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Effetti centrifughi della globalizzazione del nuovo millennio

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Palermo tra Albergheria e Ballarò (ph. N. Giaramidaro)

di Nino Giaramidaro

Mezzanotte a fatica davanti al televisore. Mi tiene sveglio un Big Ben brumoso, sulla scala dell’afflizione. Sillabava l’ultimo tempo europeo del Regno Unito mentre inglesi senza bombetta apparivano gioiosi nello sventolare le loro complicate bandiere, che potevano apparire moderni ombrelli della city.

Quei rintocchi accorati a decine di pollici sembravano presagire qualcosa di ignoto, annidato dentro la brexit conquistata: una esplorazione verso il passato, l’improbabile, l’impossibile restauro, una avventurosa revanche di una egemonia sepolta sotto due guerre.

Ancora un ripudio di quelle unità faticose, appiccicate con collanti che ogni giorno che passa si dimostrano più lenti, disgregabili, precari come parrucchini malmessi.

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Palermo, Ballarò (ph. N. Giaramidaro)

Un effetto centrifugo della globalizzazione guardata dal lato dei popoli, etnie, religioni e culture. Mentre si globalizza il denaro – globalmente prosciugato a chi ne ha poco – e si affaccia una nuova e universale diaspora, improvvise e con dissolvenze rapide, nei miei vaganti pensieri appaiono parole struggenti dell’amata Edith: «Mais la vie sépare ceux qui s’aiment», figuriamoci coloro che mai sono riusciti ad amarsi.

Gli sgoccioli del “secolo breve” – o “lungo”, secondo altri storici – mentre il miraggio della globalizzazione viene predicato in molte lingue come una più accessibile terra promessa di unioni e unanimità, i giorni si affollano di indipendenze, dissoluzioni, sovranità ripristinate, guerre massacri e genocidi: divisioni separazioni con la prospettiva di abbandoni dei “mega” e ritorni al “piccolo”.

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Palermo, Ballarò (ph. Nino Giaramidaro)

Si sminuzza l’Unione Sovietica, il sangue estingue la Jugoslavia, nell’Africa – una volta detta nera, ora sub sahariana – carneficine e pulizie etniche sbarcano nel nuovo secolo scomposizioni e divisioni. La Libia senza più Gheddafi ritorna alle sue 140 e più tribù. E cade la stella dell’Inghilterra dalla bandiera europea, forse anche per un anelito smemorato e clandestino a diventare il numero cinquantuno delle Stars and Stripes.

Conurbazioni, ingrandimenti, corsa verso il mega pur avendo sperimentato che il gigantesco si paralizza e poi muore. Nelle grandi città – come Palermo – una volta c’erano i pronto soccorso, e malati e incidentati venivano distribuiti in numerosi ospedaletti; poi tutto venne concentrato nei grandi nosocomi, dove ora si ammassano feriti, malati anche immaginari, sofferenti in bolge più che infernali, incontrollabili e soverchianti: la paralisi maleodorante di detersivi e medicamenti impotenti di fronte alla grande assemblea di microbi, virus, bacilli, batteri; non so nominare altri distinti portatori di contagi perché infiltrati con nomi in codice.

I dinosauri si sono estinti poiché erano troppo grandi per adattarsi rapidamente ai cambiamenti che la Terra subiva, le amebe sono sempre sopravvissute.

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Palermo, Albergheria, mercato (ph. N. Giaramidaro)

Lo scopo di molte aziende non è più quello di produrre merci che soddisfino il mercato, cioè i cittadini, bensì l’ingrandimento, l’accorpamento, la acquisizione, la fagocitazione sino a raggiungere dimensioni insostenibili sulla giusta prospettiva del crac, malgrado tardive ri-divisioni e smembramenti con abbondante sparizione di milioni e miliardi. È di giorni fa la richiesta di cassa integrazione della Conad-Auchan per il 60 per cento dei suoi dipendenti: 5.323 su 8.873. E mentre il Pil è fermo – sottolinea Repubblica – c’è il boom dei dividendi.

Il ruolo prepotente del bipolarismo – inteso come malattia socio-economica – involve l’industria dell’automobile, che sembra essere la più sviluppata del mondo. Mentre i produttori si accapigliano per catturare “quote di mercato” – usufruendo spesso di aiuti statali – Stati, regioni e comuni dichiarano guerra alle automobili riducendo sempre di più gli spazi ad esse indispensabili, colpendole anche con balzelli palesi e mimetizzati.

In città che – io non riesco nemmeno ad immaginarle – ospitano 34 milioni di abitanti (Tokyo), 26 (Delhi), 15 (Istanbul), graduatoria nella quale la nostra metropoli, Roma, conta 2.800.000 abitanti, quante automobili e altri mezzi con motori a scoppio si intasano nelle strade e quante ore di guida sono necessarie per avanzare di qualche chilometro?

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Palermo, Albergheria, mercato (ph. N. Giaramidaro)

L’elefantiasi prescritta dalla globalizzazione ha conquistato un record di disoccupazione e l’aumento non misurabile dell’odio prebellico. Che avvelena anche giovani e giovanissimi sottoforma di bullismo.

Veniamo dalla condizione quasi tribale del “pizzo”, ovverossia zona, vicinato, pezzo di quartiere in cui riconoscersi: un piccolo mondo antico nel quale sentirsi al sicuro, con casalinghe che “calavano” il doppio della pasta perché c’erano vicini da soccorrere, la signora dalla quale i piccoli andavano a prendere pezzi di “addimuro”, cioè ingannare il tempo, restare lì, da questa baby sitter gratuita, finché la madre non avesse sbrigato le sue faccende; l’avvinazzato barcollante sin dal mattino, il professore, elegante ma panciuto, le ragazze che guardavano da dietro le persiane, e il giovanotto che passava e ripassava sbirciando senza fortuna.

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Palermo, Ballarò (ph. N. Giaramidaro)

Svicoliamo nella memoria, che più la realtà si presenta obliqua, con prospettive incerte e discutibili, più fa sortite, subdole a volte, per rappresentare il passato come un quasi paradiso perduto.

Da ragazzino ho affrontato le “guerre del pizzo” per difendere un sentimento mai chiarito e dedicato a un centinaio di metri di strada che rappresentava la mia nazione, la patria più vera. I coetanei che abitavano a due numeri civici oltre il confine immaginario erano estranei: nemici da combattere a colpi di pietra, pugni, calci, sopportando i morsi (muzzicuna) dei più sleali che si fregiavano della medaglia di muzzicunaru.

Non credo ci sia un ragazzo di allora che non abbia sul corpo le cicatrici di quell’epopea di quartiere: teste spaccate, sanguinamenti coagulati con limone e zucchero, padri e fratelli maggiori che davano “il resto” perché sul campo di battaglia bisognava darle e non ritornarsene a casa mogi e, spesso, insanguinati, infangati dal rotolarsi nelle pozzanghere del piovuto sulle strade senza asfalto.

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Palermo, Albergheria, mercato (ph. N. Giaramidaro)

Ecco, di fronte alle cronache attuali la memoria si sofferma sul dimenticato “vattinni a lu to’ pizzu” che se lo traduciamo in lingua può rappresentare la nostra condizione di paura per la più impercettibile diversità.

Negli anni ’40 e ’50 si viveva nei rimasugli dell’etica delle tribù, di una società con gradini invalicabili che distinguevano e separavano. L’Europa Unita sembrava una conquista, pagata con milioni di morti, dove i rancori si erano disciolti.

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Palermo, Albergheria, mercato (ph. N. Giaramidaro)

Invece pare si ricominci come in un “ricorso”: non il ripetersi clonato della storia bensì l’insufficienza del passato a cambiare l’uomo, sempre uguale a se stesso pur nel mutare delle situazioni, con tutti i suoi dèmoni che ruzzolano nella velocità.

Gli inglesi ci lasciano molta parte della loro lingua, specialistica e di servizio, non lingua franca perché gravata dalle pesantezze della colonizzazione: ci sono molti Paesi che non la vogliono sentir parlare poiché memoria della dura condizione di colonia: sanno che l’asservimento ad un Paese comincia dalla parola.

Nelle Nazioni Unite dello sterminato mercatino di Ballarò e dell’Albergheria, a Palermo, si comincia dal basso. Tra le tribù delle scarpe, quella dei vestiti, delle stoviglie e tante altre, va prendendo forma un nuovo sabir, un pidgin fatto di arabo, tamil, siciliano e briciole di francese: una lingua franca balbettante, con largo uso di monosillabi e corredata da un dedalo di gesti, atteggiamenti, ed evoluzioni dal quale – come sosteneva Antonin Artaud a proposito del suo teatro – si sprigiona un linguaggio fisico basato più sui segni che sulle parole.

Una scheggia di buona volontà conficcata nelle incertezze del nuovo millennio.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.

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