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Il disagio mentale della donna maltrattata. L’approccio etnopsichiatrico

copertina(1) di  Walter Nania

La notizia dell’apertura, nei quartieri palermitani di Borgo Vecchio e Zen, di due centri a tutela delle donne vittime di abusi e discriminazioni, che la statistica suggerisce avvengano spesso in ambito familiare, spinge ad una riflessione di carattere antropologico sul tema. L’antropologia culturale si è interessata alla problematizzazione della “violenza”, indagando il modo in cui le pulsioni e gli istinti sono connotati culturalmente. La violenza e l’aggressività si manifestano infatti nel comportamento umano in modi culturalmente e storicamente plasmati. In sé non è mai stata al centro di grandi elaborazioni teoriche, ad esclusione di saggi che hanno posto l’accento sui diversi codici di manifestazione dell’aggressività nelle differenti culture [1]. Tuttavia questi problemi hanno a che fare molto da vicino con la questione del controllo sociale della violenza e come questa sia a sua volta un costrutto sociale. Nell’analisi della “tortura domestica”[2] un valido contributo può essere fornito dall’antropologia medica e in particolare dall’etnopsichiatria.

Esistono delle similitudini che legano gli effetti della tortura a quelli della violenza domestica, sul fisico e sulla mente, di atti deliberati volti a causare dolore e privazione (Sironi, 2001). I disordini manifestati dalle vittime della violenza domestica non possono essere imputabili alla natura della persona, ma sono socialmente costruiti e definiti. Essi rientrano in quelli che Georges Devereux (2007) definisce “disordini tipo”, patologie che sono proprie del tipo di società e socialmente prodotte. Nathan (1977) analizza questi disordini dettagliatamente, mostrando come la loro logica e la loro struttura siano direttamente legate alla logica e alla struttura dell’organizzazione sociale nella quale compaiono. Dopo una breve disamina su più tipologie di traumi, egli tratta nello specifico dei traumi causati da torture, comprese le torture domestiche, sostenendo che le difese del torturato sono deliberatamente distrutte da parte del torturatore attraverso la rottura dei legami tra gli eventi psichici e gli universi di riferimento. Nathan insiste sul fatto che, essendo questo tipo di trauma causato volontariamente, è terapeuticamente necessario affrontarlo partendo dalla sua origine e natura “extrapsichica”.

foto1«Affrontare la questione partendo dall’intenzionalità del “creatore del trauma” permette di far emergere ciò che sta al centro della psicopatologia della tortura […]. Le vittime della tortura rappresentano un paradigma che mette a nudo i limiti del nostro sistema di pensiero in campo psicopatologico, un sistema che mira a individuare il sintomo come “produzione della psiche” di un paziente. Nella psicopatologia occidentale, il sintomo viene considerato produzione individuale [...]. Ma quando il disturbo è legato all’utilizzo della tortura, ed è quindi conseguenza diretta di un processo di influenza, è necessario considerare anche un terzo elemento, di natura extrapsichica: è indubbio infatti che esiste un’intenzione che precede la sofferenza del paziente. […] Dunque dovremo considerare il disturbo dissociando il sintomo dalla persona. […] Il pensiero proprio di tale sistema, quello che ha per scopo la modificazione dell’altro, possiede una sua forma, ed è contenuto nei metodi utilizzati» (Nathan, 1996a: 47-48). Francoise Sironi ipotizza che per curare le vittime di tortura è opportuno pensare e procedere con un approccio basato sull’etnopsichiatria. Per due ragioni, la prima perché nell’ottica della disciplina «la persona non è mai isolata, considerata separatamente dalla sua storia familiare, dal suo villaggio, dalle sue appartenenze di gruppo o iniziatiche. L’altra peculiarità consiste nell’assumere, come approccio privilegiato nello studio dei disturbi di una persona, l’azione e le teorie dei terzi coinvolti e non una supposta natura del soggetto» (Sironi, 2001: 92).

L’etnopsichiatria rientra nel campo di studi dell’antropologia medica. Come accade con le scienze sociali, anche al suo interno si ripercuote il dibattito aperto che vede scontrarsi le scienze nomotetiche, che si rivolgono allo studio del mondo naturale, con quelle scienze che studiano il mondo sociale e culturale e che non possono per loro stessa natura proporre definizioni universali, paradigmi. Queste ultime possono invece cogliere i fenomeni nel loro sviluppo e nella loro individualità ma anche nel loro intrecciarsi, coinvolgersi, contaminarsi con altri fattori. Uno dei fondamenti epistemologici dell’antropologia medica consiste nel presupporre una interrelazione reciproca tra medicina e cultura, in particolare tra le attitudini e i comportamenti del malato con i modelli attinti dalla tradizione del suo gruppo di appartenenza. Salvatore Inglese, nell’introduzione a Principi di Etnopsicanalisi di Nathan, definisce con questi termini l’etnopsichiatria: «[...] si avvale della metodologia complementarista costruendo il proprio oggetto su un piano antropologico (teoria generale della cultura e conoscenza dello specifico campo culturale che informa le caratteristiche del fenomeno clinico) e psicopatologico (teoria generale della fenomenologia psichica lungo l’asse normalità/patologia e conoscenza della sua oscillazione nelle diverse realtà culturali)» (Nathan, 1996a:12) [3]. Inoltre, secondo Nathan, la fusione tra psichismo e cultura appare evidente: non esiste essere umano con un funzionamento psichico osservabile come un oggetto separabile da tutto ciò che è la vita del paziente stesso. Egli considera la cultura come una struttura specifica di origine esterna (sociale) che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico. Essa rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano. Non esiste nessun funzionamento psichico senza struttura culturale, e allo stesso tempo i fenomeni culturali sono determinati e alimentati dallo psichico (ibidem). Tra gli oggetti di studio dell’etnopsichiatria  che elenca Roberto Beneduce, (1999), alcuni riconducono alla definizione dei disagi mentali riscontrati nelle vittime di violenza come costrutti sociali: a) studio del rapporto fra cultura e psichismo; b) studio del rapporto fra dinamiche socio-culturali, psichismo, psicopatologia;

c) studio e confronto delle diverse forme di sofferenza psichica nelle diverse società e dei relativi modelli interpretativi nonché del significato delle diverse risposte alle cure e della dimensione sociale dell’efficacia terapeutica; d) analisi delle diverse categorie diagnostiche della psichiatria occidentale e di altri saperi relativi alla sofferenza psichica secondo un approccio emico ed etico; e) ridefinizione critica e decostruzione delle cosiddette culture bound syndromes.

foto 2Particolarmente rilevante ai fini di una definizione del disagio psichico rilevabile nelle vittime di violenza domestica è l’ultimo punto, che tratta le culture bound syndromes (CBS). Il primo ad utilizzare il termine culture-bound soppiantando le precedenti definizioni di sindromi esotiche, è stato, nel 1962, uno psichiatra cinese, Pow Meng Yap. La sua teoria parte dall’analisi del concetto di cultura in quanto variabile fondamentale all’interno delle sindromi. Su questa base, egli tenta una revisione nosologica sia sotto il profilo della tassonomia che sotto quello della terminologia, ed anche se non riuscirà nel tentativo di inserire nel DSM questa variazione, le sue idee verranno recepite dalla psichiatria comparativa che, partendo dai suoi presupposti, si definirà trans- o cross- culturale. Yap non riesce però a discostarsi dalle dicotomie che separano, nella psichiatria tradizionale e ancora nella psichiatria comparata formulata agli inizi del secolo, cultura e natura. In Yap «il fattore culturale soppianta quello biologico collettivo della razza, ma alla Natura (e quindi alla biologia) viene di nuovo attribuito il ruolo di determinante “universale”: questa volta esteso a tutti gli esseri umani in quanto tali e al di là delle caratteristiche “razziali”, giacché per defnizione la cultura è ciò che contraddistingue – anche se al contempo differenzia – l’umano» (Ciminelli, 1998:  95).

Dunque la definizione di sindromi e sintomi resta interna all’analisi del processo di insorgenza della malattia mentale e del suo sviluppo, pertanto fondata su universali biologici e non su fattori culturali. Lo studio delle CBS è in questa fase ancora strumento della psichiatria, e dagli psichiatri le sindromi vengono descritte e riportate in un ordinamento tassonomico. Siamo ancora lontani da un approccio antropologico che si prefigga di conseguire un duplice obiettivo: «descrittivo in quanto permette di ottenere una panoramica sulla variabilità e sull’estensione del comportamento patologico; esplicativo in quanto teso a chiarire il contributo della matrice culturale allo sviluppo e alla soluzione delle stesse» (Ferretti, 2009: 1).

FOTO3Nel dibattito sulle CBS, si possono individuare due diverse prospettive di approccio. La prospettiva “esclusionista” e quella “inclusionista”. La prima, presupponendo l’esistenza di sindromi culture-bound, ammette per logica conseguenza l’esistenza di sindromi culture-free. A questo proposito, Kleinman (1997) sostiene che l’errore logico che sottostà all’idea di CBS consiste nel pensare le categorie utilizzate dalla psichiatria occidentale come culture-free, come se non fossero anch’esse condizionate culturalmente, mentre in realtà la cultura plasma il modo specifico in cui la malattia viene da noi concepita. D’altra parte, la prospettiva “inclusionista” cerca di concettualizzare quale sia il grado di influenza di natura e cultura ma non si discosta molto dal pensiero dualistico di Yap. Ne è un chiaro esempio il lavoro di Hughes e Simons (1985) che raggruppano le CBS in tassonomie, in base al sintomo riconoscibile cross-culturalmente e, al di là delle differenti denominazioni e significati, descrivono in sostanza “la sua forma”, convinti che «nel caso delle culture-bound syndromes le similarità riscontrate saranno spesso biologiche, e le differenze culturali» (Ciminelli, 1998: 100). Inglese e Peccarisi, in una prospettiva critica, sottolineano che la psichiatria tende a considerare culture-free i disturbi “occidentali”, e culture-bound tutti gli altri, e obiettano che «non si può individuare, ricostruire o prefigurare la direzione di un decorso morboso separandolo dai molteplici fattori transcontestuali ed extraclinici che interagiscono con l’individuo in cui il disturbo giunge a incarnarsi (eventi di vita, risorse gestionali e assistenziali, relazioni familiari, partner culturali, ceto sociale, organizzazione dei sistemi medici convenzionali…). Il decorso del disturbo mentale è dunque essenzialmente sociale, ovvero non naturale [...]» (Inglese, Peccarisi, 1997:16). Traducendo CBS in “Sindromi Culturalmente Caratterizzate”, i due autori propongono la definizione di “Sindromi Culturalmente Ordinate”, dove il termine “ordinate” «induce a concepire e a disvelare all’interno di ogni cultura l’esistenza di un sistema nosologico coerente e coeso (ordinato), creato, tramandato e modificato in rapporto ai processi dinamici di conservazione e trasformazione storico-sociale» (Inglese, Peccarisi, 1997:16).

foto4Questo approccio è vicino a quello degli studiosi appartenenti al filone di ricerca denominato “New Crosscultural Psychiatry”. Esso si pone come obiettivo l’analisi di alcune categorie della psichiatria e della psicopatologia occidentali secondo un approccio storico-antropologico. È interesse di studio della “New Crosscultural Psychiatry”, ad esempio, il funzionamento delle categorie della psichiatria e della psicopatologia occidentali, i problemi connessi all’uso di tali categorie in altri contesti socio-culturali, il significato che tali categorie hanno nel controllo del corpo femminile, nella definizione dei ruoli sessuali e dell’identità, nonché i confitti degli spazi urbani, dello spazio delle metropoli, della coesistenza di mondi e logiche autonomi, delle nuove dinamiche delle identità collettive e individuali, delle nuove forme della soggettività e dei loro nodi problematici (Beneduce 2008).

Se ogni disturbo mentale può essere definito non naturale ma essenzialmente sociale, tali sono anche i disturbi mentali che presentano le donne vittime di violenza domestica. I sintomi che queste presentano compongono delle sindromi culturalmente ordinate. La malattia mentale della donna vittima di violenza domestica è una “sindrome culturalmente ordinata”, in cui il contesto sociale che “ordina” lo sviluppo del disagio è quello della dominazione del torturatore sul torturato e della violenza perpetrata al fine del mantenimento di uno stato di subordinazione.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Note

1           Eccezioni sono i saggi raccolti in RICHES (1986) e HERITIER (1997).
2           Nella Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti degradanti, stipulata a New York nel 1984, all’art. 1 si definisce tortura «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore e sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o di intimidire o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione».
3       Il termine etnopsichiatria crea problemi di definizione, crea ossimori: «Ethnos significa razza, tribù, stirpe, famiglia, ma anche provincia, territorio; indica la dimensione locale, particolare di una parte rispetto al tutto. Psyche è soffio vitale; iatréia, l’arte di prendersi cura. Si tratta dunque della disciplina che pratica (e studia) l’arte del prendersi cura della psiche in territori e gruppi umani definiti» (Coppo, 1996: 54). Può addirittura risultare un termine inquietante tanto quanto inquieta risulta la ricerca: «La Psichiatria evoca un passato di reclusioni, di sorveglianze e di punizioni per chiunque fosse “pericoloso a sé e ad altri”, ancora denso di spettri inquietanti: la follia e la sua repressione» (Mollino, 1997: 77).
Riferimenti bibliografici
BENEDUCE R., Breve Dizionario di Etnopsichiatria, 2008, Roma, Carocci
CIMINELLI M.L., La decostruzione del concetto di CBS, in LANTERNARI V., (a cura di), Medicina, Magia, Religione, Valori, (a cura di), voll. 1 e 2, Napoli, Liguore
COPPO P., Etnopsichiatria, 1996, Milano, Il Saggiatore
DEI F., Antropologia della Violenza, 2006, Roma, Meltemi
DEVEREUX G., Saggi di etnopsichiatria generale, 2007, Roma, Armando
HERITIER F., Sulla Violenza, 1997, Roma, Meltemi
HUGHES C, SIMONS R., The Culture-Bond Syndromes: Folk Illnesses of Psychiatric and Anthropological Interest, 1985, Dordrecht, Reidel Publishing Company
KLEINMAN A., Depression, somatization, and the new cross-cultural psychiatry, 1997, Social Science & Medicine, 11, 3
INGLESE S., PECCARISI C., Psichiatria oltre frontiera. Viaggio intorno alle sindromi culturalmente ordinate, 1997, Milano, UTET
NATHAN T., Sexualité idéologique et névroses. Essai de clinique ethnopsychanalytique, 1977, Grenoble, La pensée sauvage
NATHAN T., Principi di Etnopsicanalisi, 1996a, Torino, Bollati Boringhieri
NATHAN T., Medici e Stregoni, 1996b, Torino, Bollati Boringhieri
RICHES D., The Anthropology of Violence, 1986, Oxford, Blackwell
SEVERINO E., BENEDUCE R., VALENT I., La Guarigione, 1999, Bergamo, Moretti e Vitale
SIRONI F., Persecutori e vittime. Strategie di violenza, 2001, Milano, Feltrinelli
 
SITOGRAFIA
FERRETTI M., Le reason why dell’etnopsichiatria, 2009, in www.Stigmate.it/dossier/Etnopsichiatria
MOLLINO S., www.rivistapsicologianalitica.it/v2/pdf2/55-1997-Attualita_disagio/5597_Cap7_Etnopsichiatria.pdf
  www.diritto.it, Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti degradanti
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Walter Nania, giovane laureato in Beni Bemoetnoantropologici all’Università di Palermo, ha conseguito la laurea specialistica in Antropologia culturale e Etnologia a Bologna. Successivamente ha lavorato presso lo SMA (Sistema Museale dell’Ateneo di Bologna), prestando servizio al museo di Antropologia. Ha frequentato la scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia e svolto attività di ricerca presso il Museo delle Culture di Lugano. Attualmente è responsabile delle attività di AlQuds – Casa della Cultura Araba – Palermo e si occupa di immigrazione e seconde generazioni.

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