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Genitorialità migranti

                                                                                       di Enrico Milazzo

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Donna curda in un’associazione contro gli abusi e le torture della polizia nel Kurdistan turco (ph. Giacomo Scattolini, 2010)

«Le discipline, organizzando le ‘celle’, i ‘posti’, i ‘ranghi’ fabbricano spazi complessi: architettonici, funzionali e gerarchici nello stesso tempo. Sono spazi che assicurano la fissazione e permettono la circolazione; ritagliano segmenti individuali e stabiliscono legami operativi; segnano dei posti e indicano dei valori; garantiscono l’obbedienza degli individui, ma anche una migliore economia del tempo e dei gesti. […] La prima fra le grandi operazioni della disciplina è dunque la costituzione di ‘quadri viventi’ che trasformano le moltitudini confuse, inutili o pericolose in molteplicità ordinate». Così Michel Foucault (2016:161).

Le storie possibili, si direbbe, sono quelle storie immaginate che possono essere raccontate e considerate verosimili (Koselleck, 2007). Si pensa però, spesso, che le storie possibili e verosimili siano solo quelle che si possono immaginare. «Ciò che è reale è razionale, e ciò che è razionale è reale» ha avuto l’ardire di asserire, più di due secoli fa, il filosofo Hegel. Se ciò fosse vero, ci troveremmo a rapportarci razionalmente con i vissuti e i conflitti che la migrazione porta con sé. Invece, le storie considerate possibili nella nostra società non sembrano riuscire a includere quei frammentari e singhiozzanti stralci di storie di vita che dagli spazi della migrazione si posano sul letto della nostra realtà. La società o parti di essa si arroccano in spazi impermeabili, che il sociologo Stanley Cohen ha descritto come «stati di negazione» (Cohen, 2001). Da una simile posizione non v’è possibilità di comprendere, nella riflessività sociale, i segni che provengono dai corpi ‘altri’ e ‘alieni’. Questi segni racconterebbero non solo storie possibili, ma anche storie vere, che solo una forma di violenza epistemica e di disagio culturale consente agli occhi occidentali di non riconoscere o far proprie. Si direbbe, quantomeno, che le storie possibili siano solo quelle che possono essere raccontate. Neanche questo, tuttavia, è vero: questo perché alcune storie non possono esser dette.

Alcuni vissuti, quelli spesso considerati eccezionali – qualsiasi cosa si voglia intendere con ciò – o estremamente particolari, suscitano al cuore delle istituzioni politiche e amministrative negli Stati europei, così come a sempre più preoccupanti percentuali di cittadini di questi Stati, una profonda crisi del linguaggio e del senso della storia. Le reali storie dei migranti vengono riposte nel luogo dal quale non intaccano la nostra facoltà immaginativa, figurarsi la nostra conoscenza, e in quel luogo dal quale non partecipano alla descrizione della realtà, ma vi rimangono inosservate e de-spazializzate. È emblematico, allora, che alcuni dei reali vissuti migratori sono quelli che non sono mai stati immaginati, perché non erano immaginabili neanche da chi li ha vissuti. Questo perché se esistono storie che non si possono immaginare, queste sono proprio quelle che non possono dirsi. Come poter trasmettere una storia che non si può dire?

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Helena e Sonia, nei campi nomadi della Città di Torino (© Emanuele Bevilacqua, 2010)

È questa la domanda che introduce la condizione entro cui le storie delle famiglie migranti si trovano a doversi inscrivere, e che vuole essere oggetto di questa breve riflessione. Gli ostacoli che la realtà frappone tra l’immaginazione storica, la narrazione e il linguaggio, sono talvolta così insormontabili da impedire la parola stessa. C’è un’immagine o una figura in particolare che viene questionata e sfidata in ogni sua dimensione rispetto alla storia, ed essa si trova all’interno della famiglia migrante: il genitore. Se la specificità dell’istituto e dell’esperienza genitoriale è la facoltà di trasmettere storie, reali o immaginate, allora il vissuto di un genitore incorre nel più drammatico dei pericoli, quando questo vissuto si compone di storie che non riescono a dirsi. Il rischio di non-dirsi, dunque, si introduce tra la storia possibile, ma purtuttavia indicibile del genitore, e la trasmissione di quella storia alla prole. Un rischio talmente grave quello che alcune famiglie migranti affrontano – ma non solo, che assieme ai suoi portatori viene respinto nella sua drammatica impronunciabilità. La negazione della società si materializza infatti nella marginalizzazione dei vissuti ‘altri’ e nell’aggravarsi della incomunicabilità della loro esperienza. Soprattutto, però, la nostra società lascia traccia di questi vissuti marginali in quei documenti che, riposti negli archivi giuridici e delle ASL, traducono in forma scritta, unilaterale e incontrovertibile le storie di chi è privo del potere di nominarle pubblicamente, o persino di ricostruirle per se stesso. Questi documenti tradiscono quali rapporti intercorrano tra chi detiene il potere di nominare e scrivere la storia, e chi invece si trova inscritto e imbrigliato, per via di quella stessa storia, in documenti amministrativi e provvedimenti burocratici (Foucault, 2009).

Per entrare nel merito della riflessione che segue, bisogna accennare da quale punto di vista si è guardato al problema della genitorialità migrante. Si tratta di prendere in considerazione come l’esperienza genitoriale sia giudicata possibile o meno all’interno dei processi istituzionali che ne intendono valutare l’idoneità. La figura del genitore migrante viene infatti sottoposta dalle istituzioni al centro dell’osservazione di ogni caso riguardante un nucleo familiare, qualora questo venisse segnalato come ‘problematico’ e preso in carico dai servizi socio-assistenziali. L’attenzione è rivolta sul genitore, tuttavia, attraverso determinate pratiche discorsive che necessitano di essere precisate. Si può cominciare con il dire, infatti, che se è vero che è la figura adulta e responsabile ad essere catapultata e valutata entro i modelli della genitorialità per come li concepisce l’istituzione, il nucleo familiare migrante è nella maggior parte dei casi posto sotto osservazione nell’interesse (il miglior interesse) dei minori presenti nella famiglia. Ciò significa, semplicemente, che l’idoneità genitoriale viene accertata dagli enti preposti – come il tribunale dei minori o il servizio sociale – attraverso un’indagine che muove direttamente dai minori coinvolti, e che ad essi ritorna. Il registro istituzionale con il quale viene condotto questo genere di indagini, che abitualmente non durano mesi, ma anni, durante i quali le condizioni economiche della famiglia possono variare, e il minore entra in fasi diverse della propria vita, mette dunque in questione i differenti modelli genitoriali senza però affrontarli in quanto espressione della soggettività particolare dei genitori. Piuttosto, è partire dalla ‘misurazione’ e dalla ‘valutazione’ dello stato cognitivo e psicologico dei bambini che si trae una indiretta rappresentazione del genitore e delle sue capacità. L’esito di questa procedura è una vera e propria valutazione della carriera morale (Goffman, 2010) dell’individuo adulto.

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Tra Serbia ed Ungheria. ‘Racconti di un viaggio’ (© Stefano Sbrulli,  Behind Balkan Wall, 2015)

All’interno della macchina giuridico-amministrativa il problema del posizionamento della storia del genitore migrante e della sua dicibilità emerge con particolare importanza (Taliani, 2014). Nella dialettica tra il genitore migrante e la «valutazione della capacità genitoriale» portata avanti dalle istituzioni, i rapporti di forza instaurati in un tale registro linguistico – la valutazione da parte di chi ‘sa’– lasciano ben poco spazio alla narrazione e alla spiegazione di concezioni non-occidentali non solo della genitorialità, dell’educazione e dell’infanzia, ma anche dei valori culturali, in particolare rivoluzionari (D’Orsi e Massa, 2018). Questa dialettica si caratterizza in primo luogo dal punto di vista dell’enunciazione, cioè attraverso quell’insieme di ‘giochi linguistichi’ (Lyotard 1977) che delineano l’orizzonte – o la condizione – dei rigidi registri narrativi entro cui solo è ammessa la narrazione e l’accettazione morale di una storia. Le disposizioni emesse dai tribunali mirano a regolare e organizzare i modelli di genitorialità condotti sotto l’attenzione istituzionale. In queste disposizioni, la performatività della norma mostra la sua efficacia e concretezza nella sua stessa opera di classificazione: la riduzione alla non-idoneità del genitore migrante si produce attraverso il rifiuto morale della sua narrazione storica e la negazione tassonomica dei suoi valori culturali.

Il riferimento a quanto è descritto sopra è rivolto a dei casi realmente accaduti, ma dei quali non è possibile raccontarne la storia. È uno di questi casi in particolare, tuttavia, che ha animato queste riflessioni. La condizione di non-enunciabilità di una narrazione fa infatti riflettere su quale sia «il peso della storia» (White, 1973) all’interno della società occidentale. Il ‘peso della storia’ funziona nella società come l’impossibilità, per il soggetto, di evitare di mettere in continuità con una storia ufficiale e già scritta da altri, gli eventi e le vicende particolari della propria persona o della comunità a cui si appartiene. Il soggetto in questione, allora, potrebbe avere una storia la cui forma e il cui contenuto non sarebbero accettati dalla storia ufficiale, o detta in altri termini, egemone.

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Tra Serbia ed Ungheria. ‘Rotaie’ (© Stefano Sbrulli, Behind Balkan wall, 2015)

Poniamo il caso di due genitori dal passato politicamente travagliato e dall’esperienza di vita ideologicamente connotata: due possibilità, nessuna delle quali auspicabile, si materializzano dinnanzi ai soggetti in questione. Quella di raccontare comunque la propria storia, in modo invariato nella forma e nei contenuti, o quella di dirla in una forma accettata dalla storia egemone. Nel primo caso, l’incolumità della famiglia coinvolta è posta in pericolo dalle condizioni in cui la stessa storia può essere narrata. Questi rischi si identificano concretamente sia nella possibile reiterazione in Italia della persecuzione politica, che in quella scaturente da una eventuale diffusione della storia in patria. Nel secondo caso, le implicazioni ideologiche della storia – così come una valorizzazione dei suoi contenuti – dovrebbero adeguarsi alla forma accettata dai regimi linguistici della cultura istituzionale occidentale (cioè quelli egemoni). Ciò comporterebbe una radicale trasformazione della propria storia, e come vedremo, il rischio di un’alienazione da essa, o in altri termini, della de-soggettivazione dell’individuo (Mellino, 2009). Il problema del rapporto tra la storia del genitore migrante, l’enunciazione, e la soggettività, dunque, è essenzialmente un problema di forma e di contenuto: come trasformare la forma di una storia radicale in una moralmente accettabile, mantenendone il contenuto esistenziale ed ideologico?

Ciò costituisce un problema tuttora irrisolto. Se, tuttavia, quello appena descritto è un caso limite, è proprio perché si posiziona ai margini delle storie possibili. Le storie che provengono dai margini, tuttavia, forniscono il più suggestivo punto di partenza per analizzare la realtà: nel nostro caso, per effettuare una critica delle procedure di valutazione della genitorialità migrante. Il problema della forma e del contenuto, infatti, lascia emergere queste due dimensioni: la prima, come detto, è costituita dalla trasformazione istituzionale dell’esperienza di vita del genitore migrante in qualcosa di radicalmente diverso e distante dai contenuti ideologici e politici propri del suo racconto. Si pone così l’evenienza dell’appropriazione unilaterale dell’enunciazione sull’altro da parte della cultura istituzionale egemone (De Certeau, 2006). La seconda dimensione riguarda il problema politico della sopravvivenza e della trasmissione di quelle forme linguistiche e culturali radicali che contestano fortemente le strutture dominanti – del capitalismo e dell’imperialismo, in particolare. Le genitorialità combattute e combattenti, quelle storie fatte di vicende rivoluzionarie che non possono essere rivelate se non a patto di mettere a repentaglio la propria vita e della prole, mettono dunque in collegamento queste due dimensioni nella migrazione verso Occidente: una in cui la storia passata non può essere ascoltata ed accettata come è, ma viene prima denominata, classificata e rimodellata da esperti e giudici; ed un’altra in cui quella storia conflittuale – pur intatta nella forma e nei contenuti – si ripropone reiterandosi, non solo simbolicamente, con una rinnovata violenza sui corpi della famiglia migrante. Queste storie combattute non possono dirsi pubblicamente, e quando interrogate, tradiscono la distanza che le separa dal mondo in cui sono state portate dall’esperienza migratoria. Per questa ragione la questione della genitorialità migrante è di primaria rilevanza: una storia traumatica e conflittuale non riguarda solo le sorti della ‘vita psichica’ individuale di colui che l’ha vissuta, ma pone nella prole il problema della trasmissione culturale in Occidente dei valori provenienti da altri territori – specie di quelli ‘in lotta’ (Butler, 2005).

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Bambine curde (ph. di G. Scattolini)

In assenza di riferimenti concreti, il compito di ragionare sulle dinamiche effettive che interessano questi vissuti della migrazione e le storie possibili, si prospetta particolarmente arduo. Si deve tentare allora di proporre delle considerazioni generali, che purtuttavia rimangano comprensibili a partire dalla critica riflessiva che l’antropologia può portare alle strutture istituzionali e culturali della nostra società. Si può portare la questione del ‘peso della storia’ dentro le istituzioni e interrogare l’utilizzo culturale che esse fanno dei concetti di ‘buon genitore’ o ‘idoneità genitoriale’. Le forme testuali con le quali l’esperienza genitoriale del migrante viene giudicata e classificata al fine di risultare sufficientemente buona, o meno, si prestano infatti ad una approfondita analisi antropologica (Schiva e Tartari, 2014). Questa si limiterà in questa sede a mostrare come entro il regime linguistico delle istituzioni e dei saperi occidentali, la denominazione unilaterale dell’‘alterità’ e la comunicazione effettiva con il migrante giochino un ruolo predominante nell’acuire il problema della forma e del contenuto delle storie possibili, comprese quelle che non possono essere dette.

‘Genitore sufficientemente buono’1 o il genitore idoneo, è l’individuo adulto che viene considerato dal tribunale dei minori come in grado di poter portare avanti un processo educativo e di tutela di uno o più minori. Il giudizio ha origine, come accennato, nella segnalazione che giunge presso il servizio socio-sanitario di afferenza territoriale, o presso gli uffici amministrativi del tribunale dei minori. Questo genere di segnalazioni viene prodotto in maniera preponderante dal personale che è a stretto contatto con i bambini nelle scuole, o, altre volte, dai vicini di casa o parenti. Le segnalazioni riguardano spesso casi di supposto maltrattamento, talvolta intuiti sulla base di segni fisici della violenza, o di eventuali racconti che il bambino può fare a compagni o insegnanti. Altre volte la segnalazione prende piede per bambini che mostrano scarse condizioni igieniche, nutritive (e sanitarie), così come, più in generale, a partire dallo stato circostanziale in cui il minore appare (se vi è la sensazione che possa versare in uno stato d’abbandono). Casi più particolari e specifici, ma che comportano il dispiegamento più ampio della macchina amministrativa e giuridica, sono quelli in cui la segnalazione mette in luce la condizione generale dello sviluppo del minore a partire dalla valutazione del suo stato cognitivo e psicologico. Per questo genere di casi, infatti, il servizio socio-sanitario deve disporre delle competenze esperte (psicologi, neuropsichiatri infantili) necessarie per effettuare perizie cliniche in grado di accertare lo stato di sviluppo relazionale e cognitivo del minore. Poiché ognuna di queste possibili ragioni soggiacenti una segnalazione non esclude l’altra, in moltissimi casi l’epistemologia delle discipline medico-psichiatriche viene chiamata in causa nella valutazione della condizione del minore. Questo fa sì che la criticità principale per gli attori coinvolti in questo genere di procedimenti sia esemplificata proprio dalla natura di questi saperi.

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I was alone and two Syrian women who were traveling with a small child took care of me and protected me (© Mirko Cecchi, 2018)

Come accennato, il genitore viene valutato per lo più indirettamente tramite la considerazione, da parte dell’istituzione, dello stato in cui versa il minore di cui è il tutore. Le interviste e gli accertamenti a cui anche il genitore è sottoposto, avvengono in genere solo dopo che gli assistenti socio-sanitari o il personale amministrativo deputato alla gestione del caso si sono già costituiti un’idea specifica della condizione del minore. Il problema, dunque, risiede proprio nel genere di idea che essi si sono costituiti: questa idea è quella di conoscere oggettivamente quale sia lo stato di sviluppo psico-relazionale del minore, e affonda le sue basi nei risultati prodotti dalle perizie tecniche degli esperti chiamati in causa. Ciò che i test psicologici e le analisi cliniche a cui viene sottoposto il minore producono, sono infatti delle informazioni che vengono considerate assolute ed oggettive, e per tali ragioni incontestabili (Taliani, 2012). Soprattutto, questi dati clinici e i saperi tramite i quali vengono elaborati sono considerati neutrali.

Questa dinamica è alla base dell’atteggiamento che caratterizza il modo di relazionarsi con la genitorialità migrante la quasi totalità delle realtà socio-assistenziali e giuridiche del territorio italiano. Si è infatti davanti a un ‘fatto culturale’: l’inserimento della condizione di salute e di sviluppo psicologico di un minore entro delle griglie prestabilite e considerate universali (e allo stesso tempo veritiere e neutrali), fa sì che chi detiene questa prospettiva ritenga di conoscere meglio, e di più, del genitore quale sia la necessità del bambino – se il genitore dà mostra di non prendere quei dati con la stessa ‘serietà’ o ‘preoccupazione’. Se ciò può essere vero (ad esempio nei reali casi di abbandono), tuttavia non significa che sia vero sempre. Ad esempio, il fatto che il minore presenti una certa condizione, e che il genitore non abbia preso adeguati provvedimenti prima che la segnalazione avesse luogo, costituisce il pregiudizio che il genitore o non voglia il bene del bambino, o che finga di non capire ciò che i medici gli stanno riferendo. Allo stesso modo, quel ‘prendere con serietà o preoccupazione’ da parte del genitore ciò che i dati oggettivi sembrano dire rispetto allo stato del bambino, viene dedotto dal personale socio-sanitario, in diversi casi, esclusivamente dalle azioni che il genitore ha intrapreso per ovviare ai problemi del minore, o dalle circostanze da cui la segnalazione ha avuto luogo.

Lo scenario che viene qui a delinearsi presenta diverse criticità, sulle quali è essenziale soffermarsi. I fatti qui riferiti e troppo sbrigativamente spiegati, sono riportati da quegli antropologi, etnopsichiatri, periti medici, mediatori culturali ed avvocati, che hanno una lunga esperienza nel campo del supporto clinico e legale alle minoranze. Da diverse pubblicazioni che affrontano la tematica, si può trarre una organizzazione concettuale delle particolari condizioni entro cui queste vicende hanno luogo: si differenziano, infatti, le condizioni formali da quelle materiali. La formalità burocratica e giuridica, propria del servizio sociosanitario e delle procedure giudiziarie, costituisce il primo ostacolo per un linguaggio condiviso tra le parti coinvolte. Il linguaggio burocratico, così come quello medico e tecnico, unico altro veicolo ammesso nella comunicazione interna a queste procedure, risultano parimenti a quello giuridico, incomprensibili e inaccessibili alla maggior parte dei genitori migranti che si trovano ad affrontare queste situazioni (Tomaselli, 2015). L’utilizzo di questi linguaggi costituisce la condizione primaria per l’incomprensione reciproca, e produce da entrambi i lati un pregiudizio molte volte determinante nella risoluzione del caso considerato. Questo pregiudizio è spesso stato definito come ciò che si introduce nello spazio della ‘differenza culturale’ tra le parti coinvolte. Il pre-giudizio fa sì che il punto di vista del migrante finisca per essere irrintracciabile nei documenti prodotti dalle istituzioni, e che il punto di vista delle istituzioni venga percepito come esclusivamente predatorio dalla famiglia migrante. La ragione per la quale il linguaggio formale costituisce una difficoltà insormontabile per una famiglia migrante è da rintracciarsi nell’operazione che tramite un simile dispositivo linguistico l’istituzione attua sull’alterità: esattamente la denominazione, o l’incasellamento entro misure e standard non condivise. La non comunicabilità tra le parti è dunque data dal fatto che una volta che gli aspetti generali del caso specifico sono inseriti all’interno di caselle, l’istituzione lascerà parlare solo quelle caselle, la terminologia tecnica che esse rappresentano, e la presunta oggettività di quelle descrizioni minimali. L’‘Altro’, dunque, e la particolarità della sua condizione, scompaiono dietro l’etichetta che li dovrebbe rappresentare, ma che in realtà li pre-giudica, pretendendo di parlare al loro posto.

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Italy Minors Migrants: FAIRY TALES: E., Nigeria (© Mirko Cecchi, 2018)

Guardare alle condizioni materiali, invece, significa concentrarsi sugli aspetti pratici e concreti (contenutistici diremmo noi) dei casi specifici, cioè spesso sulle difficoltà economiche che impediscono alla famiglia migrante di ottenere un miglioramento della propria condizione. A queste difficoltà, di ordine prettamente economico, infatti, possono essere ascritte in diversi casi le mancanze che le relazioni scritte degli operatori socio-sanitari descrivono (e formalizzano) come ‘incuria’ o ‘esplicito disinteresse’ del genitore nei confronti del minore. Le mancanze che interessano il minore possono allora apparire come immutabili e date, assolutizzate dalla descrizione che ne viene fatta dagli operatori socio-sanitari. Se infatti la descrizione delle problematiche non scende nel dettaglio, o se non ne vengono investigate le ragioni alla base, queste rimangono vivide agli occhi dei giudici che leggono il rapporto del servizio sociale, senza che però ne sia fornita una reale spiegazione. Ad esempio, e ciò riguarda molte famiglie migranti, il servizio socio-assistenziale avrebbe il dovere di lavorare in cooperazione con altre strutture territoriali e fornire supporto al genitore, quando le difficoltà economiche costituiscono la ragione determinante della situazione deficitaria del bambino. Ci si riferisce qui sia al mancato provvedimento da parte del genitore dei materiali necessari all’educazione del minore (libri, quaderni e penne), che alle ben più inaccessibili (anche per le famiglie italiane) attenzioni mediche che possono essere ritenute necessarie. In entrambe le situazioni, è bene notarlo, non è escluso che la mancanza di denari sufficienti venga appunto mal interpretata come una volontaria incuria da parte del genitore.

Spesso infatti gli operatori dimenticano che non è per mancanza di interesse che il genitore non provvede ai bisogni del minore, ma per mancanza di mezzi economici. Anche questi aspetti, in quanto particolari, vengono assorbiti e resi irriconoscibili dall’applicazione di etichette formali, che non sono pensate e strutturate per rendere conto delle circostanze particolari. La descrizione che dunque viene fornita delle realtà genitoriali migranti, è determinata dalle modalità effettive con cui avviene la comunicazione tra chi compila i resoconti e i report, e chi di quei report è l’oggetto. Ma l’ostacolo linguistico, non è ovviabile semplicemente tramite un traduttore. I significati che la cultura istituzionale assegna all’infanzia risultano inaccessibili a molte famiglie migranti, così come i modelli genitoriali di altre culture del mondo risultano del tutto ignoti e incomprensibili agli operatori istituzionali. In entrambe le sfere dunque, quella burocratica e quella materiale, quando gli aspetti problematici della comunicazione non vengono chiariti, fatti osservare e risolti per tempo all’autorità giuridica, gli esiti dell’osservazione non sono favorevoli per il genitore migrante.

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Donna curda (ph. G. Scattolini)

Dal nostro punto di vista, dunque, alcune criticità ruotano intorno al potere della denominazione, altre sono invece relative all’operabilità dello spazio che circonda la famiglia migrante. In entrambi i casi al centro del conflitto interpretativo risiede l’utilizzo di categorie che si definiscono in primo luogo come misure. L’applicazione di queste misure su chi non condivide gli standard sulle quali si basano, significa porre la prima condizione per una comunicazione non solo inefficace tra istituzione e genitore migrante, ma persino deleteria. Non è neanche necessario dire che non è automatico che la comunicazione tra istituzione e famiglia migrante non funzioni, anzi. Così come non è necessario precisare che non tutti i genitori (migranti o non) hanno a cuore il bene del bambino, siano in grado di valutarlo, o di fare il possibile per assicurargli un ambiente di crescita sicuro. Ciò che invece bisogna notare è che basta davvero poco perché una famiglia migrante finisca nella ‘macchina tritacarne’2 del tribunale minorile, cioè in quel vortice di formalità e cavilli che rischia di aggravare una situazione familiare già in precario equilibrio. La situazione precipita, infatti quando – e sono davvero diversi i casi in questione – oltre ad essere il minore a richiedere attenzioni particolari, anche i genitori versano in più o meno gravi condizioni psicologiche e fisiche. Sebbene questa considerazione sia, per chi si occupa di migrazioni, piuttosto banale – la migrazione stessa comporta traumi e esperienze difficili nella maggior parte dei casi –, ciò non sembra costituire un problema particolare per le autorità giuridiche e per i servizi socio-assistenziali. I saperi antropologici ed etnopsichiatrici, infatti, gli unici che potrebbero anche solo avvicinarsi ad un’opera di traduzione dei linguaggi tra le parti coinvolte, non sono quasi mai interpellati nei procedimenti e nelle indagini istituzionali. Bisogna infatti che l’istituzione realizzi quanto peso (e costo economico) i vizi di forma e il linguaggio burocratico detengano non solo nei procedimenti in cui sono coinvolte genitorialità migranti.

Per mettere in condizione il genitore migrante di interfacciarsi con l’istituzione, infatti, risulta determinante il miglioramento della pre-disposizione comunicativa degli operatori istituzionali. Come si è provato a spiegare sopra, i diversi modelli culturali della genitorialità, e la natura estranea dei valori che questi veicolano, generano una confusione nelle indagini delle istituzioni, al punto da lasciar etichettare entro categorie diagnostiche, o come manifestazioni di disinteresse, le modalità relazionali ed affettive del genitore migrante (Tartari, 2015). Allo stesso modo, la forma delle storie migranti, tanto quanto i contenuti, rischiano con troppa facilità e connivenza di essere etichettati come psicopatologiche e persino, nei casi più gravi, terroristiche. L’inadeguatezza del genitore, a quel punto, è il verdetto scontato.

Le storie possibili, infatti, rimangono per le procedure socio-assistenziali e per le griglie di valutazione giuridica dell’idoneità genitoriali, quelle concepite all’interno della nostra esperienza culturale occidentale. Le storie reali dei migranti incontrano nell’istituzione un interlocutore che non è disposto ad ascoltarle e che, pertanto, le rende inconcepibili e intangibili all’interno di una procedura di valutazione della capacità genitoriale. Il supporto che lo Stato dovrebbe concedere al genitore che necessita aiuto, dunque, si trasforma in una sanzione talvolta esplicita delle sue difficoltà e delle sue esperienze, e che, in ultimo, ha come pena – o come scopo – l’impossibilità di trasmettere la propria storia e cultura ai propri figli.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2109
Note
[1] L’espressione riprende l’utillizzo di Simona Taliani (2015), tratta da Viveiros De Castro (2015)
[2] L’espressione è ricorrente in diversi documenti che trattano il problema delle CTU (Consulenza tecnica d’ufficio) e delle CTP (consulenza tecnica di parte). Entrambe sono strumenti essenziali all’interno dei procedimenti giudiziari di affidamento dei minori.
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Enrico Milazzo, si è prima laureato in Scienze Storiche a Roma dove è nato, con una tesi riguardante il rapporto tra le strutture del linguaggio e la storia, ha poi conseguito il titolo magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia a Torino. In modo interdisciplinare ha affrontato il tema della critica istituzionale su diversi piani, concentrandosi in particolare sulla violenza della denominazione e della razionalizzazione dell’esperienza, prima nel programma di cliniche legali e di supporto medico del Centro Franz Fanon a Torino, quindi con la sua tesi di ricerca riguardante il dramma della diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Dopo la ricerca di campo in Puglia, durata nove mesi durante il 2018, attualmente frequenta a Torino l’International University College, il cui programma mette al centro sia la difesa e il supporto clinico-legale alle minoranze che lo studio delle teorie delle istituzioni occidentali.

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