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Identità, confini ed etnie. La polarizzazione dell’immaginario etnico nel conflitto civile sud-sudanese

Sud-Sudan

Sud Sudan

di   Nicola Martellozzo

Il Sud Sudan è conosciuto come lo Stato più giovane al mondo, nato nel 2011 con un referendum che ne sancì l’indipendenza dal Sudan. Gli accordi di Naivasha del 2006 chiusero mezzo secolo di conflitti civili nella regione, e i comandanti veterani dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army) diventarono eroi nazionali e leader politici del nuovo governo. Alla morte di John Garang, fondatore dell’SPLA e capo dei ribelli, l’eredità politica e ideologica venne presa da Salva Kiir, primo presidente del Sud Sudan. Tuttavia, il nuovo Stato è conosciuto anche per la cruenta guerra civile iniziata nel 2013, e continuata fino ad oggi.

Con questo contributo vogliamo considerare alcuni dei fenomeni culturali che hanno caratterizzato le tensioni del post-referendum e della guerra civile in Sud Sudan, evidenziando la polarizzazione progressiva dell’immaginario etnico; in altre parole, mostrando come precise categorie culturali diventino strumenti politici per la gestione congiunta della popolazione e del territorio.

La costruzione dell’identità è stata una delle maggiori sfide per il Sud Sudan (Deng 1995; Arnold & LeRiche 2012) che alla sua nascita aveva bisogno, come ogni entità politica contemporanea (Foster 1991), di presentare un’immagine di sé compiuta e stabile, pronta per un confronto con il contesto globale. Diversi lavori hanno sottolineato le difficoltà del Paese nel plasmare un’immagine nazionale condivisa (Eltayeb 2012; Zambakari 2013); una delle maggiori criticità venne proprio dall’interno del nuovo Stato, e si estese progressivamente dal corpo sociale al territorio fisico.

Parliamo del mosaico umano del Sud Sudan, che costituisce tanto una ricchezza culturale quanto una sfida sociale, nel momento in cui entrano in gioco le categorie etniche e il loro utilizzo politico (Arnold & LeRiche 2012: 7). Gli eventi della guerra civile hanno portato il governo di Juba – e la classe politica sud-sudanese  – ad  elaborare una strategia che sfrutta un particolare processo di costruzione delle identità, che possiamo definire di «differenziazione simmetrica» (Bateson 1935: 181). Bateson usa anche il termine schismogenesi, fenomeno sociale con dinamiche opposte all’omeostasi.

Infatti, in un ciclo omeostatico viene raggiunto un equilibrio dinamico attraverso processi di auto-regolazione: l’aumento di un valore viene compensato diminuendo un’altra variabile (feedback negativo), oppure rafforzandola (feedback positivo). Al contrario, un processo schismogenetico tende solamente a potenziare alcuni valori in una logica di contrasto, inducendo un disequilibrio costante. Nel contesto del Sud Sudan si verifica un accumulo di simboli e rappresentazioni lungo una rete di “punti caldi”, come a marcare le fratture sociali del post-indipendenza. Questo significa che tra gruppi rivali non ci sarà una mediazione, piuttosto un’esasperazione delle differenze tra poli di alterità. Si tratta di una modalità che costruisce nuove identità locali e globali con esiti spesso violenti, come nel caso della corsa alle armi durante la Guerra fredda, e che nel caso in esame fa riferimento all’etnia come marcatore primario dei gruppi.

Composizione-e-distribuzione-dei-gruppi-etnici-in-Sud-Sudan

Composizione e distribuzione dei gruppi etnici in Sud Sudan

Tuttavia, in questo studio non ci occuperemo direttamente di quelle asimmetrie sociali estreme che usano la categoria etnica come asse di riferimento (discriminazioni, violenze, conflitti), bensì di come le rappresentazioni della società sud-sudanese si trovino distribuite lungo quell’asse. Il termine “polarizzazione” è entrato nell’uso comune anche tra i non-specialisti per riferirsi alla creazione di identità etniche locali, di resistenza all’interno del nuovo Stato e in contrasto con il governo centrale. Più in generale, per il formarsi di schieramenti e fazioni politico-militari antagoniste e destabilizzanti (Nyok 2014).

Noi parleremo invece di polarizzazione dell’immaginario etnico. Questo processo particolare è parte di una più ampia polarizzazione dell’immaginario cominciata durante la seconda guerra civile sudanese (1983-2005); ci mostra quindi uno scenario ampio e attuale per riflettere sulle implicazioni politiche e sociali della formazione e cristallizzazione di identità culturali. La polarizzazione dell’immaginario implica un orientamento delle rappresentazioni, in modo che valori, simboli e concetti si trovino distribuiti lungo un continuum, più che separati in compartimenti stagni. Non tanto categorie chiuse, ma fratture che creano una rete, dove la forma non è data dalle zone lisce, complete, ma dalle frontiere, dagli incroci e dalle asperità di pratiche e pensieri.

2-sud-sudanQuesta morfogenesi dei simboli (Amselle & M’Bokolo 2008) comincia già nel periodo coloniale. L’amministrazione anglo-egiziana creò un clima favorevole alle indagini etnografiche, inserendo l’antropologo all’interno delle strutture di potere e impiegandolo come funzionario coloniale. La tassonomia etnica del Sudan è stata creata in buona parte dall’etnografia coloniale, con la formazione di etichette etniche che sono state poi pienamente inglobate nel processo post-coloniale, e che ritroviamo ora come (auto-)rappresentazioni nel Sud Sudan. Ovviamente, il caso sud-sudanese si inserisce nel più ampio panorama della costruzione etnica in Africa, che riguarda buona parte del continente e dei suoi abitanti (Amselle & M’Bokolo 2008; MacDonald & Richard 2015).

Riconoscere il retaggio storico di queste etichette etniche, evidenziarne l’artificialità, non basta a disinnescarle. Anche se si tratta di convenzioni culturali, il loro peso e la loro efficacia sta nella capacità di riproporsi quotidianamente, d’essere un modello diffuso e accettato per interpretare la realtà. Perciò, se da un lato possiamo mettere in luce l’arbitrarietà di questa classificazioni – insieme ai loro limiti e rischi – dall’altro non dobbiamo sottovalutarne la pervasività e l’aderenza. Il nuovo Stato si è letteralmente formato a partire da queste rappresentazioni.

Nella regione si contano almeno sessanta gruppi distinti, un’eterogeneità che però passa in secondo piano a favore della dicotomia Dinka/Nuer. Si tratta dei due gruppi più presenti in Sud Sudan, ma che più generalmente rimandano alla classica opposizione agricoltore/pastore, già vista all’opera in Rwanda con gli Hutu/Tutsi. Non sorprende quindi che la retorica della polarizzazione post-unitaria abbia “trovato” in questa coppia un nuovo asse per identità simmetriche (Bayeh 2014).

Dinka e Nuer, oltre ad essere i gruppi più numerosi, sono anche quelli percentualmente più importanti all’interno dell’SPLA, con una distanza di vedute sulla conduzione della guerra che produsse uno scollamento interno: tra il 1991 e il 1995 ci fu una serie di scontri tra i due gruppi, con incursioni reciproche nei territori e nei villaggi, violenze definite come un «conflitto di politiche etniche» (Shulika & Okeke-Uzodike 2013: 26).

Spesso si parla di dinkanization e nuerization per indicare la grande presenza di questi gruppi a livello politico nel governo di Juba, ma la retorica ufficiale ha evitato attentamente di sottolineare queste asimmetrie di potere. La costruzione dell’identità collettiva doveva ovviamente essere capace di gestire le tensioni etniche, mediandole attraverso una rappresentazione comune (Idris 2013: 121). Il presidente Salva Kiir, celebrando l’indipendenza, affermò: «you may be a Zande, Kakwa, Lutugo, Nuer, Dinka or Shiluk, but first remember yourself as a South Sudanese» (Frahm 2012: 28). In questo discorso riecheggia la retorica del sudanism, come nuova forma di identità nazionale proposta già da Garang negli anni ‘90. «The notion of Sudanism is an attempt to readdress these political and historical challenges by shifting the political discourse from race and ethnicity to issues of identity, nationality, and citizenship» (Idris 2013: 100).

Nella guerra civile sud-sudanese le tensioni tra gruppi Dinka, Nuer, ecc, sono state catalizzate dalla decisione di Kiir di demilitarizzare l’ambiente politico (Kameir 2017). Con questa mossa il presidente ha cercato di estromettere i leader delle fazioni interne all’SPLA, indebolendone la posizione per isolare gli elementi più instabili del governo unito. L’SPLA nasce come milizia, e combatte per ottenere l’indipendenza. Raggiunto questo obiettivo, l’intero movimento ha dovuto re-immaginare sé stesso, trasformare l’ideale rivoluzionario in un sistema reale e funzionante. La creazione identitaria del Sud Sudan è stata anche la creazione di una nuova identità per l’SPLM (Sudan People’s Liberation Movement), la cui componente militare è diventata una minaccia interna al nuovo ordine costituito.

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Divisione amministrativa del Sud Sudan in 28 Stati, 2015

L’SPLA/M ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione di una memoria pubblica condivisibile dai cittadini del nuovo Stato, ma i suoi sforzi non sono bastati a spegnere le tensioni all’indomani del referendum. Al contrario, gli attriti hanno acquistato nuova forza e complessità con l’emergere di attori inediti nell’agone politico e sociale, non più riducibili alla superficiale opposizione Dinka/Nuer (Garment & James 2000).

Il biennio 2011-2012 fu particolarmente violento, ma l’apice di questi conflitti venne raggiunto senza dubbio durante la guerra civile cominciata nel 2013. Ci sono state tensioni e violenze sia tra gruppi differenti, sia in seno allo stesso gruppo (Shulika & Okeke-Uzodike 2013: 28), e spesso per differenziare le due tipologie ci si rifà al lessico etologico, distinguendo tra conflitti inter e intra tribali. Le tensioni iniziarono con l’estromissione del vicepresidente Riek Machar e il disarmo dei suoi battaglioni nell’SPLA. Machar, a differenza di Garang e Kiir, appartiene all’etnia Nuer, e la mossa del nuovo presidente ruppe il delicato equilibrio di potere all’interno del partito.

Lo Stato di Jonglei fu il primo teatro di questa guerra civile che ha cambiato radicalmente il Sud Sudan, concludendosi formalmente solo di recente. Per comprendere la frammentazione interna del nuovo Stato bisogna far riferimento a quelle strutture comunitarie locali (Mbembe 2001) che in alcuni territori spingevano fin dagli anni ‘90 per un maggior regionalismo, ispirandosi al Southern Regional Government degli anni 70’.

Subito dopo il referendum, diversi politici videro nel decentramento, nel regionalismo e nel federalismo tentativi di scindere la società del nuovo Stato, suscitando discordia e creando fazioni armate (Kuol 2013). La detribalizzazione venne proposta come politica di contrasto alle spinte locali (Okuk 2011), con modalità diverse che vanno dall’integrazione massiccia tra strutture locali e governo, all’imposizione di una cultura egemone capace di assorbire le variazioni minori. La guerra civile del 2013 segnò tuttavia il fallimento di questa prima strategia politica.

Non è possibile ridurre il conflitto interno in Sud Sudan ad uno scontro di potere tra Dinka e Nuer, nonostante la tensione tra Kiir e Machar abbia fatto da innesco. Un rapido sguardo alla politica amministrativa nell’ultimo decennio restituisce una situazione decisamente più complessa. All’indomani dell’indipendenza il Sud Sudan era diviso in dieci Stati, distribuiti all’interno dei vecchi distretti coloniali. Nel 2015, dopo la fase principale della guerra civile, gli Stati diventarono ventotto, imponendo nuovi confini che ridisegnarono profondamente il territorio. Gli Stati centrali furono quelli più toccati dalla trasformazione, e non passa inosservato che siano anche le regioni più ricche di fiumi e terre fertili. L’ultima suddivisione del 2017 portò a trentadue il numero degli Stati ufficiali: un ribaltamento evidente dell’iniziale politica di accentramento del governo Kiir.

4-sud-sudanPer evidenziare la polarizzazione dell’immaginario etnico a fronte della complessità storica degli eventi, ci concentreremo adesso su alcune zone in particolare. Cominciamo con il distretto di Abyei, area amministrata in condivisione dai due Stati confinanti, e primo teatro bellico del neonato Sud Sudan. Situato tra il Kordofan e il Darfur, e con un sottosuolo ricco di petrolio, fu subito importante definire i confini di Abyei. Formalmente, la zona è sotto il controllo di entrambi gli Stati, ma la situazione era ambigua già ben prima del referendum del 2011.

Durante la prima guerra civile sudanese (1955-72), l’accesso al fiume Kiir innescò uno scontro tra Ngok Dinka e Misseriya, una popolazione araba semi-nomade. Lo schieramento dei due gruppi all’interno della guerra civile non fu casuale, né dettato dal semplice interesse: mentre i Dinka costituivano la maggioranza dell’élite dell’SPLA, i Misseriya contavano sull’alleanza degli altri gruppi arabi sudanesi. Dopo l’indipendenza, un battaglione affiliato all’SPLA compì un’incursione nel distretto, scatenando un conflitto con l’esercito sudanese che si allargò ben presto, coinvolgendo gruppi ribelli del Sudan (Willemse 2005). Dopo che Abyei fu dichiarato territorio condiviso, i Ngok Dinka si organizzarono nel 2013 con un referendum per decidere l’annessione definitiva a uno dei due Stati. La maggioranza votò per entrare in Sud Sudan, ma il referendum fu boicottato dai Misseriya e invalidato dal governo sudanese (ST 2013).

Il caso di Abyei testimonia come le tensioni della guerra civile sud-sudanese non siano cominciate con l’indipendenza ma siano state ereditate, ripresentandosi all’interno di nuovi scenari. La categoria etnica qui gioca un ruolo ambiguo, presentando il conflitto come uno scontro di identità incompatibili, storicamente opposte, cristallizzate nel tempo. Questo tipo di lettura è precisamente il rischio che si corre parlando di “polarizzazione etnica” senza considerare il processo storico che ha portato al crearsi e al manifestarsi di quella tensione.

Consideriamo adesso lo Stato di Jonglei, tra i più coinvolti nel riordinamento amministrativo del 2015-2017, e nel cui territorio due importanti affluenti danno vita al Nilo Bianco (Bahr el Abyad). Già nel biennio 2011-2012 ci furono diversi scontri tra gruppi etnici (Laudati 2011), inaugurati da una serie di attacchi e ritorsioni tra Dinka Bahr el Ghazal e Bor per l’accesso alle risorse idriche del territorio. Tuttavia, entrambi i gruppi si ricomposero quando furono i Nuer a minacciare il loro spazio politico ed economico, e di nuovo quando vennero coinvolti i Murle.

5Nella retorica della polarizzazione etnica, i Murle possono ambire al ruolo di “terzo polo”, considerato il loro ruolo nella guerra civile e nella trasformazione dello Stato di Jonglei. Nel 2012 i Murle iniziarono una serie di attacchi verso i Lou Nuer e i Dinka Bor, e come nel caso precedente il casus belli fu l’accesso al fiume Pibor. Le rivendicazioni dei Murle passarono presto su un altro piano, e puntarono a ottenere un’autonomia politica maggiore per il proprio gruppo e il proprio territorio, la porzione orientale dello Stato di Jonglei.

Le rivendicazioni dei Murle risalgono alla seconda guerra civile sudanese, quando entrarono nei ranghi dell’SPLA sotto la guida del leader David Yau Yau, formando la Cobra Faction. Dopo il referendum, vedendosi negata l’autonomia del proprio Stato, e in seguito alla smilitarizzazione ordinata da Kiir, la Cobra Faction si ribellò al governo centrale. L’opposizione armata continuò fino al 2014, quando fu concessa la Great Pibor Administrative Area, regione semi-autonoma presto assorbita nel 2015 dal nuovo Stato di Boma. Questo non bastò a disinnescare il conflitto tra la nuova regione e il confinante Stato di Jonglei, entrambi caratterizzati adesso da gruppi etnici maggioritari, rispettivamente Murle e Dinka: ancora nel 2016 si registrarono razzie e attacchi lungo i confini.

Gli Shilluk, situati per lo più negli Stati settentrionali del Sud Sudan, vivono vicende per certi versi simili a quelle dei Murle. Entrambi i gruppi formano battaglioni distinti nel SSDM (South Sudan Democratic Movement), l’esercito ribelle nato nel 2013 e legato a Machar per la maggior parte della guerra civile. Oltre a David Yau Yau, ne fece parte il leader Shilluk John Uliny, comandante della fazione Upper Nile, operativa nella regione settentrionale al confine con il Kordofan. Anche con questo gruppo il governo di Kiir cercò un compromesso, creando nel 2015 lo Stato del Western Nile, che ricalca quasi perfettamente il territorio abitato dagli Shilluk.

Questo risultato non è certamente frutto di una coincidenza: il biennio 2016-2017 vide molti ricollocamenti forzati di Shilluk e Dinka, per “adattare” i confini etnici della regione, con forti ripercussioni (ST 2016c) anche all’interno della stessa comunità Shilluk. All’inizio del 2016, l’élite politico-militare detronizzò il proprio sovrano, accusandolo di essere un collaborazionista del presidente Kiir e di sostenere una soluzione amministrativa iniqua a ventotto Stati (ST 2016a). Pochi mesi dopo, al volgere dei propri interessi, la fazione Shilluk lasciò l’esercito ribelle di Machar (ST 2016b) e accettò la creazione del Western Nile come compromesso per la fine delle ostilità.

Ciascuno dei conflitti che abbiamo brevemente descritto è stato spesso interpretato secondo la prospettiva dello scontro etnico, come un comportamento culturale “tradizionale” inasprito dall’utilizzo di armi moderne e mosso da una rivalità intrinseca ai gruppi, intesi come entità essenzializzate (Paterno 2012). Tuttavia, uno sguardo meno ingenuo ci permette di cogliere il modo in cui le categorie etniche siano utilizzate a fini identitari, per individuare e mobilitare parte della popolazione sud-sudanese; di come l’amministrazione coloniale, con la sua gestione di territori e popolazioni, abbia fornito una prima impalcatura simbolica per le etnie; di come l’immaginario culturale abbia subìto una netta polarizzazione durante le guerre civili; infine, di come dopo l’indipendenza le categorie etniche abbiano permesso di riorientare l’immaginario sud-sudanese, catalizzando le tensioni tra gruppi.

6-sud-sudanLa guerra civile ha destabilizzato fortemente il Sud Sudan, sia economicamente sia socialmente; con uno Stato incapace di fornire molti dei servizi minimi ai suoi cittadini, il conflitto per l’accesso alle risorse è diventato una strategia necessaria per sopravvivere. Il governo Kiir ha dovuto gestire attriti che, prima ancora di essere etnici o tribali, sono legati all’amministrazione del territorio e delle risorse, e non ultimo del potere politico e giudiziario. Tuttavia, questa rivalità viene presentata come conflitto di identità, e non come il risultato di carenze strutturali dello Stato (Nistri 2012: 23).

A questo punto, ogni gruppo cercherà di escludere l’altro, e l’etnia torna come elemento discriminante, creando asimmetrie all’interno del corpo sociale, uno strumento politico capace di dare nuovi significati ad una condizione di crisi. Questi “conflitti etnici” mostrano come «[...] the ethnic factor is often manipulated by elites as a mobilization strategy to achieve individual or group objectives. The increase in political, economic, and socio-cultural stakes in land and territory reinforced this process» (Justin & de Vries 2019: 43).

Tutto questo dà un nuovo significato alle scelte amministrative degli ultimi anni. Fallita la detribalizzazione del primo biennio, la suddivisione in trentadue Stati ha permesso al governo di Juba di ottenere un compromesso tra istanze comunitarie locali e iscrizione dell’identità nel territorio. Mentre il nazionalismo ha fallito nel creare un’immagine collettiva e condivisa del Sud Sudan, la nuova strategia politica mantiene le singole identità locali come identità territoriali, circoscrivendo le varie minoranze all’interno di regioni specifiche (Barth 2011).

L’effetto di questo legame tra etnia e spazio è evidente. Le (poche) risorse del territorio vengono contese e la polarizzazione dell’immaginario etnico viene trasposta in polarizzazione dello spazio. Tale sistema non porterà di certo alla fine della stagione di violenze. L’attuale strategia politica, cristallizzando insieme identità e spazi, irrigidisce i confini e parzializza le risorse (Schomerus & de Vries 2017), aumentando le occasioni di conflitto e ponendo davvero la rivalità come un fondamento per la categoria etnia.

Dialoghi Mediterranei, n. 36 marzo 2019
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Nicola Martellozzo, laureato in Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università di Bologna, nel 2018 ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM; SIAC; SIAA-ANPIA), e di recente alla conferenza internazionale “Peoples and Cultures” dell’Università di Palermo. Ha condotto ricerche etnografiche nel Sud e Centro Italia. Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari sulla figura e l’opera di Ernesto de Martino.
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