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EDITORIALE

Per strada, il teatro della vita (ph. Valeria Laudani)

Per strada, il teatro della vita (ph. Valeria Laudani)

“Il mondo al contrario” non è soltanto il titolo di una pubblicazione che per le sue eclatanti e deliranti frasi esplicitamente omofobe, misogine e razziste sta scalando le classifiche dei libri più venduti in Italia. Paradossalmente è anche l’idea di abitare un Paese in cui è davvero capovolto il senso delle cose, delle parole, delle regole elementari della vita, ovvero il senso dello stare nel mondo. Come in uno specchio deformato si rovesciano e si distorcono valori e princìpi fondanti della democrazia, i paradigmi dei diritti, le basi della convivenza.

In questo contesto la moralità è scambiata per moralismo, la laicità per laicismo, la giustizia per giustizialismo, la libertà degenera in liberismo. Si rivendica, per esempio, il diritto costituzionale alla libertà di parola per usarla come un manganello contro le odiate minoranze. Si critica la retorica del politicamente corretto per legittimare le violenze e le sopraffazioni non solo verbali del politicamente scorretto. Si fa la guerra a chi fugge dalla guerra e si criminalizza la solidarietà di chi li soccorre. Si trasformano la povertà in una colpa, le vittime in irresponsabili, le tragedie in mare in sanzioni ineluttabili di chi ha la spericolata ambizione di aspirare a nuove vite. Si dichiara di combattere i trafficanti in tutto l’orbe terraqueo e si patteggia ipocritamente con le milizie colluse con i criminali. Mentre si concede automaticamente la cittadinanza per naturale filiazione di sangue alle lontane generazioni di discendenti degli emigrati di oltreoceano che non conoscono e non abitano il nostro Paese, ci si ostina a negarla ai figli degli immigrati stranieri nati, cresciuti, scolarizzati e socializzati in Italia che parlano la nostra lingua e amano la nostra musica e il nostro calcio.

Un cumulo di nonsenso, di storture e di assurdità che si accompagna alla caduta di ogni tabù linguistico. Se le parole, come è noto, definiscono l’orizzonte nel quale viviamo, quelle che declinano le disposizioni di legge e articolano il dibattito politico distillano e depositano nelle coscienze sociali, nella mentalità collettiva un humus culturale che finisce col fare accettare e giustificare scelte indifendibili, discriminazioni intollerabili, incongruenze incomprensibili. Così se l’italianità equivale alla consanguineità, non si ha pudore di affermare che “prima gli italiani” significa “prima i bianchi” pena la Grande Sostituzione etnica. Le paure alimentate, inventate, sollecitate, generano pulsioni paranoiche e degenerano nella costruzione della vasta e complessa galassia dei negazionismi. A pensarci bene, non siamo ancora probabilmente del tutto usciti dal tunnel della pandemia, dalla crisi d’impotenza cognitiva ed esistenziale cui siamo stati posti davanti ad un evento dalla portata enorme e incontrollata. Non diversamente oggi a fronte della profonda mutazione climatica siamo inclini a negarne le evidenze e le minacce, a rimuovere i nessi tra locale e globale, tra pratiche individuali e destino universale.

La verità è che siamo un Paese sazio, vecchio e stanco. Estenuato da perenni sondaggi, frastornato dal rumore delle permanenti campagne elettorali, sfiduciato e rassegnato, disimpegnato e incattivito. Un Paese che sembra aver paura delle contaminazioni, delle relazioni, della modernità, del futuro. Assuefatto alla semplificazione fino alla banalizzazione di ogni problema comune, fino alla passiva indifferenza rispetto al quotidiano genocidio sotto le nostre coste, fino al collettivo smottamento morale e civile. Permeabile ad un bestiario linguistico cui ci siamo lentamente abituati, come per effetto di piccole e regolari dosi di arsenico. Se è vero che c’è una forte connessione tra la qualità delle forme di comunicazione e la qualità della cultura politica, non sarà forse del tutto eccessivo connettere le parole degli stupratori di Palermo con certa ‘sgarbizzazione’ del linguaggio pubblico, la mercificazione del corpo della donna con certe rappresentazioni mediatiche del primato maschile, ovvero del suprematismo, la violenza fisica su un barbone, un migrante o un omossessuale con quella verbale di certi titoli di giornali o di certa classe politica.

Le parole sono come le persone: sono fragili e preziose. Sono beni comuni da curare, coltivare, proteggere. Sul loro uso consapevole e responsabile si regge, in fondo, l’equilibrio della nostra convivenza sociale, della nostra stessa democrazia. Di parole è materialmente costituito il lavoro intellettuale che ci vede impegnati nella redazione di ogni numero di questa rivista. Di parole che magari parlano di altre parole, nel tentativo di aprire dibattiti, promuovere dialoghi, spiegare significati, decostruire luoghi comuni, esercitare l’analisi critica di equivoci concettuali e narrazioni strumentali. A cominciare dalle torsioni semantiche nel linguaggio che adoperiamo a proposito delle migrazioni e dei migranti. È quanto ci proponiamo nel nostro tenace mettere insieme voci e riflessioni su cronache e storie, ragionamenti sul presente, su memorie e su progetti del futuro attraversando saperi e generi diversi ma privilegiando temi e questioni che riguardano dinamiche antropologiche del nostro tempo e segnatamente di quel Mediterraneo che conosce trasformazioni e permanenze, ibridazioni e invarianze.

In questa prospettiva abbiamo promosso un dibattito sul ruolo pubblico delle riviste che continua anche in questo numero con la partecipazione di sei testate di cui due straniere e internazionali, l’algerina Insaniyat, Rivista di antropologia e scienze sociali, e il Journal of Business Antropology affiliato alla Copenhagen Business School. Le altre sono l’antica Rivista abruzzese, trimestrale edito dal 1886; l’Annuario fondato da Ugo Fabietti, Antropologia; il periodico espressione della cultura della montagna e delle terre alte, Dislivelli; e il giovane semestrale di filosofia ed etnopsichiatria, Transculturale. Testimonianze e notazioni diverse che raccontano le esperienze di ciascuna redazione e concorrono insieme a ricostruire un mondo vivo, operoso e spesso poco conosciuto che, pur tra difficoltà e affanni, raccoglie e documenta i fermenti delle nuove ricerche e gli stimoli a far dialogare gli studiosi sulle complesse problematiche della contemporaneità oltre gli steccati dei linguaggi disciplinari e convenzionali, così che «il lavoro degli accademici – scrive Lia Giancristofaro – si intreccia col contributo dei non accademici, in una porosità che fa bene al sapere». Da più parti si ribadisce la volontà di istituire una rete di coordinamento tra le stesse riviste, anche per ragionare e confrontarsi sulle virtualità e sulle criticità dell’adozione dell’open access nel settore delle scienze umane storicamente refrattario a logiche di dipendenza mercantile.

In questo numero si conferma lo spazio dedicato alla Tunisia, che è stata al centro delle cronache politiche e delle fallimentari strategie migratorie. Si leggano i contributi di Giovanni Cordova, di Silvia Di Meo e di Nicola Martellozzo che ci aiutano a capire, sotto aspetti diversi, quanto sta accadendo in questo Paese e lungo le drammatiche frontiere nel mar Mediterraneo: territori di un’oscura necrogeografia dove si pratica fuori da ogni controllo la sistematica violazione dei diritti unitamente alla violenza dei respingimenti e dove giacciono insepolte migliaia di corpi di migranti senza nome, che «fuggirono da stranieri e morirono da sconosciuti». Vi è poi negli altri scritti rappresentata l’altra Tunisia, quella che, nonostante la crisi economica e il dispotismo politico, lotta e resiste, organizza con le donne movimenti di opposizione, vive e partecipa le stagioni di avanguardia dell’arte e della letteratura, rinnova la memoria degli storici legami con l’Italia e con la Sicilia in particolare.

Un altro focus s’inaugura a partire da questo numero, si apre un capitolo permanente di letture sulla Sardegna, di riflessione collettiva su questa Isola che, per la densità e varietà dei paesaggi umani e culturali, è isola-continente non meno della Sicilia e, come l’altra grande isola del Mediterraneo, ha conosciuto «vicende complicate di innovazione, innesto, trasformazione, sincretismo, giustapposizione», per usare le parole che Giulio Angioni affidò alle pagine della Guida rossa del Touring Club Italiano del 2005. Siamo, del resto, convinti con Matvejevic che «nulla rivela il destino del Mediterraneo meglio delle sue isole», le quali nella loro insularità sembrano conservare in sé, a livello di strutture profonde, qualcosa di tutti i luoghi del Mediterraneo, di tutte le esperienze storiche e culturali elaborate lungo le diverse rotte di questo millenario continente liquido. Da qui la decisione di ospitare su Dialoghi Mediterranei contributi di approfondimento critico sulla storia e sulla cultura della Sardegna che con la Tunisia (unitamente alla Sicilia già ampiamente presente fin dal primo numero) saranno i riferimenti geografici fissi e privilegiati della rivista.

Di questa storia complessa, lunga dieci millenni, traccia una attenta e interessante ricostruzione il libro di Luciano Marrocu, Storia popolare dei sardi e della Sardegna, che qui si offre ai commenti e alle analisi di più studiosi, dalle diverse esperienze e competenze, dall’antropologo all’archeologo, dallo storico al giornalista. Nell’intrecciarsi degli sguardi è possibile cogliere la pluralità dei temi chiave che questo libro passepartout presenta, una rassegna di questioni aperte a differenti opzioni interpretative sui processi di costruzione dell’identità culturale sarda. Tutte comunque convergenti sul fatto che nel ricondurre la storia dell’Isola nel contesto nazionale e mediterraneo l’autore ha portato alla luce «i nessi che smentiscono l’esistenza di irriducibili lontananze e di una permanente condizione di perifericità dell’Isola». Temi e questioni destinati ad essere approfonditi nel prossimo fascicolo di novembre.

La pubblicazione di un altro libro è occasione di dibattito e di collettiva interlocuzione. Muovendo dal saggio di Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, Pietro Clemente nel numero di luglio ha ricordato nel centenario della nascita questa figura di scrittore e di intellettuale lucano, voce inedita della questione meridionale, interprete di quel mondo contadino che «non appariva mai semplificato e acritico ma sempre rappresentato nelle varietà, nei disagi, nelle proteste senza speranza, negli anarchismi, nei millenarismi, negli individualismi». Alla intensa testimonianza di Clemente si aggiungono in questo numero i contributi di Carmela Biscaglia, Annalisa Di Nuzzo, Eugenio Imbriani, Ferdinando Mirizzi e dello stesso Gatto che rilegge Scotellaro militante politico, ragionando sulla sua eredità nell’ambito di un rinnovato meridionalismo che, lontano dalle riproposizioni dell’industria culturale di massa, recuperi il conflitto di classe, «in tempi che ormai hanno interiorizzato allegramente e servilmente rassegnazione e disimpegno, e decretato la crisi del mandato storico-civile degli intellettuali». Negli scritti degli altri autori sono criticamente ripensati i rapporti di Scotellaro con Carlo Levi, con la letteratura del Mezzogiorno, con Gramsci, Manlio Rossi Doria, Tommaso Fiore ed altri, e con l’antropologia di de Martino e le prime spedizioni etnografiche in Italia.

In questo numero Dialoghi Mediterranei destina un ricordo  articolato anche all’architetto e docente di Disegno industriale presso l’università di Palermo, Michele Argentino, in occasione dell’intitolazione della Biblioteca dell’Ordine degli architetti di Trapani. Ne scrivono colleghi e allievi che riconoscono nel suo magistero la straordinaria capacità di dialogare con gli studenti e di suscitare in loro motivazioni, passioni e interessi per la definizione di un design quale patrimonio fondamentale della vita quotidiana e quale espressione originale della cultura materiale siciliana. La partecipazione e il successo a concorsi internazionali hanno certificato e premiato la progettualità della sua Scuola e il suo infaticabile lavoro didattico che ha sempre coniugato l’architettura con la sensibilità etica, estetica e civile, non meno che con la levità dell’ironia consustanziale alla sua personalità.

Di un altro architetto, maestro di un’altra generazione, dell’università di Palermo, Vittorio Ziino, si pubblica in questo numero un documentato profilo umano e professionale a firma di Antonietta Iolanda Lima, che sottolinea quel suo «pensare ricco, profondamente libero, che non conosce steccati e che fu poetica comune della temperie del suo tempo»: quando «il neo-realismo metteva a nudo del proletariato e dei marginali la durezza del mestiere spesso nutrita dai segni del benessere e una moralità nuova si cercava che fosse aderente ai problemi concreti della società». “Cattivo maestro” sarebbe stato invece Don Milani al quale qualcuno attribuisce le degenerazioni del ’68 e la responsabilità del fallimento della scuola pubblica. Fabio Dei riprende questa polemica che ha accompagnato le celebrazioni del centenario e di cui ci siamo occupati nel numero di luglio, per ridisegnare il ritratto del priore di Barbiana nelle sue luci e nelle sue ombre di uomo e di pedagogo e fare chiarezza sul ruolo e sull’attualità della sua lezione. L’antropologo torna a ragionare sui concetti di merito, di giustizia e di mobilità sociale, di mondo popolare e di egemonia intellettuale, liberando la Lettera a una professoressa da letture mitologiche e interpretazioni faziose e ricollocandola in quella «fase storica di radicale cambiamento della struttura di classe della società e dei rapporti fra capitale economico e capitale culturale».

Alla figura di Marc Augè, l’antropologo scomparso poche settimane fa, Giovanni Gugg dedica un vivido ricordo strettamente intrecciato al suo autobiografico percorso di studi. Ne emerge una avvincente rilettura in forma di racconto delle opere dello studioso francese che è stato particolarmente attento alla quotidianità della vita contemporanea e ha saputo per questo capire le dinamiche giovanili ed essere compreso dalle nuove generazioni, riuscendo «a rendere popolare l’antropologia culturale e a inserire nel dibattito pubblico concetti elaborati all’interno della disciplina». Tra questi la nozione di “surmodernità” resta probabilmente la migliore definizione del sentimento di straniamento e di sconfinamento del nostro tempo, la confusa dimensione della complessità e della connettività del nostro mondo che ha definitivamente oltrepassato le frontiere del postmoderno.

Nel sommario di questo numero, che nella sua composizione assomiglia per certi versi ad un incredibile patchwork, sono ordinati titoli di una straordinaria pluralità di testi e contenuti come in un grande mosaico delle cui numerose tessere non è qui possibile dare singolarmente conto, come in un puzzle impossibile da ricomporre entro il perimetro di questo editoriale. A guardar bene, il lettore vi potrà trovare le ragioni che spiegano e legittimano in qualche modo perché la rivista si chiama “Dialoghi Mediterranei”. Dialogano la Medina di Fes e le cave di tufo di Favignana, Spinoza e Canetti, Dante e Averroè e gli apostati della storia medioevale fino alle tutele del pluralismo religioso oggi, la musica sacra e l’opera lirica, il teatro albanese e la poesia di Szymborska, il crocifisso attribuito a Van Dyk e le sculture dell’altro Giacometti, gli equivoci dell’intelligenza artificiale e le verità delle locuzioni di usuale cerimonialità. Dialogano nello stesso spazio l’approccio antropologico alla monarchia proposto da Alberto Biuso, le osservazioni di Elio Rindone sul regime oligarchico incistato nell’ordine formale delle democrazie, l’ambigua dialettica tra diritti umani e lotta di classe sviscerata nella rigorosa analisi di Roberto Settembre. Dialogano infine le immagini mai banali dell’album fotografico, nella varietà e molteplicità dei soggetti come nella individualità e soggettività degli sguardi degli autori. Tra l’occhio che guarda e il dito che scatta c’è infatti la profondità del pensiero, l’immediatezza dell’emozione, quel magico punto di incontro fra noi e il mondo, fra il tempo che fermiamo e la luce che scriviamo.

Poste nel cuore del corpo della rivista le pagine de “Il centro in periferia” rinviano a un tema oggi quanto mai di drammatica attualità nelle cronache apocalittiche originate dalla tumultuosa mutazione climatica. La questione dei luoghi da curare, degli squilibri territoriali da correggere, dei patrimoni ambientali da proteggere, delle aree interne da riabitare non è però nell’agenda dei governi, nell’attenzione delle istituzioni. «Per i giovani l’apocalissi incombe ma salvo pochi non fanno niente per contrastarla, ci vivono dentro», scrive Pietro Clemente che aggiunge: «Il nostro dibattito è ai margini del PIL, della Confindustria, della lobby dei consumatori, ed è per questo più vicino agli spazi di resistenza ai processi in atto, ai luoghi dove è possibile che – come durante le guerre – la gente sfolli. Luoghi abbandonati e ritrovati, simboli di una altra storia del vivere, dell’abitare, del produrre. Possibili atolli dopo lo tsunami. Inutile illudersi ma è giusto continuare a pensare, a progettare».

E noi, insieme a Pietro, dalla estrema ‘periferia’ mediterranea che aspira a farsi ‘centro’, continueremo a pensare e a progettare, ad offrire su queste pagine il nostro piccolo contributo di idee e di proposte, ribadendo il valore insostituibile del dialogo culturale, quale argine al degrado politico e morale della vita associata e del dibattito pubblico, e unendoci agli interrogativi del Presidente della Repubblica che, nell’ampiezza di un suo recente discorso dai meditati e solenni accenti, si è chiesto se la convivenza tra le persone possa fondarsi sul diritto all’odio sociale, se il carattere dello scontro fine a se stesso possa regolare la nostra società. Le parole di Mattarella, che richiamano i doveri costituzionali dell’accoglienza nel rispetto della dignità umana, sembrano incarnare un altro Paese rispetto a quello vociante e dominante. Un Paese – quasi utopistico, paradossalmente minoritario seppure rappresentato dalla massima carica dello Stato – nel quale «i fenomeni migratori vanno affrontati per quel che sono: movimenti globali che non vengono cancellati da muri o barriere». Un Paese nel quale «le identità plurali delle nostre comunità sono il frutto del convergere delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le vivificano». Un Paese nel quale «c’è una grande e grave evidenza che comporta responsabilità: l’ambiente che abbiamo incrinato e impoverito».  

Nulla di più lontano dal Paese capovolto che abitiamo, dove il libro di un generale spergiuro che incita all’odio coagula e fa implodere le paure collettive, gli umori più torvi, i sentimenti più regressivi diffusi e malcelati. Dove è in atto non solo la tendenza al disprezzo per i diversi ma anche una costante aggressione nei confronti delle minoranze, dei migranti, delle donne e dei movimenti delle nuove generazioni che si battono per la difesa dell’ambiente. Dove il turpiloquio e l’incontinenza verbale trovano larga tolleranza e complice approvazione. Dove è in corso una guerra culturale contro il “pensiero unico” in nome del “non pensiero”, contro la civiltà dei diritti in nome della dittatura dei divieti, contro gli immigrati stranieri in nome di una Nazione che somiglia sempre più alla Povera Patria cantata da Battiato, «schiacciata dagli abusi del potere/ di gente infame, / che non sa cos’è il pudore». 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023

 

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