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Dialoghi immaginari. L’ellissi che conduce da Calvino a Celati

copertinadi Giuseppe Sorce

«È come se un geografo, improvvisamente stanco di disegnare le sue carte, si fosse deciso a non calcolare più gli intervalli tra un luogo e l’altro e avesse cominciato a misurare secondo il suo passo e il suo respiro tutta la difficoltà e tutta la bellezza di inoltrarsi in una terra incognita, quale in effetti l’esistente è una volta dimenticati meridiani e paralleli». Abbandonare lo spazio per tornare ai luoghi, rompere il dominio dello sguardo e dell’idealità della distanza per ritornare a rappresentare un dove attraverso le impervie curve della voce che tenta di rappresentarlo  raccontandolo. Di cosa stiamo parlando? Di paesaggio o di topologia? Di antropologia o di geografia? Parliamo di immaginazione, parliamo di letteratura, parliamo dello scrivere, che «non nasce da un dover essere, ma piuttosto dal raccoglimento di fronte alla miseria, al poco, al nulla che all’uomo è rimasto, una volta che la pretesa della sua razionalità ha desertificato ogni possibilità poetica (fantastica) di avere un contatto effusivo con il “qui”». Forse è un inizio un po’ brusco per cominciare a parlare del testo da cui sono tratte queste riflessioni mane costituiscono proprio le arterie pulsanti. Cosa è questa cosa chiamata letteratura? Perché raccontiamo? Come si sta per il mondo?

Il geografo e il viaggiatore, nuova edizione edita da Effigie nell’ottobre 2017 (prima pubblicazione edita da Metauro, 1993), è, se vogliamo scegliere un’immagine, una «camminata» con, verso e attraverso cui l’autore, Massimo Rizzante, ci conduce. Come da sottotitolo, questo volume è una raccolta di lettere, dialoghi, saggi, che si traveste da percorso metaletterario, un itinerario possibile grazie ai due fari che illuminano la via, Italo Calvino e Gianni Celati. Ciò a cui l’autore dà vita su carta è un gioco di voci, un sistema intrecciato di dialoghi che respirano su diversi piani. È immaginario il dialogo con Calvino, è epistolare quello con Celati – attraverso loro ci sono i dialoghi con i lontani maestri del passato, da Vico a Bruno, passando per Leonardo e Galileo – è onirico, infine il dialogo con Leopardi ed Enrico De Vivo.

L’altro grande dialogo, la cui eco pervade tutte le pagine, è quello che l’autore-narratore instaura con il se stesso lettore, ed è il fragore di queste due voci confuse ad aprire un varco, nella letterarietà di tutto il testo, che permette all’autore di far giungere il proprio “discorso” al lettore ultimo, cioè a noi. È come se per tutte le pagine fossimo sotto un mantello dell’invisibilità e l’autore ci conducesse segretamente durante il suo incedere: facciamo da terzo incomodo nei suoi dialoghi immaginari, sembriamo osservarlo dall’uscio mentre chinato scrive le sue lettere, è come se fossimo lui nei suoi sogni e nei suoi ricordi, come se avessimo fatto la veglia durante le notazioni sull’«umbratile» essenza dell’uomo. È solo alla fine, quando decide di prendere posizione per reclamare un’ontologia da saggista, che l’autore si rivolge direttamente al suo pubblico, indossando o forse rindossando i panni di «individuo mutevole per definizione», che «rifugge dalle categorie. Odia i concetti. Ama le parole». «Chi è se stesso più di un’ora al giorno? Io no di certo».

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Italo Calvino

Massimo Rizzante, poeta, traduttore, saggista, riflette sulla poetica di Calvino e Celati attraversando luoghi reali e letterari, personaggi e momenti biografici dei due autori. Di uno, Calvino, ne evoca la voce, dell’altro, Celati, ce la restituisce instaurando un legame non solo amicale ma poetico, condividendone quasi sempre i punti di vista sul raccontare e sull’umano. È interessante assistere alla costruzione di questo breve libro (134 pagine) che, se pur apparente assemblaggio, risulta essere come un tragitto scosceso che trae però omogeneità dalla ricerca costante di cosa e come sia possibile oggi continuare a raccontare.

Faccio uso di metafore quali “percorso”, “itinerario”, “camminata” (parola cara all’autore stesso) perché se da un lato è proprio il ritmo della lettura e il montaggio dei testi a suggerirmele, dall’altro sono i tropi di carattere spaziale che l’autore utilizza. Il riferimento a Calvino come geografo e a Celati come viaggiatore è d’importanza chiave per cogliere il fulcro dello scarto poetico tra i due scrittori e le due scritture.

Il rapporto dei due intellettuali con lo spazio e il rapporto con il racconto si mescolano rivelando delle affinità epistemologiche, generando una riflessione di ampio respiro sullo spazio del racconto e sul racconto dello spazio, anima del libro. Da queste isomorfie semantiche geografo e viaggiatore finiscono per coniugare dei modi di intendere la scrittura e di conseguenza dei modi di sentire, delle «sensibilità». Rizzante intromette quindi degli excursus letterari sulla curiositas, traccia un’ampia parabola storico-letteraria per insistere sul ruolo cognitivo, prima che estetico-letterario, dell’immaginazione, indugiando sul valore umano della meraviglia e del fantasticare. La «geografia dell’immaginazione», ragionando sugli influssi galileiani nella filosofia di Calvino, in netto contrasto col pensiero freudiano, è il territorio che deve essere recuperato e ri-costruito dalla rêverie, per riprendere Bachelard, chiave del processo creativo, una sorta di tentativo di ri-fondazione dello spiritus phantasticus di bruniana memoria, da recuperare in quanto organo vitale dello scrittore, del lettore, dell’uomo.

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Gianni Celati

Se la rêverie è una condizione, una disposizione che va ricercata, il luogo in cui il processo immaginativo può fondare delle relazioni e dei rapporti di senso, il territorio in cui immergersi e l’esperienza stessa di attraversamento si collocano nello spazio del «camminare» e risuonano nello spazio del «sentito dire». «Siamo immersi nel “sentito dire” e camminiamo in un aperto spazio di “immagini” foderato dal “sentito dire”», ci dice Rizzante, facendosi ancora una volta portavoce e testimone della poetica di Celati.

Il geografo e il viaggiatore è pertanto un percorso camminato attraverso il quale veniamo condotti e in cui l’autore traccia, rievocandosi in una duplice presenza di scrittore e lettore, un itinerario “ellittico”. Se i due fuochi di questa ellissi sono il geografo Calvino e il viaggiatore Celati, l’inchiostro che ne solca il perimetro è l’amicizia. «Posso tranquillamente affermare che il poco che ho scritto, letto, tradotto fin qui, l’ho fatto per amicizia», scrive Rizzante. Amicizia è ciò che lega Calvino a Celati e Rizzante stesso a Celati, amicizia che, oltre a essere intesa (riprendendo Kundera), come virtù, «fedeltà ad un amico», si pone come «forse l’ultima forma in grado di renderci meno scontenti e più in dialogo col mondo, ovvero meno sentimentali e più sensibili». Amicizia come vicinanza di animo stabilita da un’affinità sensibile, come quella che suggestiona il dialogo “a distanza” con Calvino, amicizia come affine sensibilità verso il mondo, come quella che lega l’autore alla poetica di Celati. L’itinerario ellittico del testo serve a riflettere, dall’inizio alla fine, su ciò che potremmo definire lo spazio del racconto, e da qui le metafore spaziali, da qui l’immersione nel «sentito dire» e il camminare, da qui l’immaginazione come atto creativo che allarga il reale. Per questo

«ogni racconto è una sorta di rito celebrativo del sentito dire, una festa di parole che passano di bocca in bocca, di esperienze già dette o vissute, che spesso, proprio in virtù della lunga catena di trasmissione, schiudono, al di là della loro fondatezza storica, repertori di meraviglia. Chi cammina e si inoltra nel flusso di ciò che lo circonda – tanto che ogni incontro diventa per lui qualcosa di narrabile – si rende ben presto conto che l’incanto di quanto osserva, accoglie e raccoglie, non è dato affatto dalla sua veridicità. […] Un fatto, di “sentito dire” in “sentito dire”, ci si fa incontro in tutta la sua memorabilità, in quanto carico di tutti gli innumerevoli spazi immaginativi che, “in un modo o nell’altro”, ha attraversato per giungere fino a noi».
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Pianura padana nei pressi di Lendinara (ph. Andrea Siviero)

Nella maggior parte delle pagine Rizzante elabora un discorso essenzialmente sulla letteratura, sul suo valore epistemologico, sul suo parlare al mondo e del mondo. Fra riflessioni di carattere teorico, dal profumo a volte autoreferenziale, l’autore però spinge in certi punti sull’acceleratore, sembrando toccare con un’autenticità limpida note sinceramente poetiche. Ed è per questo motivo che ho iniziato questa breve recensione da quelle pagine centrali del testo: è nel rapporto col “qui” che Rizzante articola il suo senso poetico dell’esistenza, è alla sensibilità, al dialogo col mondo, che Rizzante dà la chiave dell’essere nel mondo. È a quelle stesse pagine che voglio tornare per chiudere l’ellissi, per ultimare il percorso compiuto per parlare del geografo e il viaggiatore.

Rizzante condensa il fine celatiano della letteratura proprio nel mettersi in cammino verso «l’al di là che ci costituisce», dimensione ricercata attraverso l’immaginazione e praticata nella ricerca di un dialogo col mondo. «Il geografo», scrive Rizzante, «che dimentica meridiani e paralleli si trasforma in viaggiatore. L’al di là che ci costituisce, proprio perché  ci costituisce è tuttavia sempre “qui”». Rizzante ci vuole forse dire che portiamo il mondo con noi, immaginiamo un oltre che è “qui” perché ci costituisce, perché ne sentiamo la consistenza proprio quando ci perdiamo, abbandonando le mappe e le misure, nell’immaginazione? Sta al lettore a questo punto mettere da parte le mappe e ritornare a immaginare.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Attualmente studia Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna.

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