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Per una lettura fenomenologica dei templi greci di Sicilia

Selinunte, il tempio E 2-3 (ph. Malvezzi, 2017)

Selinunte, il tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003)

 di Roberto Malvezzi, Giovanni Piana [*]

Il tema di questo lavoro è emerso alla mia attenzione durante un viaggio attraverso i siti archeologici della Sicilia. Il mio interesse era maturato già durante le letture preparatorie del viaggio (cfr. Cometa, 1999; Braudel, 1999), e si accrebbe sito dopo sito, fino a convincermi ad intraprendere una lunga ricerca, per cercare un riscontro alle impressioni così vivide ricavate sul campo. Iniziò così un secondo viaggio, fatto di studi e riflessioni, durante il quale nuove impressioni si aggiunsero a quel nucleo iniziale, componendo pian piano un quadro complessivo che ho provato a condensare in queste pagine. Il loro punto di vista non è quello di un accademico, ma di un architetto curioso e desideroso di andare oltre alla maniera tradizionale con la quale i templi greci vengono normalmente visti, e di cogliere più in profondità la varietà di riferimenti che sono raccolti in quegli edifici [1].

Questo breve saggio si focalizza su un aspetto particolare dei templi greci, ovvero l’evidente presenza al loro interno di una struttura archetipica, intesa come un semplice schema di progetto rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, ma in riferimento al quale si è sviluppato nel tempo un enorme processo di sperimentazione. La tesi qui proposta ruota intorno alla convinzione che la struttura archetipica dei templi sia stata concepita con il fine di suscitare un particolare tipo di esperienza: quella del Divino. Questa esperienza era vista come separata dalla vita ordinaria, e quindi, tale da necessitare di una consapevolezza speciale per potervi accedere; il tempio costituiva  quel medium che poteva consentire il raggiungimento di una simile consapevolezza, come suggerisce un antico detto attribuito a Pitagora: «chi entra in un tempio e vede da vicino le immagini degli Dei, riceve una mente nuova» (Burkert, 1988: 35).

Investigare le connessioni tra l’esperienza del Divino nell’antica Grecia e i caratteri architettonici sviluppati a questo riguardo non è un compito semplice: mentre da un lato tutti i templi sembrano uguali, dall’altro «nessuno di essi è davvero il medesimo» (Coulton, 1977: 6); l’architettura greca sacra offre una gamma apparentemente infinita di soluzioni e variazioni [2], seppur applicate secondo uno schema costruttivo ricorrente. Come rimarcato dal Coulton, «il compito degli architetti non era quello di disegnare complessi elaborati, ma di raffinare le proporzioni e i dettagli delle forme» (Coulton, 1977: 53). Di conseguenza, non ho affrontato questa idea di archetipo cercando di decodificare una serie di regole, per le quali tra l’altro già esiste una corposa manualistica, e neppure di rifarmi a quanto la tradizione architettonica ha definito come “ordini” (cfr. Barletta, 2001); ho cercato invece di ricollegare i caratteri più tipici e ricorrenti dei templi ad un loro possibile senso e funzione in relazione all’esperienza del Divino.

 Himera, tempio così detto della Vittoria; dal taccuino di viaggio dell’autore.

Himera, tempio cosìddetto della Vittoria (dal taccuino di viaggio dell’autore)

A tal fine, mi sono risolto ad approfondire soprattutto lo sviluppo storico di questi particolari edifici, e a guardare alla loro articolazione archetipica come a un prodotto specifico di un paesaggio culturale ben più vasto; come risultato, per prendere a prestito le parole del Burkert, in questo lavoro verranno «descritti alcuni fenomeni basici relativi al tempio greco una idealità che forse non esiste in quanto tale, ma che è ancora riconoscibile con piccole variazioni in una infinità di esempi»(Burkert, 1988: 29). I templi greci sono stati dunque considerati come «concretizzazioni individuali di situazioni esistenziali fondamentali» (Schulz, 1975: 21), e il concetto di Erlebnis - esperienza vissuta, così come codificato nella tradizione fenomenologica, è stato assunto come criterio guida dell’indagine [3].

L’esperienza fenomenologica non deve essere intesa come il racconto delle tracce di una memoria individuale e soggettiva: è piuttosto un tentativo di riconoscere, all’interno di ogni traccia individuale e soggettiva, la presenza di strutture esistenziali più generali, se non addirittura universali, quindi basilari per le manifestazioni più varie della vita umana. In una simile restituzione, particolare importanza deve essere attribuita a quegli elementi pre-razionali dell’esperienza che precedono, anzi fondano, la sfera della cognizione consapevole, dalla quale non sarà mai davvero possibile separarli; al punto tale che in un’ottica fenomenologica, il mondo delle proiezioni intenzionali e consce, e il sottofondo delle sollecitazioni più inavvertite, formano un processo unitario profondamente radicato nell’appartenere della mente umana al mondo. Tra queste due dimensioni si instaura un costante e fertile dialogo, le cui dinamiche sono il campo proprio dell’indagine fenomenologica della vita umana. Per coloro che dunque sanno già di fenomenologia, la trama degli intrecci tra i due percorsi sarà immediatamente riconoscibile; per chi invece non è ancora avviato a questa tradizione, il tema architettonico, e più in generale, quello culturale oggetto di questo saggio verranno assunti come guida verso un ulteriore campo di riflessioni, che nelle mie speranze sarà nutrito e accompagnato pagina dopo pagina, fino a raggiungere una sua chiara completezza.

Siracusa, tempio di Apollo (ph. Malvezzi, 2017)

Siracusa, tempio di Apollo (ph. Malvezzi, 2003)

Potrebbe a questo punto porsi una questione sulla reale opportunità di affidarsi a un approccio filosofico così recente e poco convenzionale nell’affrontare il fenomeno della nascita delle prime opere di architettura dell’Occidente. È chiaro che non si intende suggerire alcuna connessione diretta tra due tradizioni così remote nel tempo l’una dall’altra. Tuttavia, con sua notevole sorpresa, l’autore ha avvertito sin dall’inizio di questo lavoro una intrigante corrispondenza di attitudini tra di esse, probabilmente favorita dal mio impegno parallelo in questa ricerca sul tempio greco, e nello studio della fenomenologia trascendentale che intrapresi durante il Dottorato; al punto da convincermi che una tale ricerca poteva ben essere vista come un tentativo di fenomenologia applicata.

Ed è proprio su questo retroterra di riflessioni e studi che si è inserito quel viaggio in Sicilia, il quale ha aperto una prospettiva di ricerca per me sino ad allora impensabile.

Selinunte, l'area archeologica vista da nord (ph. Malvezzi, 2017)

Selinunte, l’area archeologica vista da nord (ph. Malvezzi, 2003)

Merita forse indugiare un poco su questo, prima di passare oltre. Già visitando Imera, e poi il Museo Salinas, il senso di una particolare presenza in quelle vetuste rovine si era manifestato con una certa chiarezza, come mostrano ancora         i miei disegni di viaggio. Ma la portata di quelle suggestioni si è rivelata in tutta la sua potenza proprio a Selinunte, forse proprio per quella felicissima congiunzione che consente di ammirare un gran numero di edifici uno accanto all’altro, separati solo da diversi stadi di conservazione. Alimenta certo questa felicità anche il fatto che ad analoghi superstiti di quei tempi antichi, e penso ad esempio al tempio di Apollo a Siracusa, o ai templi della Concordia o di Giunone ad Agrigento, non è consentito l’accesso diretto, o almeno non lo era consentito nel 2003. La nutre inoltre quel trovarsi immersi, a Selinunte, in un silenzio definitivo, indisturbato, in cui il paesaggio immutato forse da millenni, e quella domesticità che ti consente di passeggiare tra le case e i vicoli della città deserta, di entrare per le sue porte, di sedersi sui suoi sassi, restituiscono ancora intatta la proporzione e l’organizzazione degli spazi di vita nei quali ad un tratto, i templi si presentano davanti a te.

 Cave di Cusa (ph. Malvezzi, 2017)

Cave di Cusa (ph. Malvezzi, 2003)

Già la visita alle cave di Cusa aveva preparato l’incontro con essi: da Cusa trassi l’impressione che ogni solco, ogni traccia incisa su quel letto placido di roccia chiara, su cui si spandeva l’assoluto lucore del sole estivo, finisse per marcarlo con un’ombra altrimenti inesistente. L’unica vera ombra che appare a Cusa nasce proprio dall’opera interrotta dell’escavazione dei blocchi per la costruzione dei templi: lì solo e lì soltanto essa si faceva con tanta intensità, mentre altrove si limitava a punteggiare di macchioline e venature pallide la roccia emergente, quasi confondendosi con l’oscillare degli steli d’erba. Fu con questa sensazione che entrai nella città antica, ricavandone la sensazione che quei manufatti così raffinati altro non fossero che il risultato di un duro e determinato lavoro di estrazione della nuda roccia, quella stessa roccia che a Cusa ti accoglie, ti accompagna con la sua tessitura ondeggiante; ma quell’informe e ruvido mare di materia, che sembra la pietrificazione di una convulsione ardente, è stata poi scavata, tradotta e polita nelle nobili forme del tempio. Sono forme che non ne negano il vigore genetico, ma che lo ricompongono distribuendolo e innalzandolo nello spazio, dandogli equilibrio e linguaggio.

 Cave di Cusa (ph. Malvezzi, 2017)

Cave di Cusa (ph. Malvezzi, 2003)

Senza volermi addentrare nelle vicende delle anastilosi Selinuntine, recentemente così ben documentate dal Marconi (Marconi 2016), debbo rilevare che la massima risonanza di una simile intuizione la ebbi proprio nel tempio E2/3 di Selinunte, ricostruito da Jole Bovio Marconi a partire dal 1959. Mi fu subito evidente, infatti, che le enormi masse rocciose del tempio dorico scavano uno spazio in cui la presenza umana viene compressa e decompressa da una tale alternanza così bilanciata di pieni e vuoti, ma ancor più, viene trafitta, quasi sconvolta dagli effetti chiaroscurali scatenati dalla composizione architettonica dell’edificio in ogni sua parte.

Selinunte, tempio 2 3 (ph. Malvezzi, 2017)

Selinunte, tempio E2/ 3 (ph. Malvezzi, 2003)

Non c’è membro, scanalatura, superficie, trabeazione del tempio che nel momento stesso in cui viene percepita, non si dissolva in un intreccio inestricabile di luce e ombra, e tale intreccio è così radicato nell’opera intera, che sembra essa concepita apposta per produrlo; sembra volerla superare, per rimandare a un principio genetico superiore, nascosto dentro ogni cosa .

Cosa può annullare ogni definitivo possesso, ogni umana affermazione, per trasmutarla in un gioco di pure tensioni, in cui il corpo e la vista si perdono? Cosa nella cultura greca antica poteva rendere così effimero ogni momento dell’uomo, se non l’incontro con la dimensione del Divino? Verso questa stessa conclusione convergevano anche altri elementi dell’osservazione sul campo, primo tra tutti l’esistenza di quel salto di quota crescente tra gli ambienti interni del tempio, che già avevo colto camminando all’interno del tempio C. Questa soluzione acquista una sua particolare efficacia espressiva, se vista in combinazione con la tradizione dell’architettura templare  selinuntina, che prevedeva tre spazi interni in successione (pronaos, naos e endoteron) invece dei canonici due di epoca classica (pronaos e naos); una simile combinazione destò in me l’impressione di un percorso quasi iniziatico di avvicinamento alla statua di culto, un percorso che traduceva in elementi architettonici le parole di Pitagora riportate all’inizio di questo articolo.

Selinunte, tempio E2-3 (ph. Malvezzi, 2017)

Selinunte, tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003)

Ed è ancora maggiore il rimpianto per non aver avuto modo di entrare nel tempio della Concordia ad Agrigento, tanto più se penso anche a quella giornata di luce diafana, che lo privava delle sue ombre portate. Procedendo lungo la via solenne che ancor oggi vi conduce, l’incontro tra la roccia naturale, dura e vivida che la fiancheggia, dentro cui vennero ricavate le mura cittadine, e la sua restituzione architettonica posta sullo sfondo, acquista un nuovo valore; quasi quello di una preparazione all’incontro finale con la statua cultuale custodita in fondo alla cella del tempio. E acquista allora anche una nuova luce, la criptica potenza delle parole del Brandi, riferite all’Acropoli ateniese:

«Scalare la pendice dei Propilei, sia pure a zig-zag, mette però in luce, inculca subito qualcosa che nessuno dovrebbe mai dimenticare, visitando le antichità greche. Fosse il loro senso ctonio, o altra cosa, dove sceglievano di costruire, e quasi sempre sceglievano la roccia, codesta roccia diveniva come sacra, sembrava si dovesse intaccarla, modificarla il meno possibile. È un punto, incontrovertibile, ma per la nostra sensibilità, oscurissimo. Non era un amore paesistico, manco a dirlo, un romanticismo naturale avanti lettera, ma proprio il rispetto topico del luogo, delle fattezze naturali del luogo. Nulla è più augusto di quelle colonne divinamente misurate e di quei ritmi; a un tratto, a un passo, ecco la roccia bruta, selvaggia, incondita, su cui a zig-zag montava la rampa. Né fu mai ricoperta, mai livellata» (Brandi, 2001: 52-23).

Ora è pur vero che questi caratteri, senz’altro di derivazione arcaica, sono attestati anche in altri templi siciliani, primo fra tutti quello di Apollo a Siracusa: ma è proprio a Selinunte che questa impostazione architettonica raggiunse la sua piena maturazione ed espressività [Immagine 20]. Se dunque il formale, in una simile architettura, si dissolve in un sistema di stimolazioni impossibili da restituire alla ragione, è pur vero che è la ragione medesima ad aver dato forma a quel sistema, ad averlo governato e attuato nel concreto.

Selinunte, tempio E2-3 (ph. Malvezzi, 2017)

Selinunte, tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003)

Ecco che allora il tema dell’incontro/confronto con il Divino si arricchisce di una serie di dinamiche che non possono limitarsi a una mera analisi di tipo compositivo, ma che richiedono di prendere in esame il complesso dei riferimenti attivati da quei manufatti all’interno dell’orizzonte vitale più ampio dell’uomo greco di allora. Questa la considerazione che ha fondato l’impalcatura di questo saggio, e l’annosa ricerca che ne è scaturita (la bibliografia esplorata assomma a circa 100 volumi, 60 articoli, e 30 titoli di autori antichi).

Seguendo questo impulso iniziale, mi sono particolarmente concentrato nell’investigare le condizioni storiche di percezione dei templi, così come l’eredità culturale dalla quale essi sono nati, ed hanno acquisito i loro caratteri più peculiari (cfr. Cook, 1970). Secondo l’osservazione di Buxton, infatti, «il miglior punto di partenza per un’analisi del fantastico deve ritrovarsi in un’analisi dell’ordinario» (Buxton, 1994: 78). Di conseguenza, pur nei limiti della mia cultura personale e delle energie che ho potuto profondere, ho intrapreso un’analisi sintetica quanto prolungata di alcune delle manifestazioni più significative della cultura greca arcaica, dalla sfera religiosa alle arti, passando per la letteratura e la filosofia. In questa analisi, ho seguito una sorta di “approccio di Foucault inverso” (Foucault, 1999), riconnettendo quei campi di ricerca alle impressioni che avevo tratto durante il mio viaggio, e infine tracciando al loro interno un perimetro di caratteri ricorrenti che potessero aver agito da sostrato per la nascita dei templi.

. La collina orientale, vista dal temenos di Selinunte (ph. Malvezzi, 2017)

La collina orientale, vista dal temenos di Selinunte (ph. Malvezzi, 2003)

Ovviamente, in questo tentativo mi trovai ad affrontare parecchie difficoltà metodologiche: innanzitutto, scegliere un angolo di ricerca così allargato rendeva impossibile prendere in considerazione tutte le fonti storiche disponibili, e gli studi successivi a esse dedicate, come invece sarebbe richiesto; inoltre, tra gli edifici superstiti e le fonti scritte disponibili sussistono distanze cronologiche spesso significative, rendendo arduo districarne l’intreccio degli sviluppi storici e delle influenze reciproche. A questo fine, ho provato quanto più possibile a conservare una vicinanza cronologica tra le fonti scritte utilizzate, e le considerazioni che ho a loro associate. Altrove, le influenze delle fonti più antiche su quelle più recenti possono essere ancora lette, e allora il tentativo di recuperarle è stato senz’altro fatto. Inoltre, il panorama delle fonti impiegate essendo ben più vasto del semplice repertorio scritto, ho cercato di preservare un senso di contemporaneità anche facendo ricorso ad accostamenti tra campi non immediatamente collegabili su base meramente disciplinare, in virtù di quella trasversalità linguistica che caratterizza gli impalcati culturali omogenei.

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Selinunte, tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003)

Questo mi ha portato ad insistere particolarmente sulle epoche pre-classiche, investendo in pieno il periodo arcaico, e risalendo per le pendici del così detto Medioevo ellenico, così ardue da un punto di vista storiografico. Più in generale, ho fatto mio l’argomento secondo il quale le intenzioni e gli approcci possono trasmettersi come genî nel tempo, e a volte riemergere all’interno di un altro gruppo di cromosomi, come lievi assonanze in sembianti differenti. Certo in questo gioco è facile sbagliarsi, dato che fenomeni simili in apparenza possono originare da retroterra profondamente altri: ma in tutti casi in cui è sembrato praticabile, ho preferito continuare, per così dure, “a parlar greco”; come del resto gli stessi autori antichi facevano, chiamando in causa e interrogando sistematicamente le loro fonti, spesso anche distorcendole o fraintendendole, come necessità imprescindibile per poter dar vita ai loro discorsi attuali. Per quanto poi riguarda il punto iniziale, mi sono rivolto soprattutto a un fondo di studiosi che hanno posto l’accento sulla categoria dell’esperienza, nel tentativo di colmare la distanza tra la Grecia antica e noi [4].

Il tempio C di Selinunte, dal quaderno di disegno dell'autore).

Il tempio C di Selinunte (dal quaderno di disegno dell’autore)

Attraverso questo “approccio fenomenologico”, quindi, ho cercato di trovare una risposta personale al motto del Barbu: “torniamo ai Greci!” [5].Tornare all’”esperienza greca” (Bowra, 1959) vorrebbe quindi dire non limitarsi a indagare antichi libri e rovine, alla ricerca di vecchie esperienze, ma di mettere in gioco le nostre stesse vite, riflettendo su di quelli le nostre condizioni storiche, e rivelando così l’esistenza di una predisposizione basilare dell’uomo verso il mondo che non può cambiare radicalmente nel tempo, in quanto costituisce la condizione fondamentale per dare senso a ogni tempo. Questo lavoro è giusto un tentativo verso l’esclamazione sopra annunciata; un tentativo che però mi ha sorpreso per la sua capacità di riconnettere una tale varietà di dati e di risultati all’interno di una cornice coerente, e infine di rivelare (del Corno, 2002: 4).

«la meraviglia di un’umanità che dalle fonti, dagli alberi, da una scogliera sul mare o da un picco proteso a toccare il cielo traeva un racconto, e collocava ogni città sullo sfondo di eventi tanto remoti da riempire la vita degli uomini con la presenza degli dèi».
, Selinunte, tempio E2-3 (ph. Malvezzi, 2017).

Selinunte, tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003).

Prefazione

È difficile trovare un emblema che rappresenti lo spirito della cultura greca meglio dei suoi templi. Ed oltre a ciò il tempio greco è esemplare per la semplicità della sua forma architettonica si pensi, per confronto, alla complessità di un tempio dell’India antica e per la densità di significati di cui tale forma è portatrice. Tuttavia mentre sulla forma architettonica molto si è detto e si è scritto, forse assai meno è dato trovare indagini sul contenuto di idee che stanno alla sua base. O, per dir meglio: l’espressione contenuto di idee forse non è troppo adatta perché sembra alludere ad astrazioni filosofiche. Mentre si dovrebbe parlare delle esperienze vissute dell’uomo greco che si addensano nella struttura costruttiva del tempio.

Questo libro si assume questa notevole e rara responsabilità, assolvendo questo compito con chiarezza e grande acume. Beninteso, se questo è lo scopo, un punto di vista filosofico non può essere eluso, l’argomento stesso lo esige. D’altra parte, la filosofia non è fatta solo di astrazioni e l’espressione di “esperienza vissuta” allude apertamente ad un orientamento filosofico che sembra prestarsi particolarmente a questo tipo di indagine, ed al quale Roberto Malvezzi fa esplicito riferimento. Secondo questo approccio egli scrive «i templi greci sono stati considerati come ‘concretizzazioni individuali di situazioni esistenziali fondamentali’, e il concetto di Erlebnis - esperienza vissuta, così come codificato nella tradizione fenomenologica, è stato assunto come criterio guida dell’indagine. [...] Mi sono rivolto soprattutto a un fondo di studiosi che hanno posto l’accento sulla categoria dell’esperienza, nel tentativo di colmare la distanza tra la Grecia antica e noi».

Agrigento, tempio della Concordia lungo la via Sacra (ph. malvezzi, 2017).

Agrigento, tempio della Concordia lungo la via Sacra (ph. Malvezzi, 2003).

Richiamo quanto mai pertinente. Anzitutto un punto di vista fenomenologico non ci obbliga ad una storia documentaria, non ha bisogno di collegare concetti e nozioni in una catena causale, ma si può avvalere di fili conduttori interni ai concetti che badano all’evoluzione del senso, e quindi all’istituzione di relazioni, piuttosto che alla pura elencazione di dati di fatto. Ma oltre che pertinente, è anche insolito il modo in cui questo richiamo viene realizzato. Infatti il problema teorico-metodologico della “sospensione del giudizio” (epoché) viene proposto non tanto dal punto di vista del filosofo che compie l’analisi, quanto come punto di avvio di una “storia fenomenologica” di quelle esperienze vissute che conducono all’archetipo che sta alla base della struttura architettonica. La tematica fenomenologica assume così un significativo e originale spostamento: l’analista si pone nei panni della “soggettività costituente”, e compie con lui quella messa in parentesi delle conoscenze ingenue, che, mettendo da parte il quotidiano, apre all’esperienza del sacro. Peraltro, secondo modalità del tutto peculiari alla cultura greca. Tale esperienza infatti, secondo Roberto Malvezzi, è strettamente connessa con due istanze fondamentali: quello della conoscenza del mondo, quindi in generale del sapere, e quella della speranza di avvicinamento tra il divino e l’umano potremmo dire di un duplice trascendimento del divino verso l’umano e dell’umano verso il divino.

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Selinunte, tempio E2/3 (ph. Malvezzi, 2003)

Questa idea interpretativa, indubbiamente seducente, prepara e giustifica lo sviluppo di quella “storia fenomenologica” di cui parlavamo poc’anzi, sviluppo che viene effettuato nella prima parte di questo lavoro. Di quella “storia” ci viene fornita una traccia che dall’arcaismo dei primordi giunge fino alle soglie dell’età classica e che, nonostante la sua brevità, riesce felicemente a raggiungere il proprio scopo. Alla base di questa storia ideale vi è un conflitto tra il vicino e il lontano, tra l’ordine e il disordine, tra il cosmos e il caos, e naturalmente tutto ciò mette in questione la distanza tra l’umano e il divino. Questa messa in questione arriva poi sul piano degli affetti, generando insicurezza e, con l’insicurezza, ansia ed angoscia.

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Pianta dei templi di Selinunte (da Dinsmoor, 1950-1979)

L’umano e il divino sono scissi, nel divino vi è la potenza, nell’umano l’effimero che può sempre essere schiacciato. Ma questo è appunto solo l’inizio ideale: secondo l’autore vi è un percorso che conduce, di passo in passo, al superamento di questa distanza attraversando i terreni dell’elaborazione artistica fino al punto culminante del tempio. Questo punto culminante non può tuttavia essere considerato solo dal punto di vista della sua bellezza, o meglio: in questa bellezza dobbiamo sapere cogliere tutte quelle idee di ordine, di riposo, di armonia che caratterizzano un rapporto rappacificato con il divino che viene indotto dalla sua umanizzazione. Non sfuggirà certo al lettore che in questo percorso vengono incontrati e colti con perspicacia un complesso di temi collaterali, ma non meno importanti: vorrei rammentare qui almeno il rapporto con l’elemento naturale, il tema della conoscenza di un mondo inizialmente sentito ostile, il sorgere della speranza che questa ostilità possa essere superata.

Agrigento, Tempio della Concordia (ph. Malvezzi, 2017)

Agrigento, Tempio della Concordia (ph. Malvezzi, 2003)

Su questo sfondo acquista una particolare pregnanza l’intera discussione sulla struttura architettonica del tempio, che viene approfonditamente esaminata nella seconda parte del testo. In conformità alla scelta teorico-filosofica dell’autore, tale struttura non può essere considerata come un ammasso di pietre ben disposte, ma deve essere colta nell’area dei sensi di cui essa è la materializzazione. In questa discussione i dettagli architettonici che in precedenza sembravano completamente assenti, quasi del tutto fuori campo, assumono invece ora la massima evidenza, ed il commento dedicato ad essi dà vivacemente corpo all’idea guida di un “archetipo” soggiacente alla forma architettonica.

Tutto ciò è reso possibile dalla feconda interazione tra competenza architettonica e riflessione filosofica, la cui interazione costituisce l’indubbia originalità di questo libro.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
[*] Questo articolo costituisce un’introduzione alla lettura del saggio di Roberto Malvezzi: The Archetype of Wisdom. A Phenomenological Research on the Greek Temple, edito in lingua inglese da Mimesis International, 2008: la prima è basata sull’Introduzione al libro, tradotta appositamente in italiano dall’autore per Dialoghi Mediterranei e largamente ampliata; la seconda riporta invece la Prefazione scritta da Giovanni Piana.
Note
[1] Una analisi del dibattito storico e architettonico sul tempio greco costituirebbe un’impresa a sé stante: ho quindi preferito concentrarmi sul tema principale della mia ricerca, e poi da questo gettare forse nuova luce sull’argomento, anche in favore di chi già ne ha conoscenza. Come verrà mostrato nel saggio, comunque, la concezione corrente appare ancora intrisa da punti di vista parziali o viziati, dalla teoria della “pietrificazione” all’idea di “perfezione ideale”, sino alla osservazione di Bruno Zevi, il quale non considerava neppure i templi greci come opere di architettura, essendo essenzialmente edifici estroversi, quindi privi di una propria dimensione spaziale interiore.
[2] Come esempio principe di questo approccio può essere preso il tempio greco per eccellenza, ovvero il Partenone dell’Acropoli ateniese descritto da R. Carpenter: Gli architetti del Partenone, 2006: 88.
[3] Specialmente. E. Husserl, 2002; A. Gurwitsch, 1966; G. Piana, 1998.
[4] Specialmente S. K. Thalmann, 1976; W. Burkert, 1987; R. Buxton, 1992, 1994; G. Colli, 1993; C. Marconi, 2007; J. J. Pollitt, 1972; J. Gould, 1985: 5, a proposito della religione greca come «un modo di esperienza, una risposta alla vita così come vissuta dagli antichi greci».
[5] Z. Barbu, 1960; l’esclamazione è stata rilanciata da J. P. Vernant, 2001: 4.
Riferimenti bibliografici
Z. Barbu; Problems in Historical Psychology, 1960, Routledge and Kegan Paul, London.
B. A. Barletta, The Origins of the Greek Architectural Orders, CambridgeUniv. Press, 2001;
C. M. Bowra, The Greek Experience; Mentor Books, New York, 1959
C. Brandi, Viaggio nella Grecia antica; Editori Riuniti, Roma, 2003
F. Braudel, Memorie del Mediterraneo: Preistoria e antichità, Bompiani, Milano, 1999
W. Burkert, Ancient Mistery Cults, HarvardUniversity Press, 1987
W. Burkert, ‘The Meaning and Function of the Temple in Classical Greece’, Temple in Society, 1988: 27-47.
R. Buxton, ‘ImaginaryGreekMountains’, JHS 112 1992: 1-15
R. Buxton, Imaginary Greece. The context of mythology, Cambridge University Press, 1994
G. Colli, La sapienza greca (3 voll.), Adelphi, Milano, 1996
M. Cometa, Il romanzo dell’Architettura: La Sicilia e il Grand Tour nell’età di Goethe, Laterza, Bari, 1999
R. M. Cook, ‘The Archetypal DoricTemple’, BSA, 65 (1970): 17-19.
M. del Corno, Nella terra del mito: viaggiare in Grecia con dèi,eroi, poeti, Mondadori, Milano, 2008
J. J. Coulton, Ancient Greek Architects at Work, CornellUniversity Press, Ithaca, New York, 1977
W. B. Dinsmoor, The Architecture of ancient Greece, B. T. Batsford; third edition, 1950
M. Foucault, L’archeologia del sapere: una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano, 1999
J. Gould, ‘On making sense of Greek religion’, in P. E. Easterling, J. V. Muir, Greek Religion and Society, 1985,
Gurwitsch, Studies in Phenomenology and Psychology,  Northwestern University Press, Evanston, 1966
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (Vol. I-II), Einaudi, Torino; 2002
Marconi, Temple Decoration and Cultural Identity in the Archaic Greek World: The Metopes of Selinus, CambridgeUniversity Press, 2007
Marconi, “Anastilosi a Selinunte: i primi 200 anni (1779-1977)”, in Selinunte. Restauri dell’antico, 2016
G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica, Edizione digitale (reperibile nell’Archivio Piana), 1998.
J. J. Pollitt, Art and experience in classical Greece, Cambridge University Press, 1984.
C. N. Schulz, Meaning in Western Architecture,  Rizzoli, New York, 1983
S. K. Thalmann, The Adyton in the Greek Temples of South Italy and Sicily, University of California, Berkeley, PhD., 1976; XeroxUniversity Microfilms, Ann Arbor, Michigan
J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci: studi di psicologia storica, Einaudi, Torino, 2001.
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Roberto Malvezzi, architetto e Dottore di Ricerca in Scienze dell’Ingegneria, con un solido retroterra negli studi umanistici. Collabora con il CNR nel campo della rigenerazione urbana, dello sviluppo locale e dell’innovazione sistemica. Ha trovato nella tradizione fenomenologica un luogo in cui portare a sintesi i suoi interessi umanistici e scientifici; da allora considera la sua professione come una sorta di ricerca applicata in cui esplorare, attraverso le chiavi di lettura proprie della fenomenologia, il tema dello spazio nelle discipline dell’architettura e dell’urbanistica.
Giovanni Piana, ha insegnato Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Milano, dove dal 1984 ha ricoperto il ruolo di docente ordinario. È stato allievo di Enzo Paci, con il quale ha conseguito la laurea con una tesi sugli inediti di Husserl dell’ultimo periodo, realizzata presso gli Archivi Husserl dell’Università di Friburgo. Nel 1999 si è ritirato dall’insegnamento e si è trasferito in Calabria, da dove ha continuato a mantenere rapporti con l’Università di Milano attraverso il sito “Spazio filosofico” e l’Archivio digitale personale.
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