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Entomofagia. Una desuetudine alimentare

 Bangkok, Thailandia.

Bangkok, Thailandia

di Davide Sirchia

«Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi lo terrete in abominio! Per i seguenti animali diventerete immondi: chiunque toccherà il loro cadavere sarà immondo fino alla sera e chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà immondo fino alla sera». Così si legge nel Levitico (20-25).

L’opinione pubblica italiana sta discutendo, in quest’ultimo periodo, della ricerca condotta dalla Fao che consiglia di introdurre e adottare l’uso degli insetti nella catena alimentare dell’uomo. Diverse società etniche, come ben noto, già si cibano di insetti secondo le loro norme tradizionali: è il caso della Cina e di alcuni Paesi asiatici, è il caso del Camerun e altri Stati africani, è il caso del sud America. Questa riflessione mira a prendere in esame la realtà italiana e in genere dei Paesi membri dell’Europa.

L’entomofagia, cioè il cibarsi di insetti edibili, è stata discussa dalla Commissione europea, che ha decretato, con il regolamento 22/83, che dal primo gennaio 2018 i cittadini possono chiedere al proprio Stato membro l’autorizzazione di commercializzare gli insetti a scopo alimentare, sciogliendo alcuni nodi giurisdizionali per il commercio dei cosiddetti novelfood. Le norme in Italia inerenti il commercio degli insetti edibili, rientrano nei regolamenti per la gestione di tutto ciò che è destinato per l’alimentazione umana. Lo stesso criterio utilizzato per la carne ed ortaggi, come il sistema dell’etichettatura e quindi la rintracciabilità alimentare ,dovrebbe regolamentare anche gli insetti da vendere al supermercato.

Ad oggi, per i consumatori sono a disposizione le etichette che, oltre ad indicare l’origine del prodotto alimentare, la data di preparazione dell’alimento e quella di scadenza, offrono informazioni sul produttore e sull’eventuale importatore. Questo genere di etichettatura dovrebbe anche essere prevista per gli insetti edibili, anche se le norme della sicurezza alimentare italiane includono gli insetti tra i cosiddetti “agenti infestanti”, sia essi blattoidei, ditteri, lepidotteri o imenotteri.

Sono numerosi gli opuscoli, distribuiti da diversi organi competenti territorialmente in materia di sanità, come le ASL locali, ove spesso i vari insetti sono descritti come agenti infestanti, e vi sono riportate le relative modalità per la loro eliminazione [1].

In Italia, si vive con terrore la presenza di insetti nei luoghi adibiti alla lavorazione e somministrazione degli alimenti. Se in un bar o ristorante dovessimo notare un insetto, di qualsiasi ordine, che si aggiri per il locale, la reazione sarebbe abbastanza condivisa. Il cibo che stiamo gustando probabilmente non verrà più consumato, perché si può pensare che quell’insetto sia stato anche nelle cucine e quindi a contatto con la nostra pietanza, destinata ad essere contaminata, provando verosimilmente un senso di brivido e di ribrezzo che comporterà l’abbandono del ristorante, senza ascoltare le spiegazioni o le scuse del gestore.

1Queste reazioni istintive, quali l’inappetenza improvvisa, il brivido e la sensazione di ribrezzo, non essendo volontarie sono da ricercare, presumibilmente, nell’esperienza evolutiva dell’uomo. Sembra accertato che nel Paleolitico, l’uomo fosse solito praticare l’entomofagia. Tuttavia, nel corso di questa consolidata pratica da parte dell’uomo, potrebbe essere stata registrata nelle proprie conoscenze una sorta di pericolosità di alcune specie di insetti rivelatisi nocivi o perfino mortali per l’uomo stesso. Tra queste, ad esempio, le larve del lepidottero Hyphantriacunea (un tipo di falena) la cui puntura provoca un dolore pungente paragonabile ad un dolore provocato da uno sciame di api o di vespe, o ancora le cosiddette ‘formiche proiettile’ la cui puntura provoca un dolore acuto addirittura fissato come quarto grado nella scala Shmidt [2].

Queste conoscenze remote, che oggi si manifestano in comportamenti istintivi, possono essere la sola lettura del fenomeno? Se così dovesse essere, le teorie antropologiche affini al “buono da pensare e buono da mangiare” non avrebbero ragion d’esistere.  La complessità dell’argomento è ancor più profondo. Alcuni antropologi, come ad esempio il materialista culturale Marvin Harris, hanno tentato di dimostrare come alla base delle scelte alimentari della gente vi siano delle motivazioni di tipo pratico; i benefici in termini nutritivi, ambientali e monetari danno adito, in maniera fondamentale, alla scelta per una specifica opzione alimentare.

L’intento di Harris, pertanto, può essere così chiarito:

«dimostrare che un cibo diventa buono da pensare se in partenza è conveniente in senso pratico che sia buono da mangiare: le ragioni economiche precedono quelle simbolico-culturali» (Harris: 1990:5).

L’aspetto economico sarebbe dunque alla base delle scelte alimentari, ma se così fosse, gli insetti, che sono abbondanti e senza particolari costi di allevamento, perché facilmente reperibili in natura, dovrebbero essere alla base dell’alimentazione umana in generale. Se si desidera provare a spiegare le preferenze e avversioni relative al cibo, seguendo le ipotesi di Lèvi-Strauss, questa spiegazione non dev’essere cercata nella qualità delle derrate alimentari, bensì nelle strutture mentali di un popolo. Per dirlo in maniera ancor più chiara e netta: un cibo ha ben poco a che fare col nutrimento. Noi non mangiamo ciò che mangiamo soltanto perché in qualche modo ci conviene, né perché ci fa bene, né perché è a portata di mano, né perché è buono. Il pensiero di Lèvi-Strauss si discosta in toto dalla tesi di Harris, in quanto, come sostiene l’antropologo francese, non dobbiamo ricercare le motivazioni negli aspetti economici ma nelle strutture logico-simboliche che sottostanno alla formazione delle disposizioni psico-cognitive con cui le diverse società elaborano i propri miti.

Non è nostra intenzione negare che il cibo esprima messaggi né che abbia significati simbolici. Ma che cosa vengono prima: i messaggi e i significati oppure le preferenze e le avversioni? Parafrasando e ampliando un po’ il campo di una nota affermazione di Claude Lévi-Strauss, possiamo ribadire che alcuni cibi sono «buoni da pensare» mentre altri sono «cattivi da pensare». Ma aggiungiamo che il fatto che siano buoni o cattivi da pensare non dipende dal fatto che sono buoni o cattivi da mangiare.

I cibi preferiti, buoni da mangiare, sono cibi che fanno pendere la bilancia dalla parte dei benefici pratici, rispetto ai costi di produzione, a differenza di quanto non avvenga nel caso dei cibi aborriti, cattivi da mangiare. Gli stessi onnivori possono avere delle buone ragioni per non mangiare tutto ciò che pur sarebbero in grado di digerire. Alcuni cibi non valgono lo sforzo necessario per produrli e prepararli; altri possono essere sostituiti con alimenti meno costosi e più nutrienti; altri ancora si possono consumare solo a condizione di rinunciare a derrate più vantaggiose.

Costi e benefici in termini alimentari entrano in maniera fondamentale nel bilancio: in genere, i cibi preferiti offrono di più in termini energetici, di proteine, di vitamine, di sali minerali che non i cibi evitati. Ma ci sono altri costi e benefici che possono rendere inintelligibile il valore strettamente nutritivo dei cibi e determinare essi stessi se questi siano buoni o cattivi da mangiare.

Alcuni cibi di elevato valore nutritivo sono evitati perché richiedono tempo e sforzi eccessivi per la loro produzione, oppure perché finiscono per danneggiare la terra o hanno effetti negativi sulla vita degli animali, sulle piante, su altri elementi ambientali.

Lévi-Strauss in Antropologia strutturale (1958) dedica un capitolo allo sviluppo della teoria del crudo, del cotto e del putrido in cui dimostra che i comportamenti alimentari sono frutto non solo di valutazioni economiche e nutrizionali ma, come riprende Montanari (2003: 58), «anche di scelte legate all’immaginario e ai simboli di cui siamo portatori e in qualche modo prigionieri» (ibidem).

2Nel volume Il crudo e il cotto (2008), Lévi-Strauss afferma che le qualità sensibili, come fresco e putrido, possiedono una logica: sono segni che costituiscono sistemi simbolici e rilevano la struttura della società. Quindi se per noi italiani certi insetti danno il senso di putrido, dello sporco e trasmettono una percezione di minaccia alla nostra salute e benessere, neanche l’uso del fuoco, che l’autore nel volume descrive come elemento che congiunge natura e socializzazione, può modificare la percezione che abbiamo dell’insetto da ingerire. Probabilmente, queste percezioni e sensazioni le proveremmo finché l’insetto mantiene la sua forma anatomica integra, ma per estensione di idee, se si replica il meccanismo psicologico che avviene per altri animali che fanno parte della nostra alimentazione, dove non possiamo più riconoscere l’anatomia originaria, perché manipolato, trasformato, sezionato, probabilmente le sensazioni sopra descritte potrebbero non esserci.

Se la scelta di un alimento dipende – come affermano vari antropologi dell’alimentazione – dai costi produttivi e dai benefici nutritivi, gli insetti che ultimamente stanno studiando gli entomologi e gli scienziati dell’alimentazione umana, risultano vincenti sia sui costi di produzione che sui benefici nutritivi, in quanto – come detto – sono facilmente allevabili e ricchi di proprietà nutritive come le proteine. La domanda sul perché l’uso di questo alimento non sia diffuso tradizionalmente a tutti i gruppi umani, come i cereali o altri alimenti, probabilmente è da ricercare in altro settore di studio.

Le fonti storiche rivelano come, in Europa, la diffusione dell’entomofagia sin dai tempi denominati classici si sia mantenuta fino a qualche secolo fa. Per la ricostruzione storica, in questo breve articolo utilizzeremo principalmente le ricerche dell’entomologo Bodenheimer (1951). Nel Neolitico, intorno al 10 mila a. C., quando ebbe inizio l’allevamento, in Eurasia erano presenti 13 delle 14 tipologie di animali addomesticabili (il lama risiedeva nelle Americhe). Gli euroasiatici neolitici disponevano di grandi mammiferi terrestri, erbivori e onnivori. Questi fornivano non solo una considerevole quantità di carne, ma anche calore, latte, pellicce, lana e mezzi di trasporto. Quindi l’identificazione dell’allevamento dei grandi mammiferi con un vero e proprio beneficio economico è, verosimilmente, da collocare in questa fase storica. Così il consumo di insetti, per quanto diffuso nel Paleolitico e presente nel Neolitico, diventa progressivamente un fenomeno riservato a pochi.

Questa abitudine all’entomofagia non si perse completamente nelle popolazioni euroasiatiche, tant’è che in Grecia Aristotele (384-322 a.C.) scrisse nel suo Historia Animalium:« La larva della cicala ha un sapore migliore all’ultimo stadio dell’evoluzione larvale, ovvero quando diventa una ninfa» e riportò inoltre che  «gli adulti femmina sono migliori dopo la copula perché pieni di uova», testimoniando quanto l’entomofagia, come pratica, fosse ancora in uso nella sua contemporaneità. Greci e Romani hanno copiosamente scritto sul consumo degli insetti non solo nelle loro terre, ma anche in altre a loro conosciute. Erodoto, storico greco,  attesta che nel IV secolo a. C. la tribù dei nomadi dell’Asia centrale chiamati i Budini [3] sono « le uniche persone da queste parti che mangiano i parassiti» (Burr 1939: 211). Secondo il naturalista francese Malcom Burr, la parola usata da Erodoto significa “mangiatori di pidocchi” e lo studioso francese, in accordo con l’esploratore e geologo russo Paul Nazaroff, identifica nel gruppo etnico dei Kirghiz [4] dei discendenti dei Budini erodoitei.

Lo scienziato ed entomologo, Frederick William Hope (1797-1862), racconta in suo studio come Erodoto, nella sua Historia, annoveri tra i popoli entomofagi, i Nasamoni [5], i quali: «cacciano le locuste, che dopo essersi asciugate al sole riducono in polvere e mangiano mescolate al latte» (citato da Hope 1842: 129).

Bodenheimer

Opera di Bodenheimer

Proseguendo cronologicamente le letture dei testi classici del Sud Europa, possiamo soffermarci su Aristofane, poeta greco del IV secolo, che in riferimento al consumo di insetti in Grecia, cita i venditori di gallinacei “a quattro ali” sul mercato (citato da Keller 1913: 455). Secondo Bodenheimer (1951: 42) questi animali erano cavallette [6] che, visto il loro prezzo particolarmente economico venivano consumate prevalentemente dalle classi più povere. Potremmo dedurre che nell’avanzare dei secoli dell’età classica del Sud Europa, avviene un cambiamento nell’uso alimentare degli insetti, almeno in Grecia, in quanto mentre gli abitanti della classe inferiore mangiavano cavallette,  quelli più abienti apparentemente preferivano mangiare le cicale [7]. Bodenheimer riferisce che Aristotele accenna al fatto che le larve della cicala non erano un alimento raro in Attica (Atene):

«La larva della cicala se dovesse raggiungere la naturale grandezza sul terreno diventa una ninfa (tettigometra); allora ha un sapore migliore, prima che il guscio sia rotto [cioè prima dell’ultima muta]. [Tra gli adulti] all’inizio i maschi sono più buoni da mangiare, ma le femmine, dopo aver copulato, sono ancora più buone perché sono piene di uova bianche» (Bodenheimer, 1951:39).

Nel I secolo d.C. una dichiarazione del filosofo greco Plutarco indica che molti greci credevano che le cicale non dovessero essere mangiate: «Considerate e vedete la rondine non essere odioso e empio perché si nutre di carne e uccide e divora le cicale, che sono sacre e musicali» (Bodenheimer 1951: 40).

Plinio il Vecchio, primo autore di storia naturale romana del I secolo d.C., afferma che le cicale erano mangiate in Oriente [8].  Plinio riporta anche (Holt 1885: 38-39; Burr 1939: 221; Bodenheimer 1951:42) che i latini, a lui coevi, consideravano come prelibatezza il Cossus [9] che, per aumentare il sapore di questo coleottero, era fatto ingrassarecon farina e vino. C’è stata molta confusione sull’identità del Cossus, che, a quanto afferma Plinio si nutre di quercia.

Il naturalista inglese Charles F. Cowan, alla fine dell’800 discusse del Cossus come segue:

«Il Cossus dei Greci e dei Romani, che al momento del più grande lusso tra questi ultimi fu introdotto alle tavole dei ricchi, fu la larva di un grosso coleottero che vive negli steli di alberi, in particolare la quercia; ed era, molto probabilmente, la larva del cervo volante, Lucanuscervus. Su questo argomento, tuttavia, gli entomologi sono molto diversi tra loro. Ma la larva del Lucanuscervus, e forse anche il Prionuscoriarius , che si trovano nella quercia e in altri alberi, ognuno di loro è stato mangiato sotto questo nome, poiché la loro differenza non poteva essere distinguibile sia dai collezionisti che dai cuochi. Plinio ci dice che gli epicurei, che hanno visto questi cossus come prelibatezze, li nutrivano anche con i pasti, per ingrassarli» (Cowan 1865:27).

Bodenheimer elenca diverse specie che sono state presentate da vari autori come il Cossus di Plinio, e conclude che quasi certamente era la larva di Cerambyxheros, piccolo coleottero diffuso in tutto il territorio europeo.

Diodoro [10], storico greco del II secolo d.C., riferì della pratica della acridofagia [11] diffisa in Etiopia, appellando gli abitanti di quel luogo “mangiatori di cavallette”, descrivendoli di piccola statura, magra costituzione e dotati di indole spregiudicata. Caratteristiche che a suo avviso erano una diretta conseguenza della particolare alimentazione.

Bodenheimer cita molti altri scrittori del passato acridofagi che a quanto pare si basavano molto su questo racconto di Diodoro. Ateneo di Naucrati, grammatico greco del 200 d.C., ha scritto ampiamente su numerosi aspetti della vita quotidiana contemporanea greca, compresa la cucina e menziona le cicale come delicatezze nei banchetti, in uso per stimolare l’appetito [12].

Claudius Aelianus [13], naturalista e sofista latino del III secolo, riferisce contrariato di aver visto persone vendere piccoli pacchi di cicale come cibo. Lo stesso autore riporta, inoltre, che il re dell’India servì come dessert per i suoi ospiti greci un piatto di larve da palme arrostite [14], che l’entomologo Holt crede di avere identificato nella Calandra palmarum. Secondo quanto riportato dallo stesso entomologo, il popolo indiano, a differenza dei greci, considerava queste larve una grande prelibatezza.

Centipedes, street food

Centipedes, street food

Fino a questo punto storico, possiamo notare come la preparazione di alimenti con uso di insetti si riduce sempre più, da un impiego abbastanza diffuso degli ultimi secoli a.C., ad uno sempre più limitato e contenuto nei secoli successivi, per arrivare, già a partire dal III sec d.C., alle prime testimonianze di insoddisfazione rispetto a questi alimenti. La nuova era entomologica, secondo l’entomologo Bodenheimer, inizia con l’apparizione nel 1602 di De Animalibus Insectis Libri Septem di Aldrovandi [15]. Ulisse Aldro- vandi, entomologo italiano, menziona vari insetti come cibo, citando da fonti precedenti il ​consumo di cavallette e cicale. Cita nel suo scritto sia il consumo di api da parte degli abitanti di Cumaná [16], che quello del baco da seta fritto in Italia e, dalle sue esperienze di viaggio, riporta il consumo di formiche in alcune parti dell’India e delle isole genovesi.

«L’entomologo De Réaumur ha discusso la commestibilità degli insetti nel suo Memoires pour servir a l’Histoire des Insectes, nel 1731, riferendo il grave danno prodotto da Plusia gamma in Francia. L’autore afferma che “le persone che avevano mangiato questi bruchi con l’insalata o la zuppa riferivano che erano velenosi”.  Eppure, come tutti gli altri bruchi, sono in realtà innocui. Tuttavia, il pregiudizio contro questo insetto è stato così grande che quando uno dei suoi bruchi è stato inghiottito, è stato immediatamente ritenuto responsabile di qualsiasi sintomo di avvelenamento» (Bodenheimer 1951: 45).

In merito alle presumibili manifestazioni di sgradevoli sintomi che i commensali potrebbero denunciare, De Réaumur afferma che «si può mangiare come molti dei nostri bruchi vegetali come si desidera senza temere il minimo danno, gonfiore o infiammazione». De Réaumur segue con una discussione sull’entomofagia in generale:

«Se bruchi grandi e lisci fossero comuni come le locuste in certe regioni [dell’Africa] e, in particolare, se fossero abbondanti in un anno di carestia, forse i contadini della Francia li mangerebbero come le locuste vengono mangiate in Africa. E forse sarebbero in seguito considerati come un gradevole e sano piatto! Conosciamo un certo numero di larve di scarafaggio del legno che appaiono molto meno gradevoli dei bruchi, ma gli antichi romani consideravano questi cossi come di una delicatezza di prima classe. Non dobbiamo neanche tornare indietro. Larve di coleottero simili, che vivono anche nell’interno di alberi nei nostri possedimenti dell’India occidentale, quando sono fritti sono considerate come un pasto splendido e succulento. E le larve dei comuni Oryctes- cole, che sono bianche, carnose e grasse, come quelli delle Cerambyx -grubs o cossi, farebbero forse un eccellente entremet, se i nostri pregiudizi ci permetteressero di introdurli nei nostri menu. Si potrebbero cercare queste larve nel suolo, come si cerca il tartufo, e il numero dei coleotteri di questa specie nociva in questo modo potrebbe essere molto diminuito.Potremmo forse, a tempo debito, superare la nostra ripugnanza nel mangiare gli insetti e accettarli come parte della nostra dieta, e poi rendersi conto che non c’è nulla di terribile in loro e che forse potrebbero offrirci anche sensazioni piacevoli. Ci siamo abituati a mangiare rane, serpenti, lucertole, conchiglie, ostriche, ecc. nelle varie province della Francia. Forse il primo bisogno di mangiarli era fame. In conclusione, mentre lasciamo i bruchi come cibo per gli uccelli, non abbiamo bisogno di accusarli di avvelenamento. Nel 1735 sono stati mangiati migliaia e migliaia di questi bruchi da bovini, cavalli, pecore, asini, ecc., che non hanno subito alcun danno» (Bodenheimer 1951: 46).

Foucher D’Obsonville, nel 1783, scrive Saggi filosofici sulle abitudini di vari strani animali, opera nella quale racconta che le locuste vengono mangiate con gusto dalla maggior parte degli africani, alcuni asiatici e soprattutto gli arabi. Bodenheimer riassume l’asserzione come segue:

«Nei loro mercati appaiono tostati o grigliati in grandi quantità. Quando sono salati, si tengono per un po’di tempo in magazzino. Sono utilizzati per la fornitura di navi, dove possono essere serviti come dessert ocon il caffè. Questo cibo non è in alcun modo ripugnante da guardare o per associazione. Ha il sapore di gamberi e forse è più delicatamente aromatizzato, specialmente le femmine quando sono piene di uova. Certe persone suppongono che questo cibo sia la causa delle malattie degli occhi che sono così comuni in alcune di queste regioni. D’Obsonville dice che poteva facilmente immaginare che un uso eccessivo avrebbe impoverito il sangue e hanno conseguenze pericolose; ma la cecità e le malattie degli occhi sono probabilmente causate da particelle salate e infuocate trasportate dai venti. I turchi, i persiani e i cristiani, che nelle stesse regioni non mangiano cavallette o solo di rado, sono soggette agli stessi problemi agli occhi, mentre altri popoli africani che mangiano le locuste in grandi quantità hanno un’eccellente vista»(Bodenheimer 1951: 49).

Immanuel Kant, nella sua Geografia fisica (1905:236), dedicò un paragrafo alle locuste commestibili, che è dato come segue:

«Le grandi locuste vengono arrostite e mangiate in Africa da vari popoli. In Tonkin [17] vengono salate  all’interno di negozi per il consumo successivo. Ludolfo, che lo sapeva, ha cucinato le grandi locuste che hanno devastato la Germania nel 1693 come se fossero gamberi, li mangiava, li conservava con aceto e pepe e con questo piatto ha trattato il Consiglio di Francoforte» (Bodenheimer 1951: 48).
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Expo di scorpioni per la vendita

Cuvier (1769-1832), naturalista francese, nel suo Regno degli animali (Insecta II: 205), menziona un precedente e riferisce che i bambini del sud della Francia amano molto le cosce carnose delle cavallette.

Ha anche osservato che, secondo le segnalazioni dei viaggiatori, le cavallette conservate in salamoia e con le ali rimosse sono un articolo di commercio. F.W. Hope (1797-1862) ha contribuito con una carta preziosa, di cui alcune parti sono incorporate in questo volume. Dopo aver citato molti degli antichi documenti relativi all’uso di insetti da cibo, sia in Europa che altrove, Hope annota:

«Appare allora che gli insetti vivono con una dieta alimentare che ci può offrire un cibo più salutare rispetto ad alcuni degli animali che di solito vengono serviti ai nostri tavoli. Non è mia intenzione qui raccomandare il cibo insetto alle nazioni che vivono nei climi nordici, anche se sono consapevole che ci sono naturalisti che l’hanno fatto; l’offerta in estate potrebbe essere accidentale, ma in inverno certamente dovrebbe sempre essere scarsa e precaria. Non vedo alcuna ragione, tuttavia, perché non dovrebbero essere mangiate nelle regioni del mondo ben boscose, in quanto la fornitura è generalmente abbondante. Il New Hollander, o anche il colono europeo in quelle parti, potrebbe trarre beneficio dall’adottare le larve degli insetti come cibo,come, ad esempio gli stessi  lombrichi che, se lasciati nel tempo, potrebbero moltiplicarsi in modo da permettere il loro allevamento, comportando probabilmente la carestia sull’insediamento e la rovina del coltivatore. In caso di scarsità nel nostro paese, e certamente nelle regioni più miti del mondo dove si sapeva che la carestia si diffondeva sulla terra, il cibo insetto può essere adottato. È probabile che la mancanza e la fame possano essere state l’originale causa dell’introduzione degli insetti  come cibo, anche se al momento non sono in grado di addurre alcun esempio particolare a sostegno del fatto. L’entomofagia, che io qui consiglio in caso di necessità, non sarà certamente così rivoltante per l’uomo come l’animale di animale conservata in gelatina ricavata da vecchie ossa polverizzate, o ancora come l’insipide pane di segatura, raccomandato dai francesi in simili emergenze» (Hope 1842: 130).

Frederick Freeman nel 1858, in The History of Cape Cod, riferisce:

«Uno dei commissari [riferiscr che] quando era in servizio a West Point, l’attenzione [dei commissari] è stata indirizzata da alcuni movimenti inspiegabili tra le truppe francesi che si erano accampate a una certa distanza dal campo americano. Avevano acceso numerosi fuochi nei campi adiacenti, e stavano correndo in strani disordini, Maj Osgood accompagnato dal generale Washington e altri ufficiali, montarono a cavallo e cavalcarono verso l’accampamento. Si è constatato che i francesi si stavano godendo uno sport raro in una campagna contro le cavallette che erano insolitamente numerose in quel momento. Questi insetti, appena catturati, furono impalati su un bastone o una forchetta affilati e posti per un momento sopra  il fuoco e poi mangiati con grande gusto».

L’entomologo e geologo Malcolm Burr (1878-1954), membro della Royal Society entomologica di Londra, discute dell’uso degli insetti come cibo e medicine. Così scrive:

«È una cosa curiosa che l’uomo civilizzato non utilizzi gli insetti per il cibo. Probabilmente la vera obiezione è che sono così piccoli da rendere difficile la loro cattura in quantità sufficiente per fare un pasto sostanzioso, o anche un antipasto. Molti insetti sono belli, aromatici, pungenti, o grassi, e non c’è ragione logica per cui gli uomini, che non ripugnano il latte degli animali, dovrebbero invece tirarsi indietro alla idea di mangiare un insetto».

Reay Tannahill, in Il cibo nella storia del 1973, cita una serie di esempi degli usi di insetti come cibo, e per quanto riguarda l’arrivo di Colombo nei Caraibi, Tannahill osserva:

«Una cosa che [i popoli d’America] hanno imparato è che mangiavano molti alimenti che per gli Europei sembravano rivoltanti, tra i quali  i grandi ragni di grasso, i vermi bianchi che si riproducono nel legno marcio. I popoli dell’America tropicale avevano, infatti, la lunga tradizione di mangiare insetti morbidi che abbondavano in queste latitudini, e i lepidotteri cossi (agave meocuilin) erano una prelibatezza particolarmente favorita presso la corte azteco ed ancora apprezzata nel Messico del XX secolo» (Tannin, 1973: 256).

A seguito di una ristampa nel 1991del libro di Vincent Holt, Perché non mangiano insetti del 1885, per interesse del BritishMuseum (sezione di Storia naturale), Vane Wright, curatore della pubblicazione, rivede il volume e conclude: «Perché non mangiare insetti in effetti?» affermando:

«Per molte persone l’idea di mangiare insetti evoca solo sentimenti di disgusto. Ma la biologia che ci dice? Una vasta gamma di vertebrati sono mangiatori di insetti. L’antenato comune dei primati è pensato per essere stato un insettivoro. La maggior parte delle scimmie mangiano insetti, tra cui lo scimpanzé, il nostro parente vivente più vicino. Al contrario, molti esseri umani limitano la loro scelta di carne ad alcuni vertebrati, molluschi e crostacei» (Vane Wright 1991: 10).

Notando che le culture dell’Europa occidentale, e le nazioni che ne derivano, sono le uniche che non utilizzano nella propria dieta alimentare gli insetti, Vane-Wright scrive:

«le abitudini alimentari non sono condizionate dalle tabelle nutrizionali, conta calorie o diete equilibrate. Ciò che mangiamo è condizionato dalla religione, dalla tradizione, dalla moda, in una parola, dalla cultura» (Vane Wright 1991: 21).
Rhynchophorus-ferrugineus_edible-larvae-of-Red-Palm-weevil

Rhynchophorus ferrugineus, larve edibili da palme  arrostite

Una volta stabilite le preferenze alimentari, queste risultano essere altamente resistenti al cambiamento. L’operazione in atto degli studiosi della novelfood quale quella di menzionare gli insetti consumati in Africa, Asia e nell’emisfero occidentale dovrebbe servire a far sì che noi occidentali attraverso la conoscenza indotta ne accettiamo il consumo? Potrebbero tali insetti diventare accettabili per i palati occidentali?

L’analisi del probabile inserimento dell’entomofagia in Occidente deve tener conto anche della imprevedibilità della fornitura degli insetti selvatici utilizzati in altre società umane per l’alimentazione delle società urbane occidentali; se pur molti insetti sono localmente o periodicamente abbondanti, bisogna “inventare” delle tecniche di allevamento avanzate per far fronte alle richieste delle città. L’antropologo entomologo Vane-Wright, in riferimento allo scritto di  Holt, osserva che,

«il fatto stesso che l’uso di mangiare insetti appartiene prevalentemente allo stadio evolutivo dei cacciatori-raccoglitori può essere un fattore importante nella psicologia del rifiuto da parte delle persone occidentali; potremmo categorizzare entomofago come primitivo» (Vane Wright 1991: 158).

Vane-Wright conclude che gli insetti hanno una cattiva reputazione immeritatamente, in quanto solo poche specie risulterebbero nocive all’uomo. Questo pensiero si è esteso a tutti gli insetti. Il ricercatore fa notare come nella loro varietà più infinita, gli insetti potrebbero ancora essere la nostra salvezza. Le varie società europee, come abbiamo delineato in precedenza, hanno un substrato in comune, un legame storico di condizionamento quale la cultura greca e la latina.

Il buono da pensare e quindi il buono da mangiare, probabilmente è anche frutto dell’esperienza diretta e dell’accettazione in società della nuova pietanza. Così come la cucina “fusion”, che con la proposta di piatti a base di pesce crudo, aveva inizialmente suscitato indifferenza e disgusto, e che, progressivamente, si è andata affermando nella cucina occidentale, mano a mano che maturava il tempo necessario all’accettazione comunitaria delle nuove pietanze, anche l’entomofagia, con il trascorrere del tempo necessario ad una ‘metabolizzazione’ della scioccante proposta degli ingredienti di base, potrebbe trovare una sorta di affermazione nella nostra cultura alimentare.

La necessità primaria, per un ottimale inserimento alla vendita di insetti per scopi alimentari umani, è che ci sia una severa regolamentazione dell’importazione e dell’allevamento della materia prima, che garantisca in modo inequivocabile la qualità dei prodotti acquistati, circostanza che a mio avviso può agevolare la decostruzione di ogni pregiudizio o preconcetto concernente questo genere di alimento.

Dialoghi Mediterranei, n. 30, marzo 2018
Note
[1] Riassumiamo alcuni contenuti di questi opuscoli informativi: Le blatte (ordine dei blattoidei), specialmente alcune di loro, sono considerate nocive per l’uomo in quanto portatrici di agenti patogeni, responsabili dell’insorgenza della condizione di malattia nell’organismo ospite. Caratteristica potenzialmente più pericolosa delle blatte in vita, è quella di rigurgitare una parte del cibo assunto e di defecare durante il pasto contaminando così gli alimenti. Gli opuscoli non indicano una minaccia patogena per l’uomo nel caso in cui esse siano morte. Le mosche (ordine dei ditteri) possono contaminare cibi e utensili su cui si posano in quanto, attraverso le proprie appendici, depositano liquido salivare, rigurgiti e feci trasportando diversi patogeni e uova di alcuni parassiti. Le principali malattie che possono essere trasmesse da questo tipo di insetti sono la salmonellosi, il tifo, la dissenteria e la congiuntivite. Una minaccia alla salute dell’uomo risulta essere anche il lepidottero, quale la tignola, detta anche “farfallina”. Per questo tipo di insetto non si parla di rischio sanitario in senso stretto, ma si fa cenno ai danni indiretti sugli alimenti che possono provocare le larve attraverso la produzione di escrementi, tele sericee (seta) e danni diretti in seguito alla loro attività alimentare. I coleotteri dagli organi competenti vengono considerati come agenti infestanti in grado di procurare danni sia diretti sia indiretti a causa dell’inquinamento dovuto alle spoglie e agli escrementi. È importante sottolineare che i peli e le setole lasciati da questi insetti possono  arrecare gravi allergie dell’apparato respiratorio e microlesioni a livello intestinale. Le formiche (ordine degli imenotteri) non sono da considerarsi pericolose per la salute dell’uomo per la loro presenza o per le loro occasionali punture, ma la “minaccia” è indiretta sull’uomo in quanto colpisce le derrate alimentari (il caso di stabilimenti alimentari) e possono incorporare spoglie mortesia per il possibile trasporto di microrganismi patogeni.
[2] Scala Shmidt, sistema di valutazione delle punture di insetti per gli entomologi.
[3] I Budini erano un popolo di guerrieri e cavallerizzi che viveva tra il 500 e il 400 a. C. nelle zone baltiche adiacenti alle aree occupate dagli Sinti.
[4] Antico popolo sciita che abitava nella zona attuale del Kirghizistan. Il loro nome “kyrgyz” è di origine turca e vuol dire rosso.
[5] Antico popolo che abitava lungo il Golfo di Sirte (attuale Libia).
[6] Caelifera, sott’ordine di insetti ortotteri.
[7] Cicadidi, famiglia di insetti dell’ordine dei Rhynchota, sott’ordine Homoptera Auchenorrhyncha.
[8] Cfr. Bodenheimer 1951: 39.
[9]  Il Cossus è un lepidottero diffuso in Europa.
[10] cfr. Bodenheimer 1951:41
[11] Acridofago. Voce proveniente dal greco che significa mangiatore di cavalletta. Quest’era il nome di un popolo dell’Etiopia vicino al deserto. Nella primavera questi acridofagi facevano provvigione di una specie di grosse cavallette, conservandole con un procedimento di salatura per tutto l’anno, non avendo altro nutrimento, giacché non allevavano bestiame, ed erano lontani dal mare; non passavano però l’età dei quarant’anni, morendo per lo più con una specie di morbo pedicolare che si generava né loro corpi. Diodoro Siculo lib 3 c. 3.
[12] cfr. Bodenheimer 1951:39.
[13] cfr. Bodenheimer 1951:39.
[14] cfr. Holt 1885:39; Bodenheimer 1951:43.
[15] cfr Bodenheimer 1951:44.
[16] Cumaná è una città del Venezuela, capitale dello Stato Sucre, che si affaccia sul golfo di Cariaco.
[17] Tolkin è una regione geografica vietnamita. Nel 1883 il nome divenne prima protettorato francese Tonkin e fu annessa alla Indocina francese.
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Davide Sirchia, laureato in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e specializzato in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso L’Università Milano-Bicocca. Dal 2015 è titolare di cattedra di Antropologia e Etnografia presso l’Uni3 di Milano e collabora con diverse realtà di supporto didattico agli studenti. Ha pubblicato i saggi antropologici, La Zucca, la Morte e il Cavaliere. Un Halloween del 1200  in terra di Puglia e recentemente Janare. Sapere e Sapienza, contenuto nel volume a cura di Silvio Bolognini, Sapere e Sapienza. Nell’odierna riflessione filosofica culturale ed epistemologica.

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