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Franco Ferrarotti. L’autunno del patriarca, un’autobiografia sotto forma di diario

 coperttinadi Piero Di Giorgi

«Ecco l’anno della svolta. Veramente? In realtà è solo l’anno della pensione». È l’incipit della premessa dell’ultimo libro di Franco Ferrarotti, dal titolo, appunto, L’anno della svolta (Guida editori 2016). E in quell’interrogativo mi sembra si colga tutta l’ambivalenza del vissuto del professore emerito, iniziatore della sociologia in Italia e titolare della prima cattedra, rispetto all’evento pensione avvenuto nel 1999, all’età di 73 anni, per limiti di età, e dopo quarantacinque anni d’insegnamento. E proprio nello stesso anno 1999 aveva pubblicato, con i tipi della Laterza, L’ultima lezione.

In verità, più che di un libro nel senso comune, fatto di capitoli, con titoli, paragrafi e quant’altro, si tratta di un diario quasi giornaliero, dal primo gennaio al 31 dicembre del 1999. Come in ogni diario, sono contenuti appuntamenti, conferenze da fare, viaggi, libri e articoli da scrivere ma anche annotazioni, riflessioni, giudizi sferzanti, momenti di vita personale e di vita pubblica. E proprio perché di diario si tratta, non è facile imbastire un discorso organico dei vari argomenti, tutti di grande interesse, su cui si sofferma l’autore e da cui emerge quell’ambivalenza, cui prima accennavo, tra sogni e realtà, tra senso di smarrimento e accenti depressivi da un lato e grande vitalità e progettualità dall’altro.

La sua «svolta» vuole essere un percorso di autocoscienza, «verso la vita interiore», ma l’autore avverte anche una «fortissima tendenza verso l’autodistruzione», calando «la saracinesca sul passato» (Olivetti, OECE  ovvero Organizzazione di cooperazione economica costituita nel 1948 e poi trasformatasi, nel 1960, in OCSE cioè Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, Parlamento, Università), ma anche convinto che «bisogna morire per rinascere». E «alla fine della vita mi avvedo che scrivere è rivivere. Non è solo un bisogno d’immortalità. È solo il bisogno di esistere».

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Franco Ferrarotti

Dal diario emerge un senso di delusione, come quando si chiede: «quanti veri fraterni amici? Pochi. Forse meno delle dita di una mano» o quando lamenta la solitudine degli anziani ma aggiungendo: «Perché? Non chiedo di meglio»;  e parlando di Rossini, che si ritira a quarantaquattro anni, si mette a letto a Parigi e non si alza più se non per morire, commenta: «quale straordinario esempio di sobrietà!» o ancora, quando si rammarica perché dei suoi libri non si parla mai nei grandi giornali come Repubblica o Il Corriere della Sera, che «sono saldamente in mano alla miserabile mafia intellettuale italiota», ma si consola dicendo che «l’indipendenza si paga» e che forse, alla sua morte, potrà venire un certo riconoscimento. E poi la critica alla commercializzazione delle case editrici o il rammarico per le difficoltà che incontra la sua candidatura all’Accademia dei Lincei perché, come gli confidano gli amici, si è fatto nemici dappertutto. E annota: «aveva ragione mio padre quando mi guardava studiare da adolescente e mugugnava con ovvio disprezzo: studia, studia, poveretto. Finirai per essere nient’altro che un uomo di carta».

Tuttavia, il professore è sempre pieno di curiosità, da cui zampillano riflessioni continue e profonde dall’osservazione della vita reale. È fortemente attivo e pieno di impegni e di progetti: il pezzo per Laterza, quello su New Age con Donzelli, gli articoli su Il Sole 24 ore, viaggi in varie parti del mondo, il progetto per la sua opera omnia, l’indice di un libro sul tempo e la morte o il progetto sulla sua autobiografia. Pensa a un volumetto su Il Mar Mediterraneo, crocevia di culture. Matura anche l’idea di un libretto sulla morte partendo dal Golgota, e proseguendo con la rivalutazione della morte di Rilke, con la svalutazione della morte nella società industriale, con gli organi umani come pezzi di ricambio, con  il grido di Cristo morente, con la solitudine del morente di Elias, con il caro estinto di Evelyn Waugh. Riflette sul rapporto Marx-Böhm-Bawerk, sullo storico della filosofia Eugenio Garin, che ha dimostrato che è frutto di ignoranza e di pregiudizi parlare degli umanisti in chiave antiscientifica; sui dualismi del cristianesimo (anima e corpo), del cartesianesimo (res cogitans e res extensa), del marxismo (Struttura e sovrastruttura), e ancora le considerazioni su Spinoza, precursore di Nietzsche e forse anche “superatore”.

2Vi sono poi le riflessioni sull’eurocentrismo e sull’antropocentrismo, sullo sgretolamento dell’io in nome dell’uno-tutto e dell’unione cosmica, e si chiede in tal caso dove ancorare l’istanza etica e la responsabilità del comportamento. E ancora «l’umanità zoppica perché ha due gambe: la gamba tecnologica, che è molto lunga, e quella spirituale, che è molto corta.» E poi il teorema delle tre generazioni: la prima lavora molto e produce la ricchezza della famiglia; la seconda la conserva, la terza la scialacqua. Non mancano giudizi nichilisti del tipo: tutti vivono nel hic et nunc, cioè non vivono, semplicemente compaiono. Non sono persone, sono comparse. E ogni tanto si risveglia il nucleo depressivo e nel diario annota «giorni sciapi e privi di prospettive, giorni come cunicoli stretti, giorni come corridoi dove si può solo strisciare» …Greve, sporca, soffocante l’aria che si respira, a malapena, con difficoltà, sì che ogni respiro è un rantolo agonico».

Ferrarotti, avendo vissuto la sua vita tra gli studenti, non poteva tralasciare una riflessione sui giovani, dei quali si dice che rifiutano la vita adulta, che sono afflitti dal complesso di Peter Pan. Ma cosa offre loro – si chiede il professore –  la società adulta? Oggi c’è il precariato permanente, la sola sicurezza è quella del provvisorio. La società adulta non sembra più in grado di offrire ai giovani mete vitali, ideali per i quali valga la pena di sacrificarsi e che diano senso di orientamento e tensione alle grandi energie e alla naturale generosità dei giovani. La società odierna è una società di pillole: per dimagrire o ingrassare, pillole contro la gravidanza o per favorirla, pillole per dormire o per restare svegli.

Anche i suoi sogni sono autobiografici, erotici, filosofici. Insomma una vita attiva e intensa. Egli stesso ne è consapevole, scrivendo che forse eccede nell’accettare impegni a breve termine. E poi «a sera stanco, ma voglioso di partire, scomparire, lasciare la scena e le luci della ribalta, per quanto piacevoli e droganti». Oppure scrive che dovrebbe raccogliersi interiormente e riprendere l’orientamento del vivere. Imparare a dire di no.

Dal diario del professore emerito, emerge anche il rapporto conflittuale con Gianni Statera, prima suo allievo e poi successore dopo le sue dimissioni e che ha guidato la fuoruscita di sociologia dalla vecchia facoltà di Magistero per farne una facoltà autonoma fino all’accorpamento con scienze politiche e scienza della comunicazione che, a sua volta, si era scissa da sociologia con Mario Morcellini, già stretto collaboratore di Statera e che ne diventerà preside. Alla morte di Statera, tocca a Ferrarotti l’arduo compito di commemorarlo, annotando che «è difficile, forse impossibile penetrare e comprendere a fondo il segreto di una vita…ma a questo siamo chiamati per la semplice verità che siamo tutti dei morti che attendono di entrare in funzione». Seguono, tuttavia, anche giudizi sferzanti come «a ben pensare, la cosa più bella, Gianni Statera l’ha fatta da morto: il funerale civile senza preti e senza incensi, seguito dalla cremazione». Annota poi nel diario, che prende la parola il prof. Antonio De Lillo, preside di Milano Bicocca, che evidenzia l’osservanza estrema e fedele di Statera alle intese prima dei concorsi, non accorgendosi  –  chiosa Ferrarotti  – che «sta esaltando le virtù dei mafiosi». Ma annota anche che «l’elaborazione del lutto è un processo lento, tortuoso, a tratti molto difficile. La morte di un professore, non importa se amico o nemico, lascia una sedia vuota. È pesante. È un dato di fatto, che si realizza lentamente, a poco a poco».

3Nel diario, di tanto in tanto, fa capolino anche il ricordo di Adriano Olivetti, odiato dal cognato, che odiava anche Ferrarotti, considerato “l’anima nera” di Adriano. Si rammarica della desolazione che regna a Ivrea di fronte alla facciata dell’Olivetti, della ruggine che avanza, dell’entropia prodotta dalla freccia del tempo e per il fatto che i più giovani non ne abbiano mai sentito parlare e conclude con l’aforisma latino Sic transit gloria mundi. E ancora il suo giudizio sul terrorismo, che vuole bloccare il processo democratico, spargere incertezza e paura, svuota la politica ed è un attentato serio alla voglia di vivere e di fare.

Non mancano nel diario annotazioni sulla vita privata, come «la giovane puledra» che lo tradisce con l’antropologo Vincenzo Cannata Bartoli. Il professore non nasconde la sua dichiarata sensibilità verso il pianeta donna, e annota che il suo rapporto con le donne è stato difficile ma sempre bellissimo. Di tanto in tanto, viene fuori anche l’humor sottile del professore: «scrivo tre paginette sul sesso per la d.ssa Daniela Sessa della Pfizer. Potenza dei nomi!»

E non manca neanche di annotare le attività quotidiane dell’uomo comune, come uscire per comprare un po’ di latte magro, un liquido per lavare i piatti, quattro yogurt, bottiglie di acqua Fiuggi o che dà l’acqua al giardino, che è ridotto male, con foglie gialle e altre secche, come lembi di cadaveri insepolti. E poi riporta anche episodi di cronaca familiare, come l’andare al ristorante con la figlia più giovane; racconta dei nipoti di una delle figlie e del più grande, gelosissimo del fratellino che, a un tratto, sbotta: «non potremmo buttarlo nel cassonetto?» Parla di depressione con una delle figlie e poi dell’ultimo incontro con la madre che gli chiede di portarla a casa e a cui risponde che non ha una casa ma vaga senza fissa dimora tra un continente e l’altro. E allora, la madre rassegnata risponde: «Lo so, lo so, povero figlio mio».

4Tra i diversi temi accennati nel diario, Franco Ferrarotti, nel suo prologo, si sofferma su un nodo importante, che è stato oggetto di studi interdisciplinari e cioè il mutamento storico, antropologico, psico-sociale del ruolo della figura paterna. Dopo la contestazione dell’autoritarismo nella famiglia, nella scuola e nella società, da parte dei giovani del ‘68-69, tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, emerge la nostalgia del padre, su cui si è soffermato recentemente lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati nel suo ultimo libro del 2016, Il complesso di Telemaco e le cui conseguenze dannose per le nuove generazioni e per la società erano state già previste dallo psicoanalista e sociologo tedesco Alexander Mitscherling nel suo noto libro del 1970, Verso una società senza padre.

Ferrrarotti, in particolare, sottolinea le contraddizioni che caratterizzano l’esordio del terzo millennio, non solo quelle che provoca la globalizzazione in termini di disuguaglianze, migrazioni di massa, insorgenze locali, guerre e terrorismo, ma anche la divaricazione tra la società che invoca il ritorno del padre e la biologia che ne dichiara l’inutilità. Ribadisce che l’assenza del padre, nel senso di un’autorità responsabile, provoca vuoti paurosi, nel mentre l’ingegneria genetica sta rendendo i padri irrilevanti, attraverso l’inseminazione dello sperma all’uopo conservato. Ne conclude che una società che si presume scientifica è ancora caratterizzata da una dialettica tra razionale e irrazionale e in cui il rigore morale tende a essere sostituito dal rigore matematico. E aggiunge, con ironia, che “l’invidia del pene”, di cui parlava Sigmund Freud, a proposito delle donne, fa parte ormai dei reperti archeologici, vista l’eclisse della figura paterna e della patria potestà e quanto prima anche la perdita del cognome paterno, proprio mentre, oggi, si fa strada l’idea che l’evaporazione del padre sia una perdita grave.

Alla fine c’è una gradevole sorpresa: nel diario autobiografico vi sono anche delle poesie dell’autore niente male, hanno ritmo e liricità ed esprimono in versi la sua «vita errabonda», «come un Ulisse stanco che nella sua stanchezza si vergogna, certe sere piango senza motivo come si sogna»; gli odori dei luoghi, del cibo, delle strade; i mortali che s’aggrappano a una vita che è già morte; la madre colpita da ictus: «la mano destra è rigida, non obbedisce ai comandi cerebrali, imbocco mia madre come sessant’anni fa ella imboccava paziente me febbricitante nella cucina di S. Pietro»…. «Il ciclo si chiude così nella penombra bianca della stanza da creatura a creatura».

In definitiva, credo che dalla lettura di questo diario dell’illustre professore appaia sotto traccia un senso d’insoddisfazione, uno sfondo depressivo, che assume i colori di un tramonto nuvoloso dopo una luce abbagliante del giorno trascorso. Una conferma si può scorgere chiaramente nell’ultimo giorno del diario, 31 dicembre: «Ora quasi tutto è compiuto. Sono alla frutta». «Tutto è accaduto. Il successo è un succeduto, un miserabile participio passato». Purtroppo, è questa la condizione umana.  L’eterna lotta tra Eros e Thanatos, tra istinto di morte e conoscenza.

Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017

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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).

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