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I numeri sono importanti. La presenza “straniera” in Italia raccontata dal XXII Dossier Statistico Immigrazione

I-di-cop-dossier-2012di Maria Paola Nanni, Centro Studi e Ricerche IDOS

Il Dossier Statistico Immigrazione è un rapporto annuale, curato dal Centro Studi e Ricerche Idos per Caritas e Migrantes, che fin dall’inizio degli anni ’90 si occupa di raccogliere e presentare organicamente tutte le informazioni statistiche disponibili in Italia sul fenomeno dell’immigrazione. Si tratta quindi di un’opera particolarmente ricca di dati e di analisi di carattere quantitativo, ma anche di considerazioni e riflessioni di più ampio respiro e di indicazioni di politica migratoria. Non un semplice bollettino statistico, quindi, ma piuttosto un volume, di stampo prettamente divulgativo, teso a rendere le statistiche comprensibili e fruibili da tutti e quindi capaci di orientare una riflessione il più possibile responsabile, lungimirante, ancorata alla realtà dei fatti e libera da contrapposizioni di stampo ideologico: un compito impegnativo rispetto a un tema, quale quello dell’immigrazione in Italia, facilmente soggetto a strumentalizzazioni politico-mediatiche e sul quale gravano diffuse visioni distorte, riduttive o quantomeno poco equilibrate, con inevitabili ricadute sul piano dell’opinione pubblica. E basti pensare, come attestato da un’indagine dell’Università “La Sapienza”[1], che in oltre i tre quarti dei casi (76,2%) quando i telegiornali parlano di immigrazione lo fanno per riferire su fatti di cronaca nera e che su quasi 6mila servizi sul tema monitorati, solo 26 non rimandano a un episodio di cronaca o al tema della sicurezza.

I numeri, quindi, sono importanti. Ed è da questa consapevolezza che, più di vent’anni fa, grazie a una felice intuizione di don Luigi Di Liegro, è nato il Dossier. Sono importanti innanzitutto perché aiutano a ricondurre i fatti a una dimensione aderente alla realtà: a inquadrare nelle giuste dimensioni tutto quanto a volte il clamore mediatico tende ad enfatizzare oltremisura, e, parallelamente, a restituire visibilità a quanto, invece, finisce per essere ignorato dalla narrazione prevalente, smontando, di conseguenza, visioni e interpretazioni di stampo pregiudiziale e/o stereotipato.

Un esempio tra tutti ci viene proprio da uno dei fatti che più hanno segnato il panorama migratorio italiano nel corso del 2011, contribuendo significativamente a dar forma all’intero immaginario collettivo nazionale sul fenomeno, e che – tra l’altro – tocca il territorio siciliano in modo del tutto peculiare: gli sbarchi sulle coste italiane di persone in fuga dal Nord Africa in seguito agli eventi eccezionali, gli stravolgimenti politici e sociali, che hanno segnato in quegli stessi mesi le sorti dei Paesi in cui vivevano (Tunisia, Egitto, Libia), a volte già da lavoratori migranti (in particolare nel caso della Libia).

Ora, nonostante il clamore mediatico abbia creato (come in fondo, mutatis mutandis, avviene quasi tutte le estati) una sorta di “sindrome da invasione”, i migranti in questione, in massima parte richiedenti asilo o altra forma di protezione internazionale, in 9 casi su 10 approdati nell’Isola di Lampedusa, sono stati in tutto – e nonostante l’eccezionalità della situazione –, poco più di 62mila, ovvero, per calare il dato nel giusto quadro (anche) quantitativo di riferimento, un numero ben inferiore agli ingressi per lavoro subordinato stabiliti dal governo – tramite Decreto Flussi – all’inizio dello stesso anno (98.080, le quote di ingresso previste dal Decreto Flussi 2010, emanato alla fine dell’anno a ricadere sul 2011, cui si affiancano ulteriori 60mila lavoratori stagionali chiamati all’ingresso nei mesi a seguire); senza contare che, nell’insieme, i visti per inserimento stabile rilasciati nel corso del 2011 dalle strutture consolari italiane all’estero sono stati nell’ordine dei 232mila.

Un esempio chiaro di come un aspetto secondario sul piano dei grandi numeri che oggi caratterizzano l’immigrazione nel nostro Paese possa finire per diventare rappresentativo dell’intero fenomeno, orientando gli stessi interventi governativi in materia, oltre che le percezioni più diffuse a livello di opinione pubblica.

Ma quanti sono gli stranieri regolarmente presenti in Italia?

È questa la prima domanda alla quale il Dossier, ogni anno, si impegna a dare una risposta, acquisendo, confrontando e integrando i dati raccolti dalle fonti statistiche istituzionali e delineando, così, quella cornice quantitativa fondamentale all’interno della quale ricondurre qualsiasi riflessione e valutazione sul tema.

Questo compito, però, per il 2011 è risultato particolarmente complesso. In primis per la persistenza della crisi economico-occupazionale, che interrompe e ridefinisce tanto i percorsi di stabilizzazione di chi è già presente, quanto i progetti di inserimento degli aspiranti migranti, e quindi per la necessità di confrontarsi con i primi risultati del XV Censimento della popolazione. I dati relativi alla popolazione straniera, infatti, si discostano notevolmente dalle risultanze statistiche degli anni precedenti, prefigurando un calo della presenza regolare molto rilevante, che gli effetti dell’attuale fase di recessione, da soli, non sembrano giustificare e che non trova pieno riscontro nel resto delle fonti statistiche ufficiali.

A partire da un dato certo, ovvero le risultanze ufficiali degli archivi ministeriali sui cittadini non comunitari titolari di permesso di soggiorno (che sono aumentati di circa 100mila unità nel corso dell’anno +2,9%, da 3.536.062 a 3.637.724), il Dossier, considerando anche i migranti comunitari, ha quindi stimato in poco più di 5 milioni gli stranieri regolarmente presenti in Italia alla fine del 2011 (5.011.000): un numero sostanzialmente in linea con l’analogo dato al 2010 (+43mila persone rispetto al 2010), in quanto ai nuovi ingressi e alle nuove nascite registrati nell’anno si associano i rientri in patria, i trasferimenti all’estero, i decessi, le acquisizioni di cittadinanza o le cadute nell’irregolarità indotti dalla crisi. E si consideri, a tal proposito e a riprova delle complesse conseguenze della crisi occupazionale anche sui lavoratori non comunitari, che sono circa 264mila i permessi di soggiorno scaduti e non rinnovati nel corso del 2011.

Un’apparente equivalenza, quindi, che però nasconde un fitto intrecciarsi di volti e di storie diverse, di arrivi e di partenze, di emersioni o di cadute nelle sfere nebulose dell’irregolarità, di esperienze di riuscita e di speranza, ma anche di sofferenza e fallimento. Anche a sottolineare come non si tratti semplicemente di numeri, e a ricordarci come dietro ogni cifra e ogni percentuale ci siano sempre e comunque delle persone, con tutto il loro bagaglio di sogni e di bisogni, di esperienze e di speranze, tutta la loro storia e la loro umanità.

In ogni caso, inquadrando queste risultanze nel lungo periodo, il “dato” che più si pone in evidenza è l’arresto della notevole crescita della presenza immigrata rilevata di anno in anno prima dell’imporsi della fase di recessione e che non rimanda tanto alle chiusure normative, spesso enfatizzate dal discorso politico-mediatico, ma di fatto scarsamente incisive (al blocco dei Decreti sui flussi sia nel 2009 che nel 2011 è di fatto corrisposto un provvedimento di regolarizzazione), quanto alle crescenti difficoltà occupazionali e al conseguente elevato turn over. La crisi economica si fa sentire, dunque, e non manca di produrre i suoi effetti anche in relazione alle dinamiche migratorie, anche a riprova di come – al di là degli slogan elettorali – i provvedimenti normativi hanno poca capacità di influire sui flussi se non accordati con le dinamiche economiche e la domanda di lavoro.

Comunque, al di là degli sviluppi più recenti, resta il fatto che la presenza immigrata in Italia sia una presenza di assoluto rilievo, innanzi tutto sul piano quantitativo: 5 milioni di persone regolarmente presenti che attestano, con la loro stessa persona, il profilo multiculturale delle nostra società; un profilo che può forse non piacere, ma resta impossibile da negare – né tanto meno da cancellare – anche perché destinato ad incidere sempre più profondamente in tutti i diversi contesti del vivere sociale. E basti ricordare che, secondo le previsioni demografiche dell’Istat, tra poco più di cinquant’anni, nel 2065, i cittadini stranieri residenti in Italia saranno nell’ordine dei 14 milioni di persone (scenario medio)[2].

Una presenza importante, quindi, le cui origini risalgono ormai almeno a una trentina di anni fa, ma che continua ad apparire fortemente distorta nelle visioni più diffuse a livello dell’opinione pubblica, con gli italiani che in quasi i due terzi dei casi ritengono che gli irregolari siano più numerosi dei regolari[3] (ovvero oltre 5 milioni di persone), mentre le stime più accreditate quantificano questa presenza in circa 330mila persone alla stessa data, vale a dire neanche un decimo rispetto ai regolarmente presenti nel Paese (senza contare la labilità del confine che separa lo status di regolare da quello di irregolare, ben espresso dalla metafora della “porta girevole”).

Si evidenzia, quindi, ancora oggi, la necessità di impegnarsi per favorire un inquadramento del fenomeno che sia ancorato alle situazioni di fatto, più che alle percezioni personali o, peggio, alle strumentalizzazioni politico-mediatiche.

Stranieri nel proprio paese?

Grazie ai dati statistici è anche possibile mettere a fuoco un altro dei molteplici aspetti che ruotano intorno al complesso quadro dell’immigrazione in Italia, oggi al centro di un vivace dibattito pubblico, non esente da equivoci di fondo: la rilevante e sempre crescente presenza delle cd “seconde generazioni”, ovvero – fuori dai tecnicismi – i figli degli immigrati, nati direttamente sul territorio italiano.

Si è già accennato al fatto che la popolazione straniera cresce ogni anno tanto per effetto dei nuovi ingressi, che coinvolgono soprattutto persone in età da lavoro, quanto per via delle nuove nascite. Solo nel corso del 2011, sono stati oltre 79mila, ci ricorda l’Istat, i figli di entrambi i genitori stranieri nati in Italia, circa un settimo del totale delle nascite registrate nel Paese nell’anno (14,5%). Ora, anche al di là delle pur importanti osservazioni di carattere demografico (che ci ricordano del fondamentale apporto dei migranti a un Paese, quale l’Italia, che va incontro al futuro con un tasso di invecchiamento particolarmente elevato), si tratta di un dato di assoluto rilievo, ben superiore, per esempio, a quello degli “sbarcati”, ma che non riceve la stessa attenzione, né gode di un’analoga esposizione mediatica, pur nell’innegabile rilevanza delle questioni che vi ruotano intorno in termini di riconoscimento, di partecipazione e, in ultima istanza, di tenuta della coesione sociale.

Nell’insieme, sono oltre 1 milione i minori stranieri in Italia (quasi 900mila solo i non comunitari), dei quali oltre 700mila nati e cresciuti nel Paese. In altri termini, circa 7 minori stranieri su 10 e 1 cittadino straniero in Italia su 7 – a prescindere dall’età – non sono affatto degli immigrati, ma persone nate e cresciute qui, solo impropriamente ricondotte all’esperienza migratoria dei propri genitori. Stranieri sì, ma solo sul piano giuridico, per effetto di una normativa in materia di cittadinanza rigidamente orientata ai principi dello jus sanguinis.

Si tratta di un segmento della popolazione nazionale in costante crescita (nel 2001, in occasione del penultimo Censimento, erano circa 160mila) e che con sempre maggiore consapevolezza e insistenza richiede maggiori attenzioni e adeguati spazi di partecipazione, a partire dalla richiesta di una revisione dell’impianto normativo vigente in materia di cittadinanza. Attualmente, infatti, non esiste nessun automatismo o percorso agevolato, e perciò incentivante, che garantisca a chi nasce in Italia da genitori stranieri – o anche vi arriva in tenera età – l’acquisizione della cittadinanza italiana, con un’evidente mancanza di rispondenza tra lo status giuridico e l’identità personale e sociale costruita nei percorsi formativi e nelle relazioni intessute nello spazio della propria esistenza: il “nostro” Paese.

Più in particolare, secondo l’articolo 2 della l. 91/1992, lo straniero nato in Italia può richiedere la concessione della cittadinanza italiana solo al compimento del 18° anno, ed entro un anno da quella data, se in grado di soddisfare alcuni requisiti, primo tra tutti la residenza ininterrotta (e certificata) sul territorio nazionale. Fino a quel momento – e non raramente anche dopo quel momento, non essendo certa la concessione – si resta vincolati alla normativa in materia di immigrazione, con un inevitabile senso (pienamente reale) di precarietà, se non di estraneità, e di distinzione rispetto ai propri coetanei.

Sulla scia di queste considerazioni, diverse organizzazioni della società civile e le stesse associazioni dei giovani di seconda generazione hanno promosso un paio di anni fa la campagna “L’Italia sono anch’io”, finalizzata a ribadire l’opportunità che i figli dei migranti nati in Italia o giunti in tenera età possano partecipare a pieno titolo, in qualità di cittadini, alle scelte della comunità di cui fanno parte. Il cuore della campagna è stata una proposta di legge di iniziativa popolare che rivede alcuni passaggi chiave dell’attuale normativa, introducendo il principio del cd ius soli temperato (ribattezzato dall’ex ministro Riccardi jus culturae e più di recente riproposto al centro del dibattito politico dall’attuale ministro Kyenge), ma che – nonostante il grande appoggio ottenuto anche sul piano dell’opinione pubblica – concretizzatosi nella raccolta di oltre 110mila firme a fronte delle 50mila necessarie – attende di essere calendarizzata in parlamento (al pari di altre proposte analoghe predisposte in passato dalle forze parlamentari)[4]. In sintesi, la proposta prevede che siano cittadini italiani tutti i nati in Italia da un genitore regolarmente soggiornante da almeno un anno che ne faccia richiesta, nonché i nati in Italia da genitori stranieri irregolarmente soggiornanti ma a loro volta nati sul territorio nazionale: nessun rischio, quindi, di trasformare l’Italia in una sorta di “sala parto” per donne in gravidanza in fuga dai propri paesi.

In ogni caso, va anche sottolineato che la stessa possibilità dell’accesso diretto alla cittadinanza italiana (e quindi ai diritti e servizi che ne conseguono) per i figli di migranti nati direttamente sul territorio nazionale, non può essere di per sé considerata garanzia di un positivo processo di inserimento/inclusione, per il quale è invece soprattutto necessaria un’attenta e responsabile gestione dei processi di interazione tra la popolazione autoctona e quella immigrata o di origine immigrata, che argini quei processi di esclusione sociale nei quali inevitabilmente monta il conflitto, e quindi contrasti quelle forme di inserimento deficitario, che, alimentate da consolidate visioni pregiudiziali e stereotipate, segnano l’interazione (o anche la mancanza di interazione) con la società d’accoglienza non solo dei migranti di prima generazione, ma anche dei loro figli.

Si impone, al contrario, la necessità di valorizzare la funzione positiva delle seconde generazioni per il pieno inserimento delle stesse famiglie di origine, rispetto alle quali giocano un fondamentale ruolo di mediazione, limitando, parallelamente, le logiche marginalizzanti che agiscono nei loro confronti e che fanno leva, a seconda dei casi, sulla diversità religiosa, dei tratti somatici o anche, a volte, soltanto di un nome di origine straniera.

Già lo stesso crescente impatto delle seconde generazioni attesta chiaramente come tra gli italiani e gli immigrati la connessione stia diventando sempre più stretta, sollecitando anche la necessità di superare la generalizzata tendenza a distinguere quasi necessariamente tra gli uni e gli altri, quasi si trattasse di realtà parallele e indipendenti, e non di persone che quotidianamente vivono all’interno degli stessi contesti.

Se infatti la dimensione multiculturale (e dunque la vocazione interculturale) del Paese sono già nella realtà dei fatti, l’interazione costruttiva, la coesione, la prospettiva interculturale sono esiti che non possono darsi per scontati, ma obiettivi che vanno perseguiti, con impegno e lungimiranza, anche (e anzi a cominciare) dalla capacità di riconoscere definitivamente i figli dei migranti come componente della comunità nazionale su un piano di piena parità di diritti e di doveri, come parte integrante (e integrata) della comunità di cui fanno (e si sentono) parte fin dalla nascita.

Dialoghi Mediterranei, n.2, giugno 2013

Note


[1] Università “La Sapienza” di Roma, Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, dicembre 2009. Si tratta di una delle pochissime indagini condotte sul tema a livello accademico.

[2] Cfr. Istat, Il futuro demografico del Paese. Previsioni regionali della popolazione residente al 2065, in “Statistiche in Report” 28 dicembre 2011, in www. istat.it.

[3] Cfr. Transatlantic Trends Immigrations 2011, http://trends.gmfus.org/transatlantic-trends.

[4] Per un migliore inquadramento della questione e per un confronto con il quadro comunitario cfr. M.P. Nanni, “Da stranieri a cittadini: non solo un percorso formale”, in Caritas e Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2012, Ed. Idos Roma 2012, pp. 112-117.

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