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Dove l’etnografia manca, la letteratura provvede. Rosaldo e la forza delle emozioni

Renato Rosaldo

Renato Rosaldo

di Elisa Salamone

«In fondo, la vita / è solo l’attesa di qualcosa di diverso/ da quello che stiamo facendo; /e la morte è tutto quello /che giustamente possiamo aspettarci».

Così il poeta Bram Stoker.

Morte. Epigrafe. Fine. The end. Quando si sente risuonare l’insieme di questi foni, sembra quasi di sentire una campana, il campanile di una chiesa che invita i suoi fedeli a riunirsi, a rientrare, rientrare in uno stato, in un luogo, in un momento, in una modalità dell’essere. Morire rintocca nelle menti come una campana e lo si legge sulle facce delle persone che sono state toccate dall’effetto sonoro della parola, dal suo rintocco: morte. Pronunciarla, designa per lo più qualcosa di negativo, da cui proteggersi, allontanarsi, non solo fisicamente ma anche mentalmente: genera rifiuto, non accettazione, persino avversione. Ciò che più si avverte comunque, parlandone, è che si tratta di qualcosa da evitare perché l’emozione che accompagna l’evento luttuoso è insopportabile: il dolore, il dolore morale, difficile da descrivere eppure tanto diffuso da essere «l’esperienza umana meglio distribuita assieme alla morte: nessun privilegiato rivendica la sua ignoranza a riguardo» (Le Breton 2007: 21).

Il dolore è l’elemento del bagaglio emozionale che più accompagna la morte. Ma quale dolore più esattamente? Di cosa parlo? Intendo il dolore degli altri, di chi subisce la perdita, il lutto: il dolore per il defunto, il dolore di chi lo porta, simbolicamente, internamente, ma anche fisicamente. Perché il lutto, in effetti, è connotato socialmente, in maniera manifesta, visibile, si ‘porta’, lo si indossa. Nelle società occidentali – nel mio caso di italiani, di siciliani – il lutto è connotato dal colore nero, anche se questa tradizione viene sempre più spesso meno e ai funerali ci si veste, oggigiorno, come si vuole, con pochi limiti (certo, suppongo, a nessuno verrebbe forse in mente di mettersi qualcosa di rosso!).

La morte è un passaggio obbligato della nostra esistenza, ne segna irrimediabilmente la fine, non c’è via d’uscita possibile, si deve morire. Il lutto l’accompagna e, come tale, va analizzato in chiave simbolica, all’interno di quel complesso circuito di segni che è la società. Gli antropologi osservano, partecipano e cercano di capire come funzionano le celebrazioni, i riti (funebri nello specifico, ma qualsivoglia evento nella vita dell’uomo, più in generale, può essere visto come passaggio ritualizzato) al fine di risalire ai simboli che una cultura attribuisce agli eventi esperiti e ‘sigillati’ tramite un codice: il codice del senso. Sappiamo che «Qualsiasi esperienza – al fine di essere veicolata e comunicata – abbisogna di una codificazione e testualizzazione» (Montes 2016). Codificazioni e testualizzazioni sono veicoli del senso la cui discretizzazione ha finalità sovente ritualistiche. Per questo motivo, per esempio, Van Gennep, ne I riti di passaggio, dice che ogni evento, ogni cambiamento, ogni rito è un passaggio, cioè un confine che separa un individuo da uno status all’altro, da uno precedente a uno successivo. È sulla base di questo principio (di confine che discretezza azioni ed esistenze in fasi di passaggio) che Van Gennep considera le società. Esse sono infatti assimilabili «ad uno spazio delimitato all’esterno da linee di confine e organizzato all’interno in un certo numero di comparti secondo precise linee di divisione. Una società non soltanto si distingue dalle altre società, stabilendo appunto confini intersocietari, ma provvede pure a tracciare linee di divisione interne [...] le società umane non sono tali se non collocano gli individui in qualche comparto, ottenuto appunto mediante operazioni di divisioni» (Van Gennep 2014: XIV).

La morte è uno di questi passaggi. E pure i funerali. E i riti funebri nell’ottica di Van Gennep rappresentano il passaggio obbligato, per le società, affinché si chiuda un ciclo simbolico. Dunque non si può morire e basta: si deve celebrare questo ‘varcare la soglia’, ‘passare ad altro stato’; si deve, come ha affermato Hertz nel Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte, riformare cognitivamente un ambiente dal quale è uscito un membro. A tal fine, sono necessari i funerali e il lutto dei parenti: un periodo di disgregazione individuale (dei parenti) durante il quale ci si rende conto di ciò che si è perso, si fa pace con la coscienza dell’evento e si torna infine alla vita ordinaria. Solo dopo aver ‘risanato l’ambiente’ da cui è stato escluso quel membro che è venuto a mancare si può finalmente ristabilire l’ordine interiore.

1.Detto questo, affermato il valore cognitivo dell’esperienza, ci si deve chiedere come è possibile, in un’ottica antropologica, descrivere oggettivamente un evento come la morte strettamente associato alla dimensione emotiva, invece più sfuggente. Perché spesso, l’antropologia ha cercato di capire e descrivere l’altro in maniera oggettiva, distaccata, senza ricorso a sentimentalismi. Van Gennep riporta talvolta le descrizioni dei funerali di culture diverse, sovente considerate società semplici che, proprio per questo, sembrerebbero essere un oggetto di studio meno complesso. In alcuni casi, proprio dalle descrizioni di Van Gennep, sembrerebbe che la dimensione emotiva sia totalmente espunta:

«Presso gli Ostiaki di Obdorsk, si sgombra la casa di tutto ciò che vi si trova, ad eccezione degli utensili del defunto; questi viene vestito e messo in una piccola imbarcazione, uno sciamano gli chiede per qual motivo è morto; viene poi condotto al luogo della sepoltura del suo clan; si deposita l’imbarcazione sulla terra gelata, con i piedi del morto rivolti verso il nord e tutto intorno si dispone ciò di cui il defunto avrà bisogno nell’altro mondo; sul posto si svolge poi un pranzo d’addio, al quale si ritiene che partecipi lo stesso defunto, e ci si congeda. Le donne imparentate con il morto fanno un pupazzo che gli rassomigli, lo vestono, lo lavano, gli danno da mangiare ogni giorno per due anni e mezzo se il morto era un uomo, due anni se era una donna, poi lo si porta sulla tomba. Il lutto dura per l’uomo cinque mesi, per la donna quattro» (Van Gennep 2014: 131).

La maggior parte delle etnografie riguardanti i riti funebri trascuravano, nel passato, la dimensione emotiva vissuta dai partecipanti e si concentravano, per lo più, sulla descrizione degli eventi in chiave oggettivante. Questo tipo di descrizione etnografica, asettica e distante, impedisce una qualche empatia da parte del lettore e proietta un’immagine autocongelante, un’immagine che Crapanzano definirebbe ‘solida’ e ‘statica’ del popolo preso in considerazione. In molti casi, ciò avviene perché l’etnografo cerca di creare un testo privo di influenze soggettive che possano contaminare l’autenticità dell’incontro con l’altro: si eclissa, al momento della scrittura, al fine di far meglio passare l’alterità (Crapanzano 1995: 14). Questo orientamento oggettivante, preponderante nellla descrizione etnografica, entra in crisi nella seconda metà del Novecento a partire soprattutto da Writing Culture e da un ‘personaggio’, Renato Rosaldo, che gioca un ruolo centrale nella rivendicazione dell’importanza delle emozioni in etnografia.

Writing culture è una raccolta di saggi scritti dopo la conferenza del 1984 che ha avuto luogo alla School of American Research di Santa Fe e rappresenta il manifesto del Postmodernismo, cioè il movimento che ha segnato la fine delle grandi narrazioni intese alla vecchia maniera. Il fine del convegno era di discutere e dibattere sulla «cosa fondamentale che ogni etnografo fa — scrivere» (Clifford 1997: 19). Malgrado i diversi punti di vista presenti nei diversi saggi, si ritrova comunque una matrice comune: rifiutare il vecchio modello di scrittura etnografica; aprirsi a un orientamento multiprospettico; prendere in conto il diritto alla parola altrui sotto forma dialogica. Più che dell’intero movimento di Writing Culture, tuttavia, intendo qui prendere in conto e parlare di uno dei suoi protagonisti maggiori: Renato Rosaldo.

2.Renato Rosaldo mette in primo piano proprio la componente emotiva in etnografia. Già di per sé, per nascita, si presenta come un uomo propenso a orientamenti multiprospettici: è figlio di padre messicano e madre statunitense. Rosaldo è un chicano, bilingue e biculturale: parla spagnolo con il padre e inglese con la madre; dimentica l’idioma spagnolo per la vergogna delle sue radici di messicano, durante un periodo trascorso nel Wisconsin, per poi riacquisirlo a Tucson, luogo in cui ritrova la propria identità, con la sua gente, i Chicanos, luogo in cui è portato ad accettare le proprie radici.

Rosaldo è anche l’antropologo che, nelle Filippine, insieme alla moglie Michelle Rosaldo, morta in un incidente durante una spedizione, ha studiato e vissuto a lungo con la popolazione Ilongot del Luzon, tagliatori di teste per riparare al dolore e alla rabbia dei loro lutti. Questa sua perdita (oltre a quella del fratello, morto prima della moglie) gli fa comprendere quanto difficile sia scrivere sulla morte e sul lutto senza averne vissuto direttamente l’esperienza sulla propria pelle.

In Cultura e verità, Rosaldo sostiene che lo studio classico delle culture sia stato influenzato dal principio dell’order che ha imprigionato in un modello statico la cultura, tirando le somme ingenuamente dall’osservazione dei fatti intesi in senso oggettivante. Rosaldo invece (scrive Canevacci nella prefazione al testo Cultura e verità), incoraggia la «prospettiva del non-order, delle culture come crocevia, di uno spazio concettuale che spinge ad attraversare e non a contenere, unificare, modellare. L’incrocio (criss-crossing) e il confine (borderline) spingono a mettere in risalto e a scegliere come ambito di ricerca le differenze culturali piuttosto che le omogeneità» (Rosaldo 2002: 9). Con questo, si vuole sottolineare il ‘posizionamento del soggetto’ che vale sia per l’antropologo (che deve sperimentare il minore o maggiore coinvolgimento con ciò che osserva, traendo considerazioni anche in base al suo bagaglio esperienziale) sia per l’oggetto analizzato (le comunità, l’individuo singolo) che viene visto come un vero e proprio soggetto con il quale dialogare. Per questo motivo, Rosaldo si spinge, nello studio degli Ilongot e del loro più importante rito (appunto la caccia di teste umane), fino a giustificare il loro atto. Per questo stesso motivo è stato criticato ma anche difeso, per esempio da Ruth Behar in The Vulnerable Observer.

Le critiche che Rosaldo ha ricevuto sono, prima di tutto, dovute al fatto che mette l’accento sulla dimensione emotiva dei fatti etnografici: il suo discorso viene pertanto etichettato come ‘femminile’. Il secondo punto critico concerne il problema dell’uccidere qualcuno (quindi recare dolore). I due punti sono, ovviamente, ambedue dibattuti e considerati spinosi. L’attribuzione di un carattere, maschile o femminile, è, come noto, un fatto arbitrario e dipende molto dalla cultura e dall’orientamento teorico.

3Per quanto riguarda l’uccisione, si deve dire che nelle società occidentali, per quanto di massima bandita, assume sovente altre forme, ammesse e non ammesse: basti pensare alla questione controversa delle pena di morte in America. Rosaldo, da parte sua, si serve dell’esperienza sul campo tra gli Ilongot per riflettere sulle modalità secondo cui l’etnografo comprende e sui limiti che la caratterizzano. A tal fine, si cala totalmente nel suo ruolo di osservatore che studia e partecipa e arriva, proprio avendo esperito quello stesso dolore, quella stessa rabbia che muove così ardentemente gli Ilongot, a capire: Rosaldo perde la moglie, Michelle Zimbalist e questo, paradossalmente, lo avvicina agli Ilongot. Ecco come descrive quel momento:

«Nel 1981, Michelle Rosaldo ed io iniziammo una ricerca sul campo presso gli Ifugao del Luzon settentrionale, nelle Filippine. L’11 ottobre di quell’anno, Michelle stava camminando lungo un sentiero con due compagni ifugao quando mise un piede in fallo e cadde giù da uno scosceso precipizio per circa trantadue metri in un fiume in piena, trovando la morte. Non appena ritrovai il suo corpo, la rabbia si impossessò di me. Come aveva potuto abbandonarmi? Come poteva esser stata così stupida da cadere? Tentai invano di urlare. Singhiozzai, ma la rabbia impediva alle lacrime di sgorgare. [...] Emozioni potenti e viscerali mi aggredivano, a volte da sole e altre volte insieme. Ho vissuto il dolore profondo e lacerante della sofferenza quasi oltre il limite della sopportazione, il freddo cadaverico di quando si sente l’irrevocabilità della morte, il tremito che si insedia nelle viscere e invade tutto il corpo, il doloroso pianto di dolore che sgorga incontrollato, il continuo singhiozzare carico di lacrime» (Rosaldo 2002: 46-47).

Può sembrare, di primo acchito, un brano tratto da un romanzo o, persino, una breve poesia di uno scrittore letterario. Mi riporta, ripensandoci, ai versi di Montale di “Spesso il male di vivere ho incontrato”. Lo stesso testo è anche un’etnografia. Ciò che lo rende più credibile, più vero, dipende da un fatto: se i lettori di questo passo hanno esperito emozioni simili, una perdita comparabile, un tal dolore che si impossessa del corpo e origina forti emozioni. Chi non ha provato questa terribile esperienza può capirlo solo parzialmente. Chi ha provato l’esperienza sa inoltre che non è facile veicolare su testo un’esperienza così forte e delicata al contempo. Rileggendo rapidamente il brano di Rosaldo si può cadere nella trappola e pensare che sia stato scritto di getto, che sia un semplice raccontare, un accostamento di immagini forti, naturalmente vissute e semplicemente trasposte su carta; in realtà, soffermandosi sul testo, si vede bene che le scelte lessicali, le frasi e le immagini selezionate da Rosaldo sono il risultato di un lavoro che cerca di trasmettere al meglio un’esperienza vissuta, ma difficile da rendere linguisticamente. La sua descrizione è minuziosa e letteraria, è vissuta e poetica, un intreccio di diversi correlativi oggettivi: «emozioni potenti e viscerali mi aggredivano [...] il freddo cadaverico [...] dell’irrevocabilità della morte». È tutta interna, è tutta simbolica, è tutta emotiva, e per questo, però, non meno destinabile all’analisi. Di fatto, ritengo che non si debbano studiare soltanto quei fatti che sono cognitivamente meglio coglibili, ma anche quelle emozioni più difficili da registrare e trasmettere agli altri attraverso la lingua. Le emozioni sono anch’esse esperienze e devono essere contemplate, spiegate e rese al pari di altri elementi della dimensione umana.

Per ricollegarci al carattere letterario cui ho fatto cenno precedentemente, rintracciabile nella scrittura di Rosaldo, è necessario ricordare che, nel 2014, viene pubblicata una raccolta di poesie: The day of Shelly’s death. Sembra che Rosaldo, in maniera quasi prevedibile, partendo da una impostazione antropologica, sia approdato all’inevitabile consapevolezza di non sapere più dove sia il limite dell’antropologia, dove essa finisca e dove inizi invece la letteratura. In realtà, rileggendo i versi di quel fatidico giorno per Rosaldo, non si ha solo l’impressione di leggere il diario trasposto in versi di un uomo che ha sofferto (la cui soggettività viene volutamente messa alla mercé dei suoi lettori), ma, accanto a questi aspetti fortemente emotivi, si trovano gli appunti, le considerazioni, i movimenti e le vivide osservazioni di un antropologo cosciente della sua esperienza e motivato a mettere in scena visioni pluriprospettiche. 

4.The day of Shelly’s death è una raccolta di sguardi, di voci e rumori, di spostamenti e di luoghi che cercano di parlare direttamente al lettore. I versi sono riportati come voci in prima persona o come parole riportate dalle persone che hanno avuto un qualche ruolo o presenza nel giorno della morte di Shelly e nei giorni successivi. Una delle frasi più significative di Rosaldo a mio parere è «includere quante più prospettive possibili» (Rosaldo 2002: 30); è proprio questo elemento che egli rivendica nella raccolta: la funzione degli “altri”. Le voci nel testo sono di Shelly, dei suoi figli, della guida di Shelly, del coroner, di un soldato incaricato di investigare sull’incidente, degli Ilongot che narrano dei loro dolori, dell’impossibilità di non potere più cacciare teste umane perché il governo ha bandito il loro rito; la voce di un prete che intima Rosaldo di prendersi cura dei figli, la voce del tassista che lo accompagna all’aeroporto con la bara nel portabagagli.

Nella parte finale della sua raccolta (che può essere intesa come la spiegazione della sua poetica), Rosaldo dice che spesso gli antropologi dimenticano tutte quelle persone che rendono i loro soggiorni possibili e densi di significato; essi si servono di referenti, di persone a cui chiedono indicazioni, di tassisti e commesse, di infermieri e medici, e sono proprio queste persone a rappresentare una parte importante del lavoro etnografico. Ogni soggetto ha un ruolo e, nella molteplicità degli eventi, il suo ruolo può cambiare. Alla stessa stregua di un regista, Rosaldo sposta la visione dell’antropologo che osserva un fatto su uno spettro di plurivisioni che si moltiplicano nel momento stesso in cui si considera la presenza degli altri soggetti.

Per concludere, vorrei dire che, sebbene il mio sembri un elogio del ‘Rosaldismo’, inteso come metodologia di analisi in chiave eccessivamente emotiva, ho inteso invece mettere schiettamente in risalto quelli che sono i meriti di Rosaldo: aver reso meno rigidi, meno ‘ordinati’, i confini teorici della disciplina antropologica; avere rivalutato il ruolo degli strumenti letterari a fini descrittivi e, soprattutto, l’importanza delle letterature minori come quella messicana; aver insistito sul ruolo del soggetto osservatore in quanto figura chiave della comprensione dei fatti antropologici.

La letteratura è una costante maestra di vita i cui strumenti di analisi è possibile esportare in altri ambiti, ivi compreso quello antropologico. L’antropologia deve lavorare anche sulle emozioni, sui silenzi, perché «in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità» (Montale, I limoni).

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Riferimenti bibliografici
Behar, R., The vulnerable observer, anthropology that breaks your heart, Beacon Press, Boston, 1996.
Clifford, J., Marcus, G., Scrivere le culture, poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma, 1997 (1986).
Crapanzano, V., Introduzione, in Tuhami, ritratto di un uomo del Marocco, Meltemi, Roma, 1995 (1980).
Geertz, C., Opere e vite, l’antropologo come autore, il Mulino, Bologna, 2012 (1988).
Hertz, R., “Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte” in La preminenza della destra e altri saggi, Einaudi, Torino, 1994 (1907).
Le Breton, D., Antropologia del dolore, Meltemi, Roma, 2007 (1995).
Montale, E., Ossi di seppia, Mondadori, 2015 (1925).
Montes, S., In attesa al pronto soccorso. Riti di passaggio, d’istituzione e di socializzazione, in «Dialoghi mediterranei», n. 12, marzo 2015.
Rosaldo, R., Cultura e verità, ricostruire l’analisi sociale, Meltemi, Roma, 2002 (1989).
Rosaldo, R., The day of Shelly’s death, the poetry and etnography of grief, Duke University Press, Durham & London, 2014.
Stoker, B., Dracula, Newton & Compton Editori, Roma, 2004 (1897).
Van Gennep, A., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2014 (1909).
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Elisa Salamone, laureata in Lingue letterature e mediazione linguistica, con una tesi in antropologia dal titolo Una etnografia del vissuto, narrare le emozioni secondo Rosaldo, continua il suo percorso di studi con la Laurea magistrale in Lingue. Nonostante l’inglese e il francese siano le sue due lingue di specializzazione, l’interesse per le culture altre l’ha portata in passato a frequentare corsi di tedesco, spagnolo, russo e cinese. Ha al suo attivo esperienze di lavoro diverse, tra le quali quella gratificante presso il liceo francese Stendhal di Milano. Suoi temi principali d’interesse antropologico sono soprattutto la letteratura, l’autoetnografia e l’investimento della soggettività nella scrittura etnografica.

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