L’arte, si sa, può salvarci dal naufragio dei sensi, dalla rarefazione dello sguardo, dalla cecità che minaccia il nostro rapporto con la fisica della natura, con la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria, con gli elementi tattili e vitali delle materie. Giuseppe Modica è l’artista autore del quadro dipinto nel 2014 di una Roma sospesa e rapita nell’assenza straniante di presenze umane, un’immagine che sembra paradossalmente documentare la realtà di oggi. Quella che era una rappresentazione – una visione distopica, una percezione metafisica, una ispirazione dechirichiana, la ‘città invisibile’ di Italo Calvino che «esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate» – era destinata a diventare drammatica cronaca del nostro tempo. Una profetica anticipazione di un futuro inverosimile.
Quando la tempesta si sarà placata, quando la curva dei contagiati declinerà fino a precipitare, quando usciremo dalle nostre case e torneremo alla nostra “vita usuale”, ci resteranno negli occhi non poche immagini di questo tempo fuori dal tempo, di questo tempo ferito, immagini di grande potenza simbolica, cicatrici profonde e scoperte epifaniche. Evaporate le paure, i sospetti, le ansie di chi ha vissuto la lunga quarantena come un criceto costretto nella ruota, resterà il dolore, l’esperienza di una fragilità senza scampo, di una malinconica impotenza. Resteranno i morti da diseppellire, per celebrarne le esequie, per rinnovarne la memoria, per risarcire il debito. Così che prima di progettare un qualsiasi possibile ricominciamento, bisognerà rielaborare quel lutto collettivo privo di consolazione che come una scia traumatica ci ha accompagnato nell’infinito rosario dei giorni della pandemia dietro la lunga fila dei camion militari che di notte trasportavano le salme ai forni crematori. Il compianto mancato non è una questione privata, non è soltanto forma e sostanza della pietà dei familiari ma è rito, simbolo, fatto culturale e atto politico che attiene all’etica di una collettività, al tessuto connettivo di una società, all’ethos della polis.
Se è vero che la vita si riscopre attraverso la morte, le cerimonie del cordoglio riguardano i vivi, perché i sopravvissuti possano ritrovarsi nella prossimità solidale e riconoscersi nell’appartenenza alla universale comunità umana. Nel distanziamento imposto dalla pandemia non solo tra i vivi ma anche tra i vivi e i morti, la ‘solitudine del morente’, di cui ha scritto Norbert Elias più di trent’anni fa, si è inverata e consumata perché mai come oggi «gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli». La ferita di quella drammatica solitudine andrebbe in qualche modo rimarginata, la violenza dello strappo che ha occultato cadaveri e lacerato memorie attende di essere riscattata. Che mondo sarebbe, infatti, quello in cui i corpi sono ridotti a oggetti sanitari e le preziose storie degli anziani cancellate ed espulse come vite di scarto nell’abbandono e nell’indifferenza sociale? A quale comunità ci illudiamo di appartenere se non costruiamo e proteggiamo i legami tra generazioni, se non condividiamo e tramandiamo le memorie?
C’è un legittimo e pure spasmodico desiderio di futuro, un esasperato esercizio di irenica progettazione che fa dire che nulla sarà più come prima, che sarà come dopo la fine della guerra, una rinascita, un rinascimento. Ma prima di immaginare nuovi mondi, in cui non mancheranno certo, unitamente alle speranze e al fervore di generose energie, sofferenze, inquietudini e rabbie, prima di ragionare sugli orizzonti dei giorni venturi – «le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino», scriveva Alessandro Manzoni dopo la cessazione della peste e nelle ultime pagine dei Promessi Sposi – sarà forse bene avere intelligenza di quanto è accaduto, voltarci indietro, per capire cosa abbiamo lasciato alle spalle, come abbiamo vissuto questa esperienza di “reclusione forzata”, di “distanziamento sociale”, di sospensioni e interdizioni, di inazione e di trepidazioni. Da qui l’idea di proporre ai collaboratori di Dialoghi Mediterranei una riflessione collettiva, una sorta di diario della quarantena, una prova di autoetnografia riflessiva, una testimonianza sugli eventi e sui fatti minuti che abbiamo osservato dagli interni delle nostre case, da balcone a balcone, attorno a noi, tra di noi e dentro di noi.
Questo numero raccoglie i numerosi contributi che, sotto il titolo “Dialoghi intorno al virus”, offrono nella pluralità delle voci e dei punti di vista dei diversi studiosi un’ampia rassegna di questioni, temi e aspetti, tra narrazioni, divagazioni e approfondimenti teorici e analitici. Descrivono e documentano l’evoluzione della quarantena, la dinamica del fenomeno e lo stato del dibattito pubblico. Per questo abbiamo voluto datare ciascuno intervento, pensato e scritto in un preciso momento dell’esperienza di confinamento. Nella bulimia mediatica di questi giorni, che alla potenza virale dei contagi fisici ha associato la diffusione virale del panico psicologico e della comunicazione dei messaggi «nell’ecumene deterritorializzata del web» (Cordova), gli autori hanno descritto e raccontato i fatti che accadono mentre accadono pur essendo consapevoli dei limiti di oggettivare un presente destinato a diventare passato – e forse sorpassato – quando il testo sarebbe stato pubblicato. Tanto più che la pervasività totalizzante del coronavirus – “un fatto sociale totale” – ha investito ogni aspetto dell’esistenza e del pensiero di chi dovendo scrivere in condizioni di materiale isolamento ne ha avvertito l’impatto emotivo, il disagio di stare al riparo della casa mentre fuori il virus toglieva il respiro, soffocava la vita di un intero Paese.
Gli antropologi hanno opportunamente richiamato la lezione di de Martino, le pagine postume de La fine del mondo ma anche quelle di Morte e pianto rituale, la tesi dell’Apocalisse culturale, il paradigma della “crisi della presenza” come chiave di lettura per l’interpretazione delle crisi esistenziali e delle angosce di fronte alle minacce del coronavirus, le difese e le resistenze rispetto alla percezione del rischio, il concetto di domesticità, la complessità dei rapporti natura/cultura, pubblico/privato, contatti/contagi, socialità/virtualità, la teoria dei riti di passaggio, di liminalità da uno stato in improvvisa dissoluzione ad un altro in nebulosa plasmazione, dal non più al non ancora. Un inventario di percorsi che s’intrecciano, una commistione ovvero una “contaminazione” di stili di lettura, di scrittura e di rappresentazione. Frammenti di storie di vita, scorci di quotidianità e umanità accanto a puntuali approcci discorsivi, ‘considerazioni preliminari’ e ragionamenti non solo su fenomenologia culturale e politica della pandemia ma anche sulla stessa antropologia, sulla debolezza del suo ruolo pubblico, sugli strumenti della disciplina da affinare e riorganizzare su campi inediti di osservazione e di applicazione.
A fronte del dispiegarsi di nuovi paesaggi urbani e umani si avverte, infatti, l’urgenza di «un’antropologia meno legata a un concetto astratto e omogeneo di cultura in cui gli individui sono spesso assenti nella loro singolarità». Così scrive Stefano Montes nel suo contributo dedicato ai marginali, agli invisibili, ai lavavetri e ai senzatetto. E di approcci antropologici nuovi si fanno, in fondo, interpreti anche Linda Armano, Valeria Dell’Orzo, Vito Teti, e – a suo modo – Emanuela Rossi, la quale nel tempo del coronavirus, pur nella oggettiva limitatezza dell’agibilità dei mezzi e del perimetro di azione, mette in pratica una prova etnografica che decentra sguardo e metodi. La studiosa propone gli esiti parziali di un piccolo esercizio di descrizione degli interni dell’abitazione, condotto con i suoi studenti dell’università attraverso le procedure di insegnamento online: «Si è creata – scrive – una sorta di “intimità in remoto” che molti di noi stanno sperimentando in questi giorni. Siamo tutti molto distanti fisicamente, ma anche vicini come forse mai sarebbe successo in classe». Ne scaturiscono elementi conoscitivi utili per uno studio sull’antropologia dell’abitare e sulla socialità surrogata dai media. Così che «questo testo – conclude Rossi – rappresenta un primo tentativo di mostrare la ricchezza etnografica di alcune scritture della vita “ordinaria” in un periodo “straordinario”».
Tra il desiderio del contatto e la paura del contagio, tra la coazione al distanziamento e la forza di resilienza, l’epidemia ha scompaginato la prossemica e la cinesica della nostra cultura, ha rimesso al centro il corpo non solo nelle sue tecniche e nella sua fisicità contratta e controllata ma anche nella sua funzione eminentemente simbolica, quale medium imprescindibile di socialità, veicolo di quel linguaggio non verbale che comunica nelle sue posture sentimenti, sensazioni, emozioni, sogni, umori, «filtro – ha scritto David Le Breton – attraverso il quale l’uomo si appropria della sostanza del mondo». Il virus ha scoperchiato una verità elementare che avevamo forse dimenticato o rimosso: nel corpo è iscritta come in un palinsesto la natura simbiotica della nostra condizione umana, dal momento che il destino di ognuno dipende da quello degli altri e le nostre vite restano impigliate nell’ordito della stessa ragnatela, nella tensione vitale del corpo a corpo, della relazione faccia a faccia. Se il mondo è quello che esperiamo, che vediamo, sentiamo, tocchiamo, immaginiamo, nella consapevolezza che a lungo dovremo ancora convivere con il virus, c’è da chiedersi come cambierà o stia già cambiando la nostra percezione di noi e degli altri con la mascherina sul viso, – «feticcio o simbolo tragico» (Di Marco) – con i guanti nelle mani, con la pelle tesa e sensibile ad ogni minimo urto o prossimità. Se è vero che «prima del pensiero vengono i sensi» (Le Breton), come è destinata a modificarsi l’antropologia dei nostri sensi, la fisionomia delle nostre posture, la qualità dei nostri sguardi, la riconoscibilità delle nostre stesse identità? Non rischiamo di essere già ai confini dell’umano, alla frontiera del post-umano?
Interrogativi che insieme a tanti altri di natura politica, sociale, culturale si pongono i diversi autori che, in questo numero, ragionano anche sugli effetti dello stato di eccezione non solo sulla vita democratica del nostro Paese, con la chiusura dei luoghi pubblici del dibattito civile (la scuola, i musei, i teatri etc), ma anche più molecolarmente sui modelli mentali e comportamentali di quanti in modo subliminale incorporano atteggiamenti di ingiustificata repressione o di arbitraria delazione nei confronti di chi non rispetta i divieti della restrizione domiciliare. Cordova scrive «dell’impatto micro-fisico dei dispositivi politico-retorici ampiamente veicolati in queste settimane»; Di Giacinto osserva che «preoccupati dal contagio, gli individui si alienano rispetto all’estraneo e rispetto a se stessi: non toccano corpi prossimi, non toccano il proprio corpo. Essi sono altro dell’altro e altro da sé, poiché tanto nel saluto ravvicinato, quanto nel portare la mano al viso, si cela il rischio di contrarre la malattia: nemici tra nemici, nemici a se stessi, controllano i movimenti, riconoscendone la pericolosità»; Zagato ci ricorda che «malattie contagiose ed epidemie hanno sempre rappresentato armi politico-militari, hanno forgiato e fatto crollare imperi, prodotto genocidi»; Ortoleva, infine, annota che «il virus Covid-19 non è democratico se ha ingenerato in mezzo mondo, assieme a un diffuso panico e a grandi mutamenti nello stile di vita, scelte politiche tendenti a violare diritti umani essenziali». Si pensi al Brasile di Bolsonaro, all’Ungheria di Orban ma anche alla Polonia, alle Filippine, alla Turchia.
Molte e diverse le posizioni intorno al rischio nel nostro Paese di un ipotetico Panopticon, che qualcuno ha pure evocato ma a cui nessuno crede. La paranoia secerne teorie del complotto, l’ipertrofia delle ideologie può immaginare narrazioni orwelliane in chiave biopolitica ovvero improbabili scenari di militarizzazione della vita associata. La verità è che alla scoperta della vulnerabilità come singoli e come società si è piuttosto accompagnata la generale percezione delle criticità ma anche delle potenzialità di questo passaggio che esige un “ripensamento”, una destrutturazione della cosiddetta normalità, «un modo per integrare demartinianamente questa apocalisse in un orizzonte di senso condiviso e autenticamente responsabile», scrive Dario Inglese, che invita a prepararci «ora che la normalità è sospesa, a trovare vie alternative di (co)abitare il pianeta. In questo modo, forse, le apocalissi venture non significheranno la fine del mondo bensì la fine di un certo mondo». Di un «altro evo» parla Nino Giaramidaro, come di una palingenesi: «Non ci sono riusciti il socialismo reale tantomeno il capitalismo in tutte le sue metamorfosi, sino a quello selvaggio. Ora, grazie a un microbo, ad un organismo al margine della vita, Ate, l’antica dea, vola un po’ più lontano dal mondo, tirandosi dietro la sua attribuzione di dissennatezza e la tracotanza che nasce dal difetto di senso della misura». E, non diversamente, del coronavirus come Kairos, scrive Leo Di Simone, «momento salvifico che giunge inatteso, imprevisto e imprevedibile per incrinare tutte le nostre sicurezze e le nostre spavalderie».
Per traguardare il futuro Pietro Clemente resta attento alle aree interne, al mondo dei piccoli paesi laddove «si intuisce quale potrebbe essere la razionalità di un modello di gestione articolato e plurale dello spazio a partire da frazioni e comuni salendo verso organi intermedi, all’opposto della conflittualità costante tra Stato, regioni, comuni che nella pandemia ha un andamento isterico più che anarchico». E aggiunge: «Le zone interne permettono quella ibridazione feconda tra passato e futuro che consente di sottrarsi alla perentorietà del presente rappresentato in modo monumentale dal PIL e dalla incombenza quotidiana dello spread». Valerio Cappozzo, acuto filologo dei legami storici e culturali che uniscono l’Occidente e l’Oriente, affida al racconto di una breve storia d’amore, con protagonisti due giovani del Nord Africa separati da un’epidemia, la metafora di una passione accesa dalla distanza. Dalla lontananza nasce la tradizione poetica. «Dal Medio Oriente – sostiene lo studioso – dopo una lunga stazione nella Spagna andalusa per poi passare in Francia e in Germania, la poesia arriva in Sicilia e la distanza, come l’assenza, diventano la leva che spinge all’elevazione spirituale grazie alla quale l’anima dell’amante torna alla sua fonte prima». Come ci insegna la letteratura le distanze che oggi ci costringono all’isolamento sono destinate ad essere superate con i sentimenti dell’amore che sono «l’unico antivirus di cui disponiamo», conclude Cappozzo.
Non sappiamo se il divieto di contatti produrrà alla fine estenuate anomie o accenderà nuovi desideri, non sappiamo se “andrà tutto bene”, se troveremo un equilibrio tra le ragioni della salute e quelle del lavoro, ci interroghiamo se stiamo a casa per proteggerci dall’altro, per paura dell’altro, oppure per rispettarlo, per salvaguardare il bene comune, né riusciamo a capire che umanità saremo alla fine di questa lunga notte di febbrile stasi e di movimentato isolamento nelle case, di stragi, decimazione e devastazione negli ospedali e nelle residenze per anziani. Per orientarsi nel confuso e opaco presente sarà bene riguardare e rileggere il passato non ancora del tutto passato, quanto è accaduto, tra noi e i morti e tra noi vivi. Ci aiuta a riflettere su questi temi il contributo di Fabio Dei, che indaga sull’importanza dei riti del cordoglio, «quelle forme per il cui tramite una comunità si stringe attorno alle persone in lutto, aiutandole a superare il vuoto che si apre di fronte a loro. Aiutandole, per meglio dire, a continuare a vivere, contro la tentazione da un lato, e la paura dall’altro, di seguire i morti nel loro abbandono del mondo». Da qui la crisi, lo sgomento, lo smarrimento di quanti non hanno potuto salutare i propri cari, il lutto mutilato, la difficoltà ad accettare una scomparsa non testimoniata né consolata: «sono morti – scrive Dei – che non “passano” in un solo momento, che avranno una loro lunga durata e necessiteranno certamente di una “seconda sepoltura”; né sarà scontata la capacità della nostra società, nel suo complesso, di riuscire – per citare ancora De Martino – a “trascenderle nel valore”».
Di tutte le restrizioni la solitudine dei vivi e dei morti è sicuramente quella più dolorosa, così che sembrano essere contro natura (se la cultura è una seconda natura) «queste ‘morti selvagge’ – per usare le parole di Pietro Clemente – che non sono emotivamente mediate dai piccoli riti del trapasso, dagli sguardi, dalle mani tese, che significano tutta una vita passata, che creano un ricordo». Nella dimensione laica della vita la devozione dei defunti è l’unica religione possibile, quella della memoria. Anche di questo parla Vito Teti nel suo lemmario delle parole del nostro tempo, ragionando dalla sua Calabria sull’incerto futuro e risalendo al passato della sua infanzia: «Che significato e che senso daremo a termini che spesso abbiamo coniugato (erroneamente) in opposizione come paese-città; centro-periferie; Nord-Sud; restare-partire; locale-globale; Paese-Mondo? Non lo so. Intanto, nel chiuso delle nostre stanze sempre aperte sul campanile e sul mondo, raccogliamo e custodiamo memorie, dialoghiamo con chi ci è accanto e con chi, anche lontano, sentiamo vicini, e nello stesso tempo poniamo domande a cui saranno chiamate le nuove generazioni».
Nei “Dialoghi intorno al virus” c’è tanto altro di cui questo editoriale non può dare sufficientemente conto. C’è un’inverosimile New York desertificata dalla pandemia, c’è uno sguardo dal Canada e il suo diverso modello di gestione della crisi, ci sono le difficoltà della Tunisia e del Marocco alle prese con i presidi ospedalieri deficitari, c’è Bologna con le sue storiche “cucine popolari” e il generoso mondo della cooperazione, della solidarietà e del volontariato cui partecipano pure i migranti, ma ci sono anche i braccianti stranieri che ghettizzati nella solitudine e nella clandestinità delle campagne attendono da sempre di essere regolarizzati, ci sono i traumi e i disagi psichici degli stessi operatori della sanità, ci sono le fotografie dei deserti urbani e degli interni domestici. C’è infine il poema accorato di Sebastiano Burgaretta, una preghiera che richiama, tra l’altro, il dolore per la privazione coatta delle esequie: «Non uno sguardo viatico di luce, / non una mano a stringere la mano./ Soli i figli dell’uomo nel trapasso,/ soli i viventi a gemere l’assenza./ Il passo in solitudine dei morti,/ il pianto in solitudine dei vivi».
Lascio al lettore il compito di scoprire tutto il resto contenuto in questo amplissimo numero di Dialoghi Mediterranei, che concepito in quarantena vede la luce alla soglia delle prime timide riaperture. Potrà leggere, solo per fare un esempio, i notevoli contributi al dibattito su “Populismo e demologia” e quelli raccolti nel repertorio “Il centro in periferia”, nonché i tanti interventi tra letteratura, arte, architettura, lingua, storia e antropologia. Una grande antologia di testi che legati insieme da un sottile e tenace filo di idee e di speranze ci auguriamo possano essere preziosi e assidui compagni del lungo e incerto viatico che ancora ci attende.
E nell’attesa di poter tornare ad abbracciare la vita che scorre fuori dal balcone, Buon Primo Maggio a tutti!
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020