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I Florio: in origine fu vera impresa

copertinadi Rosario Lentini 

Nel 1967 lo storico Carmelo Trasselli così scriveva nella prefazione a un libro sui Florio del giornalista e scrittore Mario Taccari: «Con tutto quel poco che sappiamo e col molto di più che intuiamo, una storia dei Florio oggi non è ancora realizzabile. E l’ostacolo non consiste tanto nella difficoltà di trovare documenti e fatti certi, quanto piuttosto nell’inquadrarli nella nostra generale ignoranza della storia economica siciliana. […] Per la verità storica siamo ancora immaturi».

In effetti, mezzo secolo fa, l’Ottocento siciliano rispetto ad altri secoli precedenti, sotto il profilo storico-economico era ancora poco e mal studiato; ma riguardo a questa particolare vicenda, oltre alle difficoltà interpretative, quella a reperire le fonti documentarie non era affatto marginale. Va ricordato, infatti, che l’epilogo fallimentare dei Florio, negli anni trenta del Novecento, aveva comportato la dispersione degli archivi – di famiglia e delle diverse imprese da loro create – verso altri gruppi, società e istituzioni del Paese (Cantieri Navali di Genova, Cinzano di Torino, Richard-Ginori, Banca Commerciale, Banca d’Italia, Banco di Sicilia, Cassa di Risparmio, I.R.I, etc.), nonché la frammentazione del patrimonio mobiliare e immobiliare in conseguenza di vendite all’asta, di svendite e di pignoramenti.

Lo scrivo a ragion veduta perché il primo tentativo organico di tessere le trame sull’argomento risale alla seconda metà degli anni ottanta, allorché il presidente della Fondazione Lauro Chiazzese dell’ex Sicilcassa, avvocato Francesco Pillitteri, si fece promotore della realizzazione di una grande mostra sui Florio del cui progetto fui incaricato da un comitato scientifico presieduto da Maurice Aymard e del quale facevano parte, fra gli altri, anche gli storici Orazio Cancila e Giuseppe Barone.

La mostra – L’economia dei Florio. Una famiglia di imprenditori borghesi dell’800 – si inaugurò il 21 dicembre del 1990, dopo una lunga e laboriosa indagine, per riuscire a comporre nove sezioni tematiche all’interno delle quali furono esposti 620 reperti (archivistici, bibliografici, cartografici, fotografici, opere d’arte, oggetti e strumenti d’industria enologica, tessile e meccanica, attrezzi di lavoro delle tonnare e delle miniere di zolfo, anche una caldaia per piroscafi e un’autovettura d’epoca).

Antecedentemente all’evento erano comparsi su riviste storiche i primi due studi frutto di ricerche originali, di Romualdo Giuffrida  (1975) e di Michela D’Angelo (1978) e sei a mia firma tra il 1977 e il 1983. Seguirono poi, tra il 1985 e il 1986, due monografie edite da Sellerio in distinte collane (R. Giuffrida – R. Lentini, L’età dei Florio e S. Candela, I Florio) e fu poi la volta del catalogo della citata mostra – anch’esso pubblicato da Sellerio nel 1990 – con contributi pregevoli di altri storici (Francesco Brancato, Simone Candela, Enrico Iachello, Salvatore Lupo, Alfio Signorelli, Rosario Spampinato oltre ai già citati Aymard, Barone, Cancila e lo scrivente), nonché di Gioacchino Lanza Tomasi sulla Evoluzione del gusto nella Palermo dei Florio. Infine, l’ulteriore grande passo in avanti si è compiuto, più di recente, con il bel libro di Orazio Cancila, edito da Bompiani nel 2008 (I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale), che si è avvalso di nuove fonti documentarie utili a comprendere le vicende e a interpretarle in modo più puntuale in rapporto allo svolgimento degli accadimenti politici ed economici di contesto locale, nazionale ed europeo.

1Questa progressione di indagini storiografiche approfondite e rigorose non è stata, tuttavia, accompagnata dalla disponibilità di parte dell’opinione pubblica a rivedere criticamente il repertorio di informazioni e di interpretazioni del tutto prive di fondamento che hanno alimentato e ancora alimentano il mito degli ultimi Florio. Ne è venuta fuori una narrazione infarcita di stereotipi, che attiene a una storia “altra” non documentata, né documentabile, che si è andata definendo negli ultimi decenni del Novecento. Lo spostamento del baricentro di attenzione sulla fine dei Florio, piuttosto che sull’intero ciclo ottocentesco di crescita e sviluppo di una dinastia borghese imprenditoriale, che ha avuto in Vincenzo – nel periodo preunitario – e nel figlio Ignazio, fino al 1891 (anno della sua morte), due indiscussi protagonisti della storia industriale e finanziaria nazionale, rappresenta il danno maggiore provocato da questa narrazione in odor di “sicilianismo”.

È, quindi, indispensabile riportare in equilibrio il piano inclinato delle argomentazioni semplicistiche puntando i riflettori sulla nascita e sullo sviluppo di un piccolo impero industriale nel cuore della Sicilia preunitaria, dalla conduzione della bottega di droghe e generi coloniali nel cuore della vecchia Palermo, alla creazione di un grappolo di aziende propriamente industriali, in un tempo in cui soprattutto i ricchi mercanti britannici detenevano molti mezzi finanziari e impiegavano capitali di rischio.

Vincenzo Florio (1799-1868)

Vincenzo Florio (1799-1868)

Don Vincenzo fu il fondatore di una fattoria vinicola a Marsala, di una fabbrica di prodotti chimici, nonché della fonderia Oretea, della filanda e dell’omonima Compagnia di navigazione; gestì miniere di zolfo e tonnare. È sulla sua capacità di progettare e di realizzare che si devono misurare gli elementi di novità rispetto al passato. Riuscì ad ampliare e sviluppare la sfera delle attività mercantili ereditate, inserendosi abilmente nei circuiti del commercio internazionale e, contemporaneamente, a svolgere il mestiere di industriale moderno, attento ai progressi della tecnica e alle innovazioni osservate nelle nazioni più avanzate d’Europa, per introdurli nel proprio contesto produttivo.

Cosa permaneva di antico in Vincenzo Florio, nel modo di interpretare il suo ruolo? Forse il suo essere prestatore di fondi particolarmente attento alla buona remunerazione dei capitali e all’acquisizione di capienti garanzie? Per certi versi sì; non si discostava, però, dalle pratiche comuni e ricorrenti nella società siciliana del suo tempo. Se confrontiamo l’avidità di cui veniva accusato con il modo di operare di un protagonista della finanza quale fu l’inglese Benjamin Ingham, che già da anni teneva letteralmente in pugno una decina di famiglie aristocratiche che a lui ricorrevano per prestiti al 7% a fronte di ipoteca, non si colgono grandi differenze. C’è, invece, di comprensibilmente antico il dato antropologico-culturale del bisogno di mantenere e sviluppare la rete originaria di parenti, di fiduciari, di corrispondenti e di soci “bagnaroti” che gravitavano attorno a lui, in ragione delle sue origini calabresi.

Con l’avvento dei Florio la predominante commistione di arretratezza e modernità che spesso caratterizzava le iniziative imprenditoriali siciliane, appare ampiamente superata. Dovremmo semmai chiederci, per rimanere in tema, a quale modello di cultura imprenditoriale si ispirasse il senatore Ignazio (figlio di Vincenzo) nel tessere quella fitta rete di relazioni politiche che gli permise di diventare in poco tempo il più importante armatore italiano, più potente e più ricco del genovese Rubattino. Come ignorare, infatti, che a tale traguardo egli giunse anche grazie all’appoggio del direttore generale delle Poste, il quale aveva agevolato la compagnia Florio, autorizzando l’aumento del numero di viaggi settimanali delle linee Palermo-Napoli e Messina-Napoli. E come sottovalutare il fatto che i 13 moderni piroscafi della fallita compagnia “La Trinacria” di Pietro Tagliavia furono acquisiti da Florio a un prezzo molto ridotto rispetto ai valori di mercato e che uno dei commissari liquidatori – Giovanni Laganà – era allo stesso tempo un alto dirigente della compagnia Florio?

Ignazio-Florio-1838-1891

Ignazio Florio (1838-1891)

La storia d’Italia è piena di conflitti di interesse e certamente la partita che si stava giocando tra gli anni settanta e ottanta dell’Ottocento sulla marineria e sulle sovvenzioni statali alle società di navigazione non era pensabile che potesse essere vinta senza un adeguato livello di mediazioni e senza una rete di relazioni. E quando i due ex concorrenti Florio e Rubattino raggiunsero l’intesa nel 1881 per dar vita, con la fusione delle rispettive società, alla Navigazione Generale Italiana, venne anche il tempo di ricambiare i favori ricevuti e – per ciò che riguardava l’armatore palermitano – i principali referenti politici erano stati non solo Crispi e Damiani, ma anche diversi parlamentari che avevano sostenuto la realizzazione del progetto.

L’analisi della vicenda armatoriale assume particolare importanza non solo perché il nome dei Florio è legato indissolubilmente alla storia della navigazione pre e post-unitaria, ma soprattutto perché ci si imbatte nei nodi della politica economica nazionale, di uno sviluppo del Paese che a 20 anni dall’Unità procedeva a macchia di leopardo e di una borghesia industriale ancora molto legata alle posizioni di rendita e ai localismi regionali.

Cosa accadde, quindi, nel passaggio dalla seconda alla terza generazione, cioè dopo la morte – a soli 53 anni – del senatore Ignazio nel 1891? Il primogenito omonimo Ignazio jr. che subentrerà ventitreenne alla guida del gruppo non aveva alcuna esperienza di conduzione degli affari e se è intuitivo che non si nasce imprenditori, è ancor più improbabile improvvisarsi finanzieri. Con queste premesse, perciò, tutto diventava più difficile, con l’aggravante che il ruolo e le decisioni dei fiduciari e degli amministratori risultarono di maggior peso, considerata la sua frequente assenza da Palermo per viaggi – non proprio di lavoro – in Italia e all’estero.

Ma se è abbastanza facile evidenziare le responsabilità dell’ultimo Florio e la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo, è pur vero che l’impero economico-industriale da lui ereditato non era immune da germi di segno negativo. Il valore del cospicuo portafoglio azionario della N.G.I., tre mesi dopo la morte del padre, risultava quasi dimezzato per le incertezze sul futuro delle sovvenzioni pubbliche, per la contrazione dei traffici a causa della crisi economica che si manifestò dalla metà degli anni ottanta e per l’invecchiamento della flotta: «Praticamente – scriveva il senatore Maggiorino Ferraris nel 1893 – il progresso della Navigazione Generale si è arrestato appena due anni dopo la sua costituzione! Nel periodo successivo si è limitata alla sola costruzione dell’Elettrico per il servizio diretto Napoli-Palermo». Non si attuò, dunque, il tanto auspicato ammodernamento della flotta, nonostante le sovvenzioni pubbliche, mai inferiori a otto milioni di lire l’anno, e anche le operazioni di riparazione dei numerosi piroscafi cominciarono a rarefarsi non risultando conveniente che si effettuassero nel compartimento di Palermo, per ragioni di costi e per l’inadeguatezza delle infrastrutture cantieristiche.

Il primo grave errore di Ignazio jr. risale a gennaio del 1893 – cioè agli inizi della sua gestione – con la decisione di sottoscrivere un’intesa con la Società Generale di Credito Mobiliare per l’apertura di una sede a Palermo nei locali del Banco Florio; una sorta di fusione bancaria più o meno mascherata, nonostante i rischi dell’operazione gli fossero stati rappresentati. Peccato che il successivo mese di novembre il grande istituto nazionale veniva posto in liquidazione, trascinando Casa Florio nella tempesta finanziaria, con conseguenti gravi perdite e, di fatto, con l’inizio dell’indebitamento.

Ignazio Florio jr. (1869-1957).

Ignazio Florio jr. (1869-1957)

A questo errore ne seguirono altri, determinati dalla mancata percezione (e non solo da parte sua) dell’evoluzione del sistema industriale del Paese, come già si poteva intuire visitando i padiglioni dell’Esposizione nazionale di Palermo del 1891-92. Nonostante l’enfasi e la retorica che accompagnarono l’evento, la borghesia imprenditoriale locale non poteva celebrare alcun trionfo nei settori produttivi più avanzati, perché il confronto con le aziende settentrionali rimarcava il divario crescente tra le due aree del Paese. Inoltre, l’impianto dell’esposizione mostrava una modernità ambigua sulla quale pesava la retorica del passato, come si rileva anche in alcune scelte di Ernesto Basile, di attingere al repertorio architettonico degli stilemi arabo-normanni. Ambigui anche il volto produttivo e l’identità della città che l’esposizione offriva ai visitatori. Mancava una decisiva scelta di campo di quella élite che fino ai primi anni ottanta era riuscita a emergere nei vari settori della produzione, dei commerci e della finanza e che, a fine secolo, non mostrava di essere più in grado di alimentare il processo di modernizzazione della città.

Palermo, quindi, alla vigilia del grande movimento di rivendicazione sociale dei Fasci dei lavoratori, drammaticamente soffocato dallo stato d’assedio decretato a gennaio del 1894, era già entrata nella sua fase declinante. L’idea di progresso del ceto produttivo siciliano e palermitano appariva abbastanza astratta, nell’oscillazione tra agricoltura e  industrialismo. Questa indeterminatezza faceva il paio con il persistere del modello di imprenditore non specializzato. Paradossalmente, la convinzione che quella borghesia palermitana – Florio jr. in testa – abbia espresso il meglio di sé a fine Ottocento, persiste ancora oggi, contro ogni ragionevole dubbio; tesi avvalorata dalla prova considerata più inattaccabile: lo sviluppo del liberty, che confermerebbe la fase positiva attraversata dalla città dall’unificazione in poi, momento magico irripetibile e non più replicato.

Questa tesi non regge alla prova dei fatti perché alla felice stagione del liberty corrispose un ciclo recessivo dell’economia siciliana e della città, nonché uno dei periodi peggiori sul piano sociale. I protagonisti del mondo artistico, culturale e scientifico costituirono sicuramente una delle componenti più dinamiche della città, perché seppero tessere i fili necessari a mantenere i contatti e le relazioni anche con le grandi capitali europee, Londra, Parigi e Vienna, senza i quali la città sarebbe sprofondata ancor più in basso. Solo con questa chiave di lettura si può comprendere pienamente l’originalità del modernismo siciliano e attraverso quale percorso abbia raggiunto il suo più raffinato livello espressivo a fine secolo.

Nei fatti, la mia convinzione è che la storia dei Florio sia stata tutta ottocentesca, nel senso cioè di un gruppo industriale e finanziario che conseguì pienamente i propri obiettivi finché alla guida vi fu il senatore Ignazio e ciò che accadde dopo, fino alla liquidazione nel 1934 della “Finanziaria Florio”, rafforza questo convincimento.

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Ovale Navigazione Generale Italiana

Nel 1899, nell’illusione di potere ancora rilanciare e rafforzare i propri tradizionali interessi armatoriali, Ignazio jr. costituiva la “Società dei Cantieri Navali”, per acquistare il terreno nella borgata della Acquasanta, su cui sarebbe stato costruito il primo vero cantiere della città, e, quasi contemporaneamente, promuoveva la nascita del Consorzio agrario siciliano e diventava editore del quotidiano “L’Ora”, nella primavera del 1900, affidandone la direzione a Vincenzo Morello (Rastignac), giornalista già molto noto a livello nazionale. L’obiettivo era ambizioso quanto velleitario: da una parte il Consorzio, per tentare di conciliare gli interessi dei latifondisti con quelli degli industriali; dall’altra, l’organo di stampa per dare voce al partito siciliano, che avrebbe dovuto difendere gli interessi dell’Isola, e per coagulare le energie dei cosiddetti “socialisti marca Florio” con quelle dei proprietari terrieri e di ciò che rimaneva della l’aristocrazia agraria. Questo progetto ambizioso e velleitario veniva sviluppato mentre l’indebitamento di Casa Florio e l’arretramento delle loro aziende divenivano allarmanti e mentre era costretto a cedere gradualmente in pegno le sue azioni. Ma soprattutto, Ignazio jr. non adottò l’unica strategia che sarebbe servita davvero: abbandonare le tante partecipazioni societarie, liberarsi delle imprese minori per concentrare le energie residue in poche società e, quindi, “specializzarsi” e legare il nome della Casa esclusivamente a una o due aziende, tentando di salvare il salvabile.

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Nulla sembrava essere rimasto della “filosofia” del nonno Vincenzo che, interrogato in sede di commissione parlamentare di inchiesta sulla rivolta del 1866, indicava i non pochi mali che affliggevano la società palermitana: l’ozio, l’ambizione, il lusso e la morbosa smania di tenere carrozza. Le biografie di questi protagonisti sono già indicative e portano a individuare la frattura nel passaggio tra la seconda e la terza generazione: il primo, Vincenzo, rimase alla guida della Casa per 40 anni ininterrotti, fino al 1868, cui fece seguito la gestione del figlio il senatore Ignazio, per altri 23 anni. La costruzione del loro gruppo commerciale-industriale-finanziario avvenne principalmente nel corso di queste due generazioni.

Appaiono, perciò, abbastanza fragili le tesi sicilianiste del complotto nordista e governativo che avrebbe provocato il fallimento della Casa; argomentazione che, fino agli anni sessanta del Novecento, nessuno aveva avuto l’ardire di sostenere e di promuovere fino al punto da trasformarla in teorema.

Il mito dei Florio comincia a strutturarsi dagli anni settanta dello scorso secolo e resiste perché ci sono tutti gli elementi del romanzo ottocentesco “simil Buddenbrok” con la decadenza della prestigiosa famiglia borghese mercantile di Lubecca che si consumò nel mezzo di quel secolo. Ma nel caso dei Florio c’è anche di più: il dandy e corteggiatore Ignazio, la bella Franca Jacona e la sua folta schiera di ammiratori (da D’Annunzio a Boldini), la tragedia dei tre figli morti e quindi l’assenza dell’erede maschio; e c’è il genio dello sport il creativo Vincenzo con la seconda moglie Lucie Henrie che lo introdusse al mondo degli artisti e dei futuristi.

Niente male come sceneggiatura per un film, ma la mitizzazione dei Florio ultima generazione rappresenta una vera e propria distorsione della storia della Casa i cui due veri industriali rimangono quasi in ombra, nonostante i loro indiscutibili meriti imprenditoriali.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Il suo ultimo studio edito da Torri del Vento è dedicato alla Storia della fillossera nella Sicilia dell’800.

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