La Francia è un Paese che si impone per una riflessione sul senso dell’emigrazione italiana, non solo perché è tra i primi per destinazione ma anche per l’altissimo numero delle persone coinvolte e gli esiti che ne sono conseguiti. Questo Paese si impone all’attenzione innanzitutto per la sua dimensione quantitativa: vi risiedono all’incirca 4 milioni di abitanti di origine italiana, così come sono stati circa 4 milioni gli italiani che sono emigrati dall’Unità d’Italia ad oggi [1].
Non meno importanti sono gli aspetti qualitativi che inducono a interessarsi del caso francese, essendosi l’inserimento degli italiani concluso con una integrazione completa, del tutto rispondente al modello assimilazionista. Questo percorso, però, non può non suscitare degli interrogativi con riferimento sia alle modalità con le quali è stato realizzato sia per l’esito che sembra equivalere alla completa messa in ombra della cultura di partenza.
Nel seguire il percorso degli italiani in Francia si presterà gande attenzione ai dati statistici, attingendo alle serie storiche curate dall’Istat e a qualche fonte francese. Quindi, per il loro commento, si terrà conto delle osservazioni più perspicaci rinvenute nella bibliografia specifica, di cui si riporteranno alla fine alcuni titoli.
Un percorso così snello, inframmezzato da qualche nota ritenuta essenziale, aiuterà a non perdere di vista il quadro d’insieme e a soffermarsi sugli interrogativi posti da questo immenso spostamento di persone, come verrà fatto nelle riflessioni conclusive.
L’evoluzione italiana in Francia fino alla prima guerra mondiale
I dati statistici sugli spostamenti degli italiani diretti verso la Francia sono disponibili dagli anni ’20 del XIX secolo, pur essendo stati i flussi in atto già nel periodo precedente, specialmente verso il sud-est e l’area parigina. I primi protagonisti furono i lombardi, un termine riferito a tutti i settentrionali, seguiti dai toscani e infine da persone di altre regioni centrali. Si trattava, nelle migrazioni del passato, di commercianti, letterati, artisti, musicisti, studiosi, religiosi e politici. La componente professionale era molto diversa da quella che avrebbe caratterizzato il successivo esodo di massa di italiani, che si sviluppò dopo l’Unità d’Italia.
Al censimento del 1861 gli italiani residenti in Francia risultarono 63.407, in prevalenza originari del Piemonte, su un totale di 380 mila stranieri. Essi diventarono 165.813 nel 1876, 299.000 nel 1881, 339.465 nel 1901 e 419.234 nel 1911, più di un terzo della presenza straniera costituita da italiani
Nel corso del primo decennio del nuovo secolo la Francia diventò lo sbocco principale per gli italiani, imponendosi sulla Svizzera e sulla Germania. Tra il 1873 e il 1914 emigrarono in Francia 2 milioni di italiani, ma molti di essi rimpatriarono, praticando una migrazione temporanea, allora molto diffusa. Oltre a inserirsi in agricoltura e nell’industria, gli italiani si adattarono anche a svolgere i mestieri più umili, operando come ambulanti, suonatori di organetto, lustrascarpe, spazzacamini, specialmente nella città di Parigi, a guadagnarsi da vivere come modelle.
Verso la metà del XIX secolo, il fabbisogno di manodopera supplementare indusse la Francia a incoraggiare l’arrivo della manodopera italiana. Questa presenza fu inizialmente temporanea modalità resa possibile dalla vicinanza geografica dei due Paesi, e poi diventò più stabile. La componente femminile fu presente fin dall’inizio, seppure minoritaria, e operava presso le famiglie (pulizia, cucina, stiro) e presso gli ospedali che si occupavano dei neonati. Le donne lavoravano anche come braccianti agricole e come operaie nelle industrie tessili.
Nei confronti degli italiani l’atteggiamento fu negativo fin dall’inizio. Essi, pur ritenuti indispensabili dai datori di lavoro, erano guardati con preoccupazione dai sindacati e dai lavoratori del posto, mentre a livello culturale si nutriva scarso apprezzamento se non disprezzo nei loro confronti perché, come si può leggere in qualche documento, con «la loro vile devozione e nefandezza» non potevano non macchiare «il suolo rivoluzionario della Francia». Il loro continuo aumento non poteva non acuire un tale contesto e portarlo a espressioni di razzismo.
Ne furono un esempio i “vespri marsigliesi”, svoltisi nel 1881, dal 17 al 20 giugno, in occasione della sfilata del corpo di spedizione francese di ritorno dalla Tunisia, posta sotto il protettorato francese, mentre anche l’Italia avrebbe ambito averla come colonia. Si scatenò una caccia agli italiani, fin dentro le loro case, e il tragico bilancio fu di 3 morti e 20 feriti. Un tale accanimento contro gli italiani fu ritenuto sacrosanto dal giornale locale Le cri du peuple, che pubblicò privo di umanità ma indicativo dell’ostilità a questa comunità di emarginati:
«Vivono tra di loro – si leggeva nel servizio – non si uniscono alla popolazione, mangiano e dormono in camerate come soldati accampati in terreno nemico… Si mettono in otto, dieci, quindici in una camera. [...] Non sono esigenti. Basta un pagliericcio. Al momento del raccolto si ammucchiano uno sull’ altro per riposare; e per settimane intere non si spogliano mai».
Un altro fatto increscioso si svolse a Aigues-Morts il 17 agosto 1893. Qui i morti furono una decina, in aggiunta ai numerosi feriti, e il linciaggio, scoppiato a seguito della falsa notizia dell’uccisione di un francese da parte di un italiano, rifletteva la preoccupazione per la salvaguardia dei posti di lavoro a fronte di una presenza di piemontesi così massiccia nelle locali saline, tanto più che essi erano disponibili a lavorare a qualsiasi condizione. Anche in questo caso il quotidiano locale fu dell’avviso che era necessario difendersi dall’invasione degli italiani.
A peggiorare la situazione contribuì l’assassinio del Presidente della Repubblica, Marie Francois Sadi Carnot, compiuto da un anarchico italiano, ad opera del lombardo Sante Geronimo Caserio. Avvenne nel 1894. Si trattava di uomo politico al culmine della sua popolarità, che in quello stesso anno aveva fatto organizzare, con uno straordinario successo, l’Esposizione universale a Parigi. Il delitto, consumato nel corso di un comizio, ebbe una vastissima eco e non solo in Francia.
Il grande vescovo dei migranti, mons. Giovan Battista Scalabrini (1839-1905), di fronte al «nefasto delitto» riconobbe, da una parte, che «pochi delinquenti che si annidano come serpi tra i fiori» potessero pregiudicare l’immagine degli italiani, e stigmatizzò, d’altra parte, che il fatto avesse offerto il pretesto «a minacce e persecuzioni, a caccie all’italiano» e anche a «odio di razza», complici «le malcelate ire contro lavoratori concorrenti, più abili e più apprezzati».
Ma, intanto, continuava a esserci bisogno degli italiani, che non solo restarono in Francia ma aumentarono numericamente. Essi, per difendersi da un ambiente ostile, tendevano a lavorare sodo per poi ritirarsi e condurre una vita riservata. Cresceva, inoltre, la percentuale di quelli che si stabilizzavano sul posto e di quelli che si naturalizzavano stranieri. Tra di essi vi fu anche Maurice François Garin (1871-1919), un grande ciclista, che iniziò a lavorare come spazzacamino (ramoneur), e vinse la prima edizione del Tour de France (1903).
L’emigrazione italiana in Francia dopo la prima guerra mondiale
Rispetto ai nuovi flussi dall’Italia del dopoguerra l’area parigina si impose su quelle del sud-ovest e si rafforzò l’attrattività della Lorena. All’inizio del secondo decennio del secolo la collettività italiana in Francia risultava consistente: 450.900 nel 1921 (per il 43,1% le donne).
Nel conflitto mondiale la Francia aveva subìto un’enorme perdita di soldati e, con conseguente penuria di manodopera, si confermò come sbocco principale per gli emigrati italiani, tanto più che gli scali transoceanici erano diventati meno praticabili: nel 1921 emigrarono in Francia quasi 45 mila italiani e in tutto il decennio l’andamento fu sostenuto, superando per due volte le 100 mila unità (ben 167.000).
Il secondo decennio fu meno vivace. Nel 1930 gli espatri furono 333 mila e poi, facendosi sentire gli effetti della crisi mondiale, si ridussero a qualche migliaia allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Tra il 1920 e il 1939 si spostarono in Francia 1.312.733 persone, il 40% di tutti gli emigrati italiani di quel periodo. Gli italiani residenti sul posto, che erano 1.312.733 nel 1932, andarono riducendosi, diventarono solo 314.767 nel 1936, per poi andare ulteriormente a diminuire.
Il dopoguerra conobbe infine l’allentarsi dell’sprezza dei francesi nei confronti degli italiani, anche se il protagonismo delle nuove generazioni emerse solo nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Significativo fu il cambio di atteggiamento dei francesi durante il governo socialista di Léon Blum (1936-1937). Questo iniziale passo in avanti fu, comunque, problematico per il fatto che in Italia si era consolidato il regime fascista, che nel 1940 si schierò con la Germania contro la Francia e gli altri Alleati e costrinse molti italiani a rifugiarsi all’estero.
Furono numerosi gli esuli politici italiani che trovarono asilo in Francia, molti dei quali anche di estrazione operaia, anche se questa componente è stata oscurata dal risvolto dei nomi dei personaggi politici e dei rappresentanti del mondo della cultura. Secondo stime, a lasciare l’Italia per avversione al regime, anche approfittando della possibilità di emigrare per motivi economici, furono almeno 100 mila persone, ma alcuni autori ritengono si possa raddoppiare e addirittura triplicare [2].
Tra gli esuli vi furono molti tra quelli che sarebbero poi diventati protagonisti della politica italiana del dopoguerra. L’ex presidente del Consiglio de Ministri Francesco Saverio Nitti arrivò nella capitale francese passando per Zurigo. Più fortunoso fu l’espatrio di Filippo Turati, l’anziano referente del socialismo italiano, che fu costretto a una avventurosa traversata in una barca a motore, partendo da Livorno per la Corsica. In pratica, i partiti politici, soppressi in Italia, avevano spostato la loro centrale a Parigi. Qui nel 1927 fu costituita la Concentrazione antifascista. Per altri, come l’accademico Gaetano Salvemini, la Francia fu solo una tappa intermedia, da dove proseguì per gli Stati Uniti.
Per la maggior parte degli esuli la vita a Parigi fu piena di stenti e in parte attenuata dalla mutua solidarietà, ma ricca di continue riunioni, spesso molto animate. Gli esuli erano attivi nel denunciare gli aspetti negativi del regime fascista, sia tra gli italiani che tra i francesi, contrastando i simpatizzanti del regime che creavano i fasci sul posto. Questi attivisti erano continuamente controllati dagli agenti del potente servizio segreto fascista (Ovra), che disponeva di circa 5 mila unità. I fratelli Carlo e Nello Rosselli, molto attivi tra la collettività italiana, furono assassinati nel 1937 dal regime fascista, che ricorse a complicità locali. Molti esuli italiani si recarono in Spagna durante la guerra civile, combattendo nelle milizie repubblicane, mentre altri si arruolarono nella Legione straniera.
L’Italia, entrando in guerra, richiamò alle armi anche i suoi emigrati. Rispose all’appello la collettività italiana in Francia, da dove rientrarono in 160 mila emigrati tra il 1939 e il 1941. Secondo stime, 18 mila, invece, rimasero sul posto per sostenere la Resistenza all’occupazione nazista. Le autorità francesi, sul territorio nazionale e nelle colonie, adottarono la misura dell’internamento nei confronti degli immigrati italiani sospettati di adesione al fascismo: il provvedimento riguardò 20 mila italiani. L’internamento, una misura coercitiva attuata in via amministrativa e non a seguito di una decisione giudiziaria, da un lato era comprensibile nella situazione data, e dall’altra, non era esente da aspetti problematici: un dibattito analogo riguardò la Gran Bretagna, l’Australia, il Canada e gli Stati Uniti.
Italiani emigrati in Francia nel periodo 1921-1939
1921 | 44.782 | 1931 | 74.115 |
1922 | 99.464 | 1932 | 33.516 |
1923 | 167.982 | 1933 | 35.745 |
1924 | 201.715 | 1934 | 20.725 |
1925 | 145.529 | 1935 | 11.666 |
1926 | 111.252 | 1936 | 9.614 |
1927 | 52.784 | 1937 | 14.717 |
1928 | 49.351 | 1938 | 19.551 |
1929 | 51.001 | 1939 | 2.015 |
1930 | 167.209 | 1920-1939 | 1.312.733 |
FONTE: Annuario Statistico Italiano 1944-1948, Roma 1949
L’esperienza degli italiani in Lorena [3]
Quanto detto sull’inserimento degli italiani in Francia può essere riproposto, con maggiori particolari, facendo riferimento al caso della Lorena, una delle aree più ricettive della manodopera straniera. Nella prima metà dell’Ottocento, la Lorena era una terra prevalentemente agricola e poi conobbe una eccezionale industrializzazione. Una parte di quei territori fu annessa al Reich dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871, conclusa con la sconfitta della Francia, costretta a cedere i territori dell’Alsazia e della Lorena, subendo così la rilevante perdita di risorse minerarie e siderurgiche. Quei territori ritornarono nella sovranità della Francia dopo la prima guerra mondiale del 1915-1918.
Un grande apporto allo sviluppo della regione fu assicurato dagli immigrati, italiani, belgi e lussemburghesi e poi anche dagli immigrati di altri Paesi. I flussi in entrata erano sollecitati dalle autorità per il fatto che, dopo il 1895-1896, la manodopera interna non riusciva a soddisfare le esigenze di sviluppo. Gli immigrati andarono incontro a un misto di accoglienza e di xenofobia, quest’ultima da ricollegare a quel senso di nazionalismo che attecchisce più facilmente in una zona di confine.
Una certa criticità era riscontrabile anche nei rapporti tra la classe, e cioè tra gli operai immigrati e quelli autoctoni, per i quali la presenza straniera era di pregiudizio alla continuità occupazionale, nonostante i sindaci si sforzassero di organizzare unitariamente gli uni e gli altri. Il sentimento xenofobo era accortamente utilizzato dagli imprenditori nelle fasi critiche della produzione e non si facevano scrupolo di espellere la manodopera straniera ritenuta eccessiva. Comunque, nonostante tutto, si inserì nell’area un numero rilevante di lavoratori immigrati.
Gli italiani si riversarono nel settore delle costruzioni e del terrazzamento, e si rivelarono sempre più necessari per sostenere l’ampliamento dell’industrializzazione. Quindi, grandi masse emigrarono per andare a lavorare nelle fabbriche e nelle imprese, non sempre inserendosi in programmi ufficiali di reclutamento ma anche su iniziativa dei singoli imprenditori, che ricorrevano ai servizi di mediatori e agenti di emigrazione: inoltre, gli stessi immigrati si davano da fare attraverso le loro reti parentali e amicali. Nel primo decennio del XX secolo gli italiani erano maggiormente concentrati nelle miniere, nel frattempo diventate più numerose, piuttosto che nelle fabbriche siderurgiche.
La stabilità degli italiani sul posto fu inizialmente minima, tanto che furono denominati “les hirondelles”, perché, come le rondini, arrivavano nel mese di aprile e ripartivano nel mese di ottobre. Gli imprenditori si adoperarono molto per incrementare la loro permanenza. Alla vigilia della prima guerra mondiale già 80 mila lavoratori italiani abitavano a Meurthe-et-Moselle e nella Moselle occupata dai tedeschi, come anche in alcuni altri centri. Invece, la città di Metz fu inizialmente solo uno snodo di passaggio, mentre successivamente diventò uno sbocco occupazionale per chi lavorava nelle costruzioni. Gli italiani erano originari delle regioni settentrionali (Veneto, Lombardia e Piemonte) e, in parte, delle regioni dell’Italia centrale.
A cavallo dei due secoli, con la diffusione delle idee socialiste, si rafforzò la sindacalizzazione, promossa dai francesi e anche dagli italiani. A segnalarsi nel proselitismo sindacale fu, ad esempio, Giulio Cavallazzi, proveniente dalla Società Umanitaria di Milano. Anzi, secondo gli imprenditori, sarebbe stato notevole il protagonismo sindacale soverchiante degli italiani, ma la tesi fu sostenuta strumentalmente, per poter procedere più liberamente nei licenziamenti, con conseguenti espulsioni, nel corso dei grandi scioperi del 1905-1906. Nel corso degli eventi bellici, iniziati nel 1915 e perversanti in quell’area, buona parte della collettività italiana numericamente consistente (tra il 10 e il 15% della presenza straniera) restò sul posto.
Cessate le ostilità, l’Alsazia e la Lorena, come accennato, passarono nuovamente alla Francia, che si mostrò contraria (nonostante la disponibilità dei sindacati) a impiegare lavoratori tedeschi a titolo di riparazione degli anni di guerra. La strada rimaneva, così, aperta all’arruolamento degli italiani reclutati in Italia dalle imprese o recatisi sul posto per proprio conto. Poiché arrivarono anche immigrati di altre nazionalità, la Lorena fu denominata “la Torre di Babele”. Gli italiani, pur meno numerosi rispetto al passato, restavano la prima comunità straniera.
Thionville e Metz furono i principali centri di arrivo degli italiani, mentre nella fase successiva essi preferivano insediarsi nei piccoli villaggi, dove la consistenza degli stranieri talvolta superava quella dei francesi. Agli italiani del settentrione, tradizionalmente presenti sul posto, si affiancarono, in misura maggiore rispetto al passato, quelli provenienti dalle regioni centrali. Il dopoguerra si caratterizzò per la notevole presenza dei polacchi (70 mila nel 1931). Dopo l’arrivo dei lavoratori dell’Est Europa, risultò ridimensionata la predominanza degli italiani nel settore minerario e siderurgico e la loro percentuale tra gli operanti in miniera diminuì dal 60% del 1919 al 20% del 1930, e questo cambiamento fu un significativo indicatore della loro ascesa sociale.
La grande crisi mondiale del 1931 indusse gli industriali della Lorena a ricorrere ai licenziamenti. I polacchi, che avevano maturato una minore anzianità di servizio, furono maggiormente colpiti da questi provvedimenti e in diversi comparti l’incidenza degli italiani tornò ad essere molto elevata (ad esempio, pari al 40% negli altiforni). Anche gli italiani, seppure in misura minore rispetto ai polacchi, furono soggetti ai licenziamenti. Quelli rimasti senza lavoro o si trasferirono dalle miniere nelle fabbriche, o si recarono nelle regioni agricole, oppure iniziarono una loro attività come negozianti e locandieri. Non si trattò, in ogni modo, di una cacciata degli stranieri, indispensabili nelle miniere e negli stabilimenti siderurgici, tant’è che la legge del 1931 sulla riduzione della manodopera straniera fu applicata in Lorena solo nel 1936.
Secondo alcune stime gli immigrati provenienti dalla penisola sarebbero stati circa 100 mila nel 1931. Un rapporto del 1938 attestava che il 75% degli italiani in Moselle era impiegato in lavori industriali, il 25% nel commercio e nella piccola imprenditoria. Rispetto alla precarietà del passato era in atto un certo processo di stabilizzazione. Tuttavia, gli italiani tendevano a vivere in maniera autonoma, benchè tale tendenza fosse invisa al governo e alimentasse tra gli autoctoni un sentimento xenofobo seppure meno duro rispetto al passato. L’ideologia predominante era quella dell’assimilazione, allora presentata come “francesizzazione”, di difficile accettazione per gli italiani, parte dei quali (specialmente se emigrata da poco) neppure parlava l’italiano ma solo il proprio dialetto. L’anzianità di presenza era considerata un fattore importante dagli imprenditori e in ragione di esso gli italiani e i lussemburghesi erano preferiti ai marocchini. Per la stessa ragione, all’inizio della seconda guerra mondiale, quando l’Italia ancora manteneva la neutralità, erano le stesse autorità francesi a desiderare che gli italiani restassero in Francia.
La guerra, che ebbe il suo teatro di svolgimento sul posto, interruppe questo processo di faticoso ma effettivo inserimento, durante il quale gli italiani si abituarono a una maggiore partecipazione sociale e, specialmente, sindacale. La sindacalizzazione degli italiani, che non ebbe un carattere di continuità, in alcuni periodi ebbe un carattere di massa e assicurò un forte sostegno alle rivendicazioni operaie: ciò avvenne a seguito della diffusione delle idee socialiste, specialmente nel periodo del Fronte popolare del 1936-1938, mentre dopo seguirono i licenziamenti che il sindacato non fu in grado di contrastare.
Dal tenore di diversi studi condotti su quel periodo risulta che il caso della Lorena non fu un esempio di lineare e progressiva integrazione, ma un caso di “integrazione spinta” da porre in contrasto con la situazione degli italiani emigrati stabilitisi nella Francia meridionale. Anche in quel periodo il percorso degli italiani fu molto lungo, carico di problemi e contrassegnato dalla separatezza, con l’eccezione dell’integrazione avvenuta in ambito sindacale, seppure con i limiti prima ricordati. Pare, inoltre, che il fatto di essere una regione di confine, insieme alla forte avversione nei confronti dei tedeschi, accentuasse nella Lorena la propensione a un forte sentimento nazionalista e per diversi aspetti xenofobo. Come intuibile, l’analisi più approfondita di quanto è avvenuto in questa regione tornerà utile nelle riflessioni conclusive.
L’emigrazione italiana in Francia nel secondo dopoguerra
Il primo periodo del dopoguerra: 1946-1960
Dopo la guerra riprese Il cammino della speranza degli italiani verso la Francia e questa volta coinvolse anche gli abitanti del Meridione. Questo cammino fu presentato con le immagini indimenticabili del regista Pietro Germi nell’omonimo film. I nuovi venuti andavano a incrementare i membri della collettività, che, secondo il censimento francese, nel 1946, erano 203.517, in maggioranza maschi, esclusi quelli che avevano già acquisito la cittadinanza francese. Gli espatri, in parte inquadrati in un programma ufficiale e in parte spontanei, diventarono ben presto 50 mila e conobbero il picco di 115 mila nel 1957. Sulla forza lavoro straniera impiegata sul posto gli italiani incidevano per circa un terzo. Sulle tradizionali mete del sud-ovest si impose l’area della Lorena e quella confinante con il Belgio.
Complessivamente, nel periodo 1946-1969, che fu quello del massimo esodo del dopoguerra, gli espatriati in Francia furono 784.560. Questi flussi non erano trascurabili, ma la Francia, ormai, non era la meta prioritaria del movimenti migratori italiani, indirizzati piuttosto in Svizzera, in Germania e anche in Australia e in Canada. All’inizio degli anni ’60 ritornarono in Francia i francesi dalle ex colonie e con essi molti italiani residenti in Tunisia, perché, anche se non erano formalmente cittadini francesi, avevano assimilato la cultura di questo Paese, dove pensavano di potersi sistemare più facilmente.
Per rendersi conto delle caratteristiche dei movimenti in atto nell’immediato dopoguerra sono d’aiuto alcune testimonianza dell’epoca [4]. Gli uomini, che partivano da soli, erano poi raggiunti dalle proprie mogli o fidanzate e la presenza assunse un carattere più familiare. Specialmente all’inizio, la situazione riscontrata sul posto non risultò pari alle attese, perché lo sfruttamento era elevato e diffuso, come andarono denunciando i rappresentanti dell’Opera Bonomelli.
In una sua ricerca sull’emigrazione del secondo dopoguerra, nella quale si fa un particolare riferimento alla Francia, Sandro Rinauro ha sottolineato che l’immigrazione illegale non è un fenomeno dei tempi più recenti ma era anche allora molto praticata [5]. Fino all’entrata in vigore del Regolamento CEE sulla libera circolazione (1968), fu elevato il tasso di irregolarità nei flussi degli italiani, anche perché era relativamente facile superare le frontiere. Secondo questo autore si può stimare che nel quindicennio 1946-1960 più della metà della manodopera italiana in Francia fosse giunta sul posto senza autorizzazione e che il tasso di clandestinità dei familiari giungesse al 90%. Questa situazione, che potrebbe essere considerata abnorme, risultò praticabile in un Paese assolutamente bisognoso di manodopera aggiuntiva, andando oltre la rigidità della normativa.
Emigrati italiani annualmente in Francia nel periodo 1946-1960
1941 |
2 |
1942 |
27 |
[…] |
[…] |
1946 |
28.135 |
1947 |
53.245 |
1948 |
40.231 |
1949 |
52.345 |
1950 |
18.083 |
1951 |
35.099 |
1952 |
53.810 |
1953 |
36.687 |
1954 |
28.305 |
1955 |
40.713 |
1956 |
87.552 |
1957 |
114.974 |
1958 |
72.469 |
1959 |
64.259 |
1960 |
58.624 |
Totale 1946-1960 |
784.560 |
FONTE: centro studi e ricerche IDOS. elaborazioni su ISTAT
Il periodo intermedio: 1970-1999
In questo periodo fu rilevante l’influsso di tre fattori: la diminuzione delle partenze per la Francia, l’aumento dei rimpatri in Italia (in grado, per la favorevole congiuntura, di assorbire quote di connazionali emigrati) e, in Francia, l’aumento dei casi di naturalizzazione tra quelli già residenti. La buona congiuntura economica dell’Italia consentì che i rimpatri prevalessero sugli espatri, molto ridotti rispetto al passato: le partenze furono dal 1976 sempre al di sotto delle 5 mila unità, eccetto in due anni. Nell’intero periodo 1970-1999 le partenze registrate dall’Istat per la Francia sono state solo 835.065, dei quali più della metà relativi al primo decennio (65.268). Da circa 9 mila espatri all’inizio del periodo si scese, alla fine dello stesso, a 2-3 mila casi, non più dettati dal bisogno, ma riferibili a esigenze di ricongiungimento familiare o inserimento a livelli professionali più qualificati.
L’inserimento sul posto diventava, nel frattempo, sempre più profondo. Negli anni ’70-80 gli italiani mostrarono un grande dinamismo nel creare e mandare avanti piccole imprese, tanto da essere conosciuti più per questa loro attività autonoma che come operai come avvenne nel passato. Diventò più consistente anche la partecipazione delle donne italiane, peraltro mai mancato nella storia dell’emigrazione in Francia.
L’andamento negli anni ‘2000
Nel primo decennio del 2000, quando il tasso di disoccupazione in Italia è stato relativamente basso i flussi degli italiani diretti in Francia, secondo l’Istat, sono stati inferiori a quelli del decennio precedente, con poche migliaia l’anno (tra le mille e le 3 mila unità). La situazione è cambiata dopo la crisi del 2008, duramente risentita in Italia, che nel decennio seguente ha visto aumentare l’esodo all’estero di persone in prevalenza giovani e con un alto livello di studio, in grado di svolgere mansioni elevate rispetto a quelle rinvenibili sul posto. Questa categoria di emigrati è in tutta evidenza molto dissimile dagli italiani che lasciarono l’Italia nella prima metà del secolo scorso e anche nei primi decenni del secondo dopoguerra: può essere definita quella dei “migranti globalizzati”. Si tratta di persone più preparate e meno spaesate, con problemi di integrazione e di assistenza del tutto diversi rispetto al passato, meno disposte a legare con gli italiani e gli oriundi residenti sul posto, portatrici di nuovi interessi, inserite piuttosto nell’associazionismo dei cosiddetti “expat”.
Attualmente in Francia, gli italiani, che si registrano nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), sono annualmente circa 14 mila, di cui solo i due terzi per effettiva emigrazione dall’Italia. A spostarsi non sono più in grande prevalenza i meridionali ma sono coinvolte anche le altre regioni d’Italia. La collettività in Francia, registrata come residente dalla citata Anagrafe, è di 220 mila persone, abbastanza anziane: i minori incidono solo per il 13% e quelli con 65 anni per più del 23%. La loro provenienza è così ripartita: poco meno del 40% dal nord, il 14% al centro e il 43% dal sud e dalle isole.
La consistenza attuale della collettività italiana rispetto a quella del 1901 è dunque assai ridotta, inferiore di oltre 100 mila unità a quella del 1901 e ben quattro volte inferiore a quella censita nel 1931. Questi italiani, insieme ai naturalizzati francesi (più del doppio rispetto ad essi) e ai milioni di oriundi italiani, come accennato in premessa, coscientemente o meno sono portatori di una grande storia migratoria, segnata da molteplici aspetti negativi e, ancor di più, da un desiderio di riscatto che pone seri interrogativi.
Gli italiani in Francia nel XX secolo
Anno | Italiani | Anno | Italiani |
1901 |
330.465 |
1946 |
450.764 |
1906 |
377.638 |
1962 |
644.680 |
1911 |
419.234 |
1968 |
585.880 |
1921 |
450.960 |
1975 |
462.600 |
1926 |
760.116 |
1982 |
340.306 |
1931 |
808.038 |
1990 |
252.759 |
1936 |
720.926 |
1999 |
201.670 |
FONTE: censuari ISEE (Institut National des Statistiques et des études économiques).
Da tempo non si utilizzano più nei confronti degli italiani termini come “macaoni, titals, cristos” ed essere di origine italiana non è più, come una volta, un motivo di disprezzo o di scarso apprezzamento. Si può concludere che il modello migratorio seguito in Francia, che ha portato a rendere gli italiani in tutti gli ambiti simile agli autoctoni, è pienamente riuscito? Bisogna al riguardo introdurre diverse distinzioni. L’integrazione in Francia è stata problematica e sofferta nonostante si tratti di un Paese vicino, dalle comuni radici culturali e religiose e dalla lingua simile.
Anche il caso della Francia evidenzia la discrasia tra le necessità occupazionali, fatte valere dagli imprenditori e recepita dai governanti, e l’atteggiamento della popolazione, meno disponibile ad accettare persone diverse per tradizioni, cultura, lingua e comportamenti religiosi. Il Paese d’oltralpe indica che la xenofobia non è stato un atteggiamento riservato ai meridionali (e anche in tal caso non sarebbe giusto praticarlo) ma ha riguardato innanzi tutto i “lombardi” (termine con il quale si indicavano gli italiani) e induce, quindi, alla ricerca delle sue radici più profonde. La solidarietà di categoria, e cioè il coinvolgimento nel sindacato, seppure non continuo e di diversa intensità, è valso a stemperare la reciproca estraneità tra i lavoratori, mentre per generazioni è perdurata l’estraneità socio-culturale tra la popolazione autoctona e quella immigrata. Quella che è stata spesso definita la tendenza ad estraniarsi degli italiani e a confinarsi nel proprio gruppo è stata una strategia di sopravvivenza, attuata cioè per difendersi dall’emarginazione nella società di accoglienza.
L’accettazione degli italiani si è riscontrata in Francia solo dopo l’arresto di rilevanti flussi in arrivo e il progredire dell’integrazione europea (un fattore assolutamente non trascurabile) e l’accentuarsi delle naturalizzazioni. Con una certa esagerazione, si potrebbe dire che gli italiani sono stati accettati quando essi non sono apparsi più tali ma completamente assimilati ai francesi.
In ogni modo cosa resta dell’italianità, e si è trattato di un investimento a fondo perduto? Le critiche che si possono muovere all’accoglienza riservata dai francesi agli italiani, pur essendo fondate, non attestano che gli italiani, in condizioni simili, sono così diversi da comportarsi meglio. Nell’immediato dopoguerra è stato constatato il contrario, quando milioni di meridionali si spostarono nel nord per rispondere al fabbisogno di manodopera delle industrie locali. Lo si sta constatando anche attualmente rispetto alla presenza degli stranieri, con una netta chiusura verso quelli che arrivano e una incredibile noncuranza rispetto a quanti sono già residenti in Italia.
Andando a fondo nel ragionamento, bisogna rendersi conto che il confine, la cittadinanza (interna e tra i Paesi), la diversità sono delle realtà limite, “concetti limite” che interpellano in profondità i singoli e i decisori pubblici, e vanno ben al di là delle schermaglie tra i partiti. Come un concetto limite è il binomio economia-umanità, raramente risolto con equilibrio nella storia delle migrazioni e non solo nel caso della Francia.
Gli italiani, un po’ più sopportati negli anni ’30 nonostante l’avversione al fascismo, ancora per così dire sub iudice nei primi due decenni del secondo dopoguerra, hanno conosciuto affermazioni a catena successivamente, quando le origini italiane erano diventate più labili e la tonalità francesi erano diventate più forti.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Questi numeri, risultanti da una stima del entre Interdisciplinaire de Recherche sur la Culture des Echanges (CIRCE) dell’Università Sorbona-Parigi, non includono né gli italiani che hanno conservato la cittadinanza italiana né gli autoctoni del Nizzardo e della Corsica e del Nizzardo, dove si parlava italiano fino al 1853.
[2] Cfr. Miniati E, “I liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscitismo regionale, in Percorsi storici, rivista di storia contemporanea”, http://www.percorsistorici.it/17-numeri-rivista/numero-1/72-emanuela-miniati-antifascisti-liguri-in-francia-caratteristiche-e-percorsi-del-fuoriuscitismo-regionale.html..
[3] Cfr. sul sito sul sito Storicamente il saggio critico, con ampia bibliografia, di Pietro Pinna,” Operai italiani in una regione di frontiera. Storia delle migrazioni italiane in Lorena (1890-1939, in Storicament, 5/2009, https://storicamente.org/emigrazione-italiana-in-francia.
[4] M. S. J., “La nostra emigrazione in Francia. Aspetti psicologici. Seconda Parte”, in Aggiornamenti sociali. maggio 1954: 167-182.
[5] Rinauro S., Il cammino della speranza L’emigrazione clandestina degli italiani nl secondo dopoguerra, Einaudi, Torino, 2009.
Riferimenti bibliografici
Bechelloni, M. Dreyfus, P Milza, L’intégration italienne en France. Un siècle de présence italienne dans trois régions françaises (1880-1980), Bruxelles, Ed. Complexe, 1995
Cortese A., L’emigrazione italiana in francia dal 1876 al1976.Uno sguardo d’insieme, TAU, 2001
Corti, P., «L’emigrazione italiana in Francia: un fenomeno di lunga durata», Altreitalie, 26, 2003: 4-26
De Clemetti, “L’emigrazione femminile fino alla seconda guerra mondiale”, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel mondo. Edizioni IDOS, Roma, 2008: 114-123
Miranda A., “Le migrazioni italiane in Francia tra transizione intergenerazionale, oblio e nuove mobilità”, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italianinel mondo 2008, Edizioni IDIS, Roma, 208: 316-328
Mourlane, S. et Païni, D., Ciao Italia! Un siécle d’immigration et de culture italiennes en France, Paris, La Martinière, 2017
Pinna P., “Operai italiani in una regione di frontiera. Storia delle migrazioni italiane in Lorena (1890-1939) in Storicament, 5/2009, https://storicamente.org/emigrazione-italiana-in-francia
Rinauro S., Il cammino della speranza L’emigrazione clandestina degli italiani nl secondo dopoguerra, Einaudi, Torino, 2009
Salsi S, “L’emigrazione italiana delle donne in Francia”, in Dialoghi Mediterranei, n. 22, novembre 2016, (con interessante rassegna della bibliografia dedicata all’emigrazione femminile)
Sanfilippo, M., «Gli italiani in Francia nella lunga età moderna (xv-xx secolo)», Studi Emigrazione, 187, 2012: 456-83.
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
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