari sono soltanto alcuni esempi di organizzazione e rappresentazione del sapere codificato. Ogni disciplina ha bisogno di specifiche forme di rappresentazione del proprio corpus di conoscenze e le modalità di rappresentazione sono un processo di traduzione dell’impianto epistemologico in pratiche espositive. Quindi, il museo è luogo di rappresentazione del discorso epistemologico disciplinare. Nella struttura museale, un sistema complesso di una cultura, più o meno locale, più o meno globale, viene filtrato attraverso le reti teoriche delle discipline di studio rispetto alle quali i beni culturali sono rappresentativi di segmenti del sistema culturale stesso. Nella sua complessità, il museo si presenta come un sistema di gestione integrata di tratti culturali. In tal senso, la fruizione non può mai essere considerata un fatto esclusivamente individuale e/o esclusivamente collettivo. Lo spazio organizzato è al tempo stesso testo, cotesto e contesto di comunicazione, nonché denotazione e connotazione.

 Museo Galilei, Firenze

Museo Galilei, Firenze

È in base all’impianto epistemologico di riferimento che viene organizzato lo spazio museale nel suo complesso e le sale e i singoli spazi espositivi sono le articolazioni che ne declinano i messaggi. Gli oggetti di una collezione museale, insieme alla loro collocazione nello spazio espositivo, sono unità minime dotate di senso e il topos che le include intrattiene con ognuna di esse «una relazione di mutua presupposizione» (Hammad, 2003: 186). È a questo livello spaziale che si configurano le dinamiche di ricezione in termini di esperienza individuale, le singole sale costituiscono dei chunk coerenti in se stessi, come dei micro-sistemi disciplinari nei quali si declina l’impianto generale del più complesso sistema disciplinare che sottende l’organizzazione dello spazio museale simbolicamente e semanticamente. I chunk sono unità di informazione rese coerenti da una rete interna di connessioni e rimandi semantici. I criteri di ricezione e ritenzione dei chunk sotto forma di apprendimento e conoscenze non sono, di fatto, esclusivamente individuali interni al soggetto, nel caso del museo, si tratta più che altro di criteri e strategie di associazione contestuali determinati dalla morfologia e dalla sintassi visuo-spaziale dell’esposizione voluta dal curatore. Si realizza in questo modo uno spazio di incontro nel quale si conciliano le esigenze di posizionamento degli elementi nello spazio fisico dal punto di vista estetico, la loro collocazione coerente con il valore d’uso, la rappresentazione del discorso disciplinare e meta-descrittivo, il sistema di percezione e apprendimento del soggetto ricevente. In un certo senso, Hammad affronta la questione nei termini di semiotica sincretica (Hammad, 2003: 14).

Il carattere composito nella disposizione dei reperti della collezione consente al visitatore di ricostruire le storie della storia implicite nel divenire di una cultura. Le storie dei reperti narrano una storia utilizzando i linguaggi e le categorie teoriche del discorso di una disciplina che si somma al contesto storico-sociale e culturale di origine delle collezioni. L’ordine progressivo, simmetrico e ritmico delle forme e delle dimensioni nonché l’avvicendarsi delle tipologie di reperti da una vetrina all’altra assumono la forma testuale della narrazione in riferimento a processi di memoria ricostruttiva e a criteri di codifica collettiva e di decodifica individuale e soggettiva (Clifford, 2008: 164). Con quanto detto, intendo definire il museo, tra le altre cose, anche come luogo di memoria in termini processuali. Un contesto espositivo attiva, infatti, dinamiche sia di memoria episodica sia di memoria semantica: tradizione e testimonianza agiscono sui sistemi di memoria autobiografica e prospettica e la rappresentazione espositiva si traduce in memoria sensoriale, percettiva e procedurale.

Museo di storia naturale, Vienna

Museo di storia naturale, Vienna

A tal proposito (a conclusione di queste brevi considerazioni che, prendendo spunto dalla terminologia codificata e formale dei testi legislativi, cercano di far dialogare semiotica ed etnopragmatica), vorrei fare qualche esempio di esperienza personale, al contempo esemplificazione di un modello possibile di visita al museo. Eccolo di seguito. Capita che una mattina d’inverno un archeologo, un antropologo, uno scrittore e un giornalista visitino un museo etnografico; capita, anche, che l’antropologo visiti un museo di storia naturale e dialoghi con un gruppo di biologi. Proprio in questo caso, negli spazi di un museo di storia naturale, alla fissità delle vetrine degli espositori e alla fissità degli animali-esemplari esposti fa da contrappunto il movimento dei visitatori: adulti (turisti, esperti, docenti, docenti corsisti) e bambini, ragazzi, studenti. I visitatori si muovono con disinvoltura in un luogo preposto a un certo tipo di ordine che incute il rispetto richiesto da un sistema regolamentato. Lo spazio si presenta come luogo di movimento. È nella fruizione degli spazi che si configura un contesto di incontro interindividuale e di dialogo disciplinare. Nel contatto fra approcci disciplinari differenti si risemantizzano antinomie classiche quale ad esempio vita/morte. La biologia studia la vita, classifica gli esseri viventi studiando, in laboratorio, animali morti. L’antropologo, nel tentativo di spiegare la vita e il senso della vita degli esseri viventi, presso il museo di storia naturale vede “morti”, esemplari statici e storicizzati.

È il tempo l’elemento catalizzatore dell’esperienza museale. Il museo come traduzione del tempo personale (il racconto degli studenti di biologia e il ri-uso delle strutture, l’applicazione di tecniche di laboratorio nel divenire del progresso tecnologico) e del tempo collettivo d’ordine ancestrale (l’evoluzione delle specie degli organismi viventi). Il tempo del museo è il tempo della scienza che si traduce nel presente della visita: gli esperti, parlando, indicano gli esemplari esposti enunciando al tempo presente («questi rettili vivono in ambienti …»); ma l’esemplare indicato è un essere vissuto in tempi e luoghi distanti dall’hic et nunc dell’esperienza nel museo. Emerge, cioè, la parte per il tutto e la sintesi rappresentativa. L’animale esposto, anche se morto, rappresenta, agli occhi degli spettatori, la vita della specie: la sua vita continua, simbolicamente, sotto forma di esposizione rappresentativa dell’intera specie cui appartiene.

 Museo Guatelli, Ozzano Taro

Museo Guatelli, Ozzano Taro

Il sapere diviene, così, rappresentazione del patrimonio collettivo (Lotman, 1985: 98). Sarebbe semplicistico spiegare tali configurazioni in atto, in un museo, ricorrendo a un comparativismo generalizzato tra discipline diverse o mettendo in campo tipi di sapere precostituiti e preordinati. È più interessante, invece, nel caso specifico, pensare che il “contatto” fra impianti teorici epistemologici differenti sia un vero e proprio processo di traduzione dei linguaggi, delle categorie e dei nuclei concettuali con il quale si attua l’attraversamento delle frontiere fra i complessi sistemi di rappresentazione scientifica e tra i saperi stessi. È nel contatto e nel processo di traduzione – teorico e pratico, semantico e simbolico, codificato e attualizzato – che si definisce la semiosfera (l’unità, l’etereogeneità e la complementarietà) dei saperi di una cultura rispetto invece a una ipotetica, già data o prestabilita, segmentazione del “sapere” per settori stagni e compartimentati. È, quindi, per riassumere, come se le due funzioni della cultura (di trasmissione e di elaborazione di nuove informazioni) enunciate da Lotman (1985: 84) agissero nel museo in maniera simultanea: rappresentando e descrivendo sia il contatto molteplice tra i saperi in atto (e in traduzione) sia la narrazione del genere umano nella sua apparente unicità.

In questo senso, il museo, per quanto esemplificativo (data la sua costituzione sia simbolica sia materiale), non è che un “oggetto”, fra i tanti, in cui si traducono i discorsi di una cultura. Ciò che ho inteso mostrare, dunque, proprio attraverso l’esempio del museo, è che, per una migliore comprensione dei meccanismi di una cultura, l’accento dello studioso non va posto, staticamente e isolatamente, «sull’oggetto […] in sé, ma sul processo di traduzione da un linguaggio all’altro, da un meta-linguaggio all’altro, da una concezione teorica all’altra» (Montes, 2000-2001: 46). Per concludere, quindi, voglio precisare che la mia riflessione sul museo ha una valenza in fondo più generale che, come afferma Lotman, va al di là del museo stesso: «la cultura come meccanismo di elaborazione dell’informazione, come generatore di informazioni, si trova necessariamente in una condizione di collisione e di reciproca tensione tra i diversi campi semiotici» (Lotman, 1998: 49). In questa prospettiva semiotica, applicabile tout court all’antropologia, il dialogo diventa un elemento centrale, un dialogo inteso non tanto come semplice comunicazione tra due istanze date, quanto come campo polifonico di tensione e traduzione di saperi.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Clifford J., Strade,  trad.it., Bollati Boringhieri, Torino, 2008, (ed. or. 1997)
Codice dei beni culturali e del paesaggio, D. L. n. 42 del 22/01/2004
Hammad M., Leggere lo spazio, comprendere l’architettura, trad. it., Meltemi, Roma, 2003
Lotman J. M., La semiosfera, trad. it., Marsilio, Venezia, 1985
Lotman J. M., Il girotondo delle muse, trad. it., Moretti e Vitali, Bergamo, 1998
Montes S., “Tradurre le culture: strategie dei testi, strategie degli antropologi”, in Archivio Antropologico Mediterraneo, anno III-IV, n.3-4, 2000-2001: 35-51
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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