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El Profeta: se Kahlil Gibran parla lombardo

The Prophet, Knopf, 1923 (frontespizio)

The Prophet, Knopf, 1923 (frontespizio)

di Francesco Medici

«Sono venuto a dire una parola e la dirò. [...] / E ciò che esprimo oggi in una lingua sola / sarà ripetuto domani in molte altre lingue». Così proclamava – profeticamente, è proprio il caso di dire – il poeta-pittore libano-americano Kahlil Gibran (Ǧubrān Ḫalīl Ǧubrān, 1883-1931) in alcuni suoi versi giovanili in arabo: le sue opere, sia quelle composte agli esordi nella lingua d’origine sia quelle più tarde in inglese, sono di fatto tra i testi più tradotti nel panorama della letteratura mondiale. Invero, fin da quando era ancora in vita, sono stati in moltissimi a cimentarsi nella traduzione di poesie, prose, aforismi, parabole, pièces teatrali e poèmes en prose (al-ši‘r al-manṯūr in arabo, ovvero i versi liberi) del celeberrimo autore del Paese dei Cedri.

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Kahlil Gibran, New York, 1909

Pubblicato in inglese nel 1923 a New York per i tipi dell’editore Knopf, il long seller The Prophet si conferma senza dubbio il libro più famoso e acclamato della produzione letteraria di Gibran, il cui successo internazionale non sembra a tutt’oggi conoscere battute d’arresto. Un recente studio, da me condotto insieme al gibranista australiano Glen Kalem, ha permesso di stabilire che il volume è stato tradotto in almeno 110 lingue (ma tale numero potrebbe essere sottostimato, trattandosi di una ricognizione ancora in fieri) [1]. Il lungo elenco non comprende evidentemente le sole lingue che contano il maggior numero di parlanti (quali ad esempio il cinese mandarino o lo spagnolo castigliano), ma anche quelle regionali o locali, quelle estinte o cosiddette ‘storiche’ (come il siriaco, idioma liturgico dei maroniti, cioè i cristiani di rito orientale di cui lo stesso Gibran faceva parte) e quelle artificiali (tra cui l’esperanto).

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The Prophet, Knopf, 1923

Eccezion fatta per le Sacre Scritture, insieme a pochi altri titoli letterari come Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi o Il piccolo principe (Le petit prince, 1943) di Antoine de Saint-Exupéry, si può pertanto affermare con sicurezza che Il Profeta rientri nel novero dei testi più tradotti di ogni tempo, considerando non soltanto la quantità e la varietà di idiomi in cui è stato reso, ma anche l’impressionante numero dei suoi traduttori. Basti pensare che solo in Italia il volume è disponibile in oltre un centinaio di differenti edizioni curate da altrettanti differenti traduttori.

La prima edizione italiana di Il Profeta è stata pubblicata cinque anni dopo la morte dell’autore nella traduzione di Eirene Niosi-Risos (pisana di residenza, ma di padre greco e madre inglese) e con un saggio introduttivo del grecista, storico e politico toscano Augusto Mancini (Carabba, Lanciano 1936).

Il Profeta, Carabba, 1936

Il Profeta, Carabba, 1936

A distanza di trent’anni ne fu data alle stampe una nuova versione curata dal poeta sassarese Salvatore Cossù (Kossù, Roma 1966), basata a sua volta su un’edizione francese del 1926 a firma della scrittrice statunitense Madeline Mason-Manheim. Ma a decretare la fama del libro nel nostro Paese è stata indiscutibilmente la traduzione – risalente ormai a mezzo secolo fa, ma edita ancora oggi – di un altro poeta, il piemontese Gian Piero Bona, con la prefazione illustre di Carlo Bo (Guanda, Parma 1968) [2].

Nel corso di una mia personale ricerca focalizzata sull’Italia in particolare, ho tentato di appurare se anche di Il Profeta, come per esempio nel caso di Il piccolo principe, esistessero delle traduzioni in qualche lingua regionale o dialetto, ancorché inedite. Tutto ciò che inizialmente ero riuscito a reperire è stato un singolo frammento del noto sermone sui Figli tradotto in gallurese dalla poetessa Maria Teresa Inzaina:

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Il Profeta,  Kossù, 1966

«Li to’ fiddholi no sò fiddholi toi.

Tu sei l’alcu chi saldu si manteni

candu più allonga ci scuti la friccia.

Ma iddhi so la friccia e lu tempu chi veni» [3].

Soltanto in seguito ho potuto riscontrare che nel 2015 la casa editrice monzese Menaresta aveva pubblicato El Profeta, una traduzione integrale dell’opera in lombardo a cura del vogherese Marco Tamburelli (indicato nel colophon del volume come Marc Tamburell), linguista presso la Bangor University, in Galles, dove conduce attività di ricerca sullo sviluppo del linguaggio in età infantile nel contesto del bilinguismo simultaneo e sul mantenimento e lo sviluppo delle lingue minori, in particolare di quelle proprie del territorio italiano. Il suo rigore come traduttore traspare fin dalle prime righe del prologo, L’Ariv de la Nav (p. 1):

«Almustafa, el cernid e el ben-amad, qe l’era l’alba del so dì de lu medesim, l’haveva speitad dodex agn, int la citaa d’Orphalese, l’ariv de quella nav qe la g’haveva da retornar e menar-l indree a l’isola indovè qe l’era nassud.
E int l’ann dei dodex, el setim dì de Ielool, el mes de la tœta, l’ha bricad su per la collina fœra dai mur de la citaa e l’ha vardad invers a’l mar; e l’ha vust la nav qe la rivava insema a la nebia.
Inlora i cancei del so cœr i s’enn averts sbaratads, e la so legria l’è sgolada lontan da de sora del mar. E l’ha serad i œgg e l’ha pregad int el silenzi de la so anema».

Il brano citato riporta fedelmente tre sostantivi arabi di cui Gibran fornisce nell’incipit del testo originale un’approssimativa traslitterazione in inglese. Almustafa (al-Muṣṭafà) è il nome del personaggio eponimo dell’opera, anche se non di un nome vero e proprio si tratta, ma piuttosto di una sorta di titolo onorifico, lo stesso che nella storia dell’Islam viene tradizionalmente attribuito a Muḥammad e il cui significato è traducibile come «l’Eletto» o «il Prescelto».

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Il Profeta, Guanda, 1968

Orphalese (Urfalīs) è una città simbolica di pura fantasia che il Profeta gibraniano, ormai pronto a salpare per fare ritorno in patria, si accinge a lasciare per sempre, e il cui nome è probabilmente ricavato dal toponimo Urfah (Şanlıurfa), ovvero l’antica Edessa, nell’attuale Turchia, nota per essere ritenuta il luogo natio di Abramo, comune capostipite delle tre grandi religioni monoteiste (dette per l’appunto abramitiche) costituenti il sostrato principale di The Prophet. Ielool (Aylūl), cioè settembre, è il mese d’uscita della prima edizione newyorkese del libro, nonché il mese prediletto dell’autore in quanto simbolo, a suo dire, di rinascita e ricominciamento (per una più approfondita lettura critica si rimanda al saggio introduttivo alla mia traduzione dell’opera, pubblicata in duplice formato dalle Edizioni San Paolo nel 2005 e nel 2006). Le tre voci, se ‘lombardizzate’, sarebbero forse potute suonare rispettivamente come “al-Mustafà”, “Orfalìs” e “Ailùl”…

Per un ulteriore assaggio della pregevole traduzione in lombardo, si riporta di seguito per intero il già menzionato sermone sui Figli, I Fiœi (pp. 12-13):

«E una dona qe la tegniva in braç un fiolin da fassa l’ha diit, “Parla-n dei Fiœi”.
E lu l’ha diit:
I voster fiœi i enn miga i voster fiœi.
I enn i fiœi e fiœle del desideri qe la Vita la g’ha per lee medesima.
I enn rivads a travers a violeter ma miga da violeter,
E siben qe i enn con violeter, i enn miga de vostra proprietaa.
A podii dar-g el voster amor ma miga i voster penser.
Perqè i g’hann i so de penser.
Podii lojar i so corp ma miga i so aneme,
Perqè i so aneme i lojan int la cà de deman, qe violeter podii miga visitar, gnanc int i voster insogn.
Podii cercar de vesser comè lor, ma cerqee miga de far-i deventar comè violeter.
Perqè la vita la va miga a l’indree e gnanca la se intardia cont el ier.
Violeter sii i arc da indovè qe i voster fiœi i enn slançads comè saiete vivent.
El cœcador al ved el segn in su’l senter de l’infinid, e Lu ‘l ve piega con la So forza insì qe la So saieta la pœda andar ladina e de lonj.
Lassee qe ‘l voster piegar-s int i man del cœcador al sia per legria;
Perqè insì comè qe al vœl ben a la saieta qe la sgola, a l’istessa manera ‘l ge vœl ben a l’arc qe l’è stabel».
 «La tua traduzione di Il Profeta è un atto di gentilezza nei miei confronti, che ricorderò con gratitudine finché sarò in vita. […] A mio giudizio, un traduttore è un creatore, che la gente lo riconosca o meno» [4].
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El Profeta, Menaresta, 2015

Queste parole di ringraziamento e di encomio che Gibran inviò il 10 novembre 1925 a Antony Bashir, curatore della prima traduzione in arabo di The Prophet (al-Nabī, 1926), potrebbero idealmente essere indirizzate a ragion veduta anche a Marco Tamburelli, che ci ha concesso una breve intervista.

Secondo le direttive dell’Unesco il lombardo è classificabile come lingua e non come dialetto. Potrebbe chiarire questa distinzione?

In Italia, nel linguaggio colloquiale, si adopera il termine “dialetto” per designare un qualsiasi idioma parlato nel nostro Paese che è socio-politicamente subordinato alla lingua ufficiale. Ma ciò non corrisponde alla definizione tecnico-scientifica e non rispecchia l’uso internazionale. L’Unesco, nel suo atlante delle lingue in pericolo d’estinzione, classifica il lombardo come “lingua” in quanto sistema di comunicazione genealogicamente autonomo. Esso non discende infatti dalla lingua di Stato, essendosi sviluppato indipendentemente dal toscano e quindi dall’idioma che sarebbe poi divenuto l’italiano. Ciò non vale naturalmente solo per il lombardo, ma per tutti gli idiomi che fanno parte di sottosistemi relativamente autonomi e distinti all’interno del mondo romanzo, pertanto l’atlante Unesco censisce anche l’emiliano, il napoletano, il piemontese, il romagnolo, il siciliano e il veneto.

Manoscritto originale dell'opera (Prologo)

Manoscritto originale dell’opera (Prologo)

Com’è nato il progetto di traduzione di El Profeta? Quali ragioni hanno portato a scegliere proprio il capolavoro gibraniano?

Il progetto è nato proprio dalle direttive Unesco, e anche dalle mie esperienze sul campo in relazione al mantenimento linguistico per quanto concerne le lingue “piccole”. Infatti, nelle operazioni di mantenimento linguistico, è fondamentale avere una produzione letteraria ampia, che includa vari tipi di letterature, da quella popolare a testi più formali, fino ai “classici”. Ed è così che ho iniziato a lavorare ad alcune traduzioni dall’inglese a cominciare da alcuni racconti di Rudyard Kipling per dedicarmi poi a Il Profeta di Gibran.

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Il Profeta, Ed. San Paolo, 2006

The Prophet è un testo dal linguaggio solo apparentemente semplice. Quali difficoltà ha comportato la traduzione?

Dal punto di vista sintattico e lessicale è stata una sfida interessante ma generalmente priva di particolari difficoltà, soprattutto perché ho potuto disporre di eccellenti vocabolari storici come il Cherubini, il Monti e lo Zappettini. Più arduo è stato invece misurarsi con la metrica, appunto perché l’opera è costituita di “poesie in prosa”, dove la metrica è essenziale. Devo dire però che la fonologia del lombardo, che richiede che molte parole terminino in consonante, si presta molto bene alle traduzioni dall’inglese.

El Profeta è divenuto anche un testo didattico per i suoi studenti?

Sì, me ne servo come esempio nei miei corsi di pianificazione linguistica e di linguistica del contatto. Alcuni aspetti della mia esperienza di traduzione sono stati inoltre oggetto di studio in un corso tenuto dal dipartimento di lingue moderne della mia università, che si occupa anche di traduzioni da e verso lingue minori.

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Note
[1] Cfr. G. Kalem, Translations of The Prophet, in Gibran in the 21th Century: Lebanon’s Message to the World, edited by H. Zoghaib and M. Rihani, Center for Lebanese Heritage – Lebanese American University (LAU), Beirut 2018: 146-151.
[2] Cfr. F. Medici, Kahlil Gibran e l’Italia, «Incroci», 35, gennaio-giugno 2017: 61-76.
[3] M.T. Inzaina, Faiddhesi cussì lu Prufeta, Accademia sarda di storia di cultura e di lingua, 6 maggio 2016 (http://www.accademiasarda.it/2016/05/12648/).
[4] F. Medici, Un abito arabo per Il Profeta. Lettere inedite di Kahlil Gibran a Antony Bashir, «Kervan», 7-11, gennaio 2010: 40.
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Francesco Medici, membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland, USA), è tra i maggiori esperti e traduttori italiani dell’opera gibraniana, nonché autore di vari contributi critici su altri letterati arabi della diaspora tra cui Ameen Rihani, Mikhail Naimy ed Elia Abu Madi. Si è inoltre occupato di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Leopardi, Pirandello e Luzi. Docente di materie letterarie nella scuola secondaria, lavora attualmente in un CPIA di Bergamo come insegnante di italiano L2.
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